Xavier Dolan è pop. È hipster. Eccessivo, adatto solo ai videoclip. Dolan è più bravo come attore che come regista. È egocentrico e pretenzioso. È tutto fumo, un personaggio confezionato ad hoc. È superficiale, ha poca cultura cinematografica. Xavier Dolan “non parlava quasi inglese durante l’intervista” (giuro, ho sentito dire anche questo).
Questa la raccolta dei commenti bisbigliati dai giornalisti in attesa da due ore di poterlo fotografare durante il suo passaggio sul red carpet dell’Auditorium Parco della Musica per la Festa del Cinema di Roma, venerdì 27 ottobre.
Io stavo lì, con loro, senza pass stampa, nelle retrovie, aspettando di poterlo ascoltare durante la masterclass. Xavier arriva, capelli ossigenati anni ’80, firma autografi, dvd libri e qualsiasi altro oggetto gli mettano sotto il naso, risponde a domande frenetiche fatte dai giornalisti, si fa incastrare in numerosi selfie. Eravamo tanti, e tantissimi di noi erano sotto i venticinque anni.
Xavier Dolan ha 28 anni, ha vinto due premi a Cannes e in Italia non si vedeva da un po’. Per questo comprare un biglietto per il suo incontro è stato complicato come trovare un biglietto per un concerto a San Siro: Xavier è “rock” nel modo in cui tutti i suoi coetanei “cool” vorrebbero essere.
Xavier Dolan è stato intervistato da Antonio Monda per un’ora e un quarto, mentre dietro di loro venivano proiettati sei spezzoni tratti dai suoi film e due spezzoni scelti dallo stesso Dolan come fonte di ispirazione.
L’intervista procede scardinando tutti gli stereotipi sui registi-autori: Dolan racconta di aver cominciato a fare il regista senza il “sacro fuoco” del binge watcher di film della Nouvelle Vague, senza scuole di cinema, senza un maestro. Dolan comincia a fare cinema perché voleva essere il protagonista da un film, ma nessuno lo stava scritturando: nasce così J’ai tué ma mère, filmato a 21 anni.
Nasce così la vera ispirazione del regista canadese e mentre le scene dei suoi film scorrono sul maxi schermo, le domande di Monda incalzano, cosa significa per te fare cinema, come nascono le tue storie, preferisci dirigere o recitare: Dolan sa esattamente come “darsi” a noi pubblico in estasi e non è cosa da poco. Il suo è un cinema “che racconta i combattenti, io racconto di persone che lottano per essere loro stesse, anche se non sempre raggiungono la felicità”. Questo ci incanta del ragazzo con i capelli biondi, estremamente espressivo e sorridente, che sta parlando davanti alla stessa sala dove sabato 5 David Lynch ritirerà il premio alla carriera. Viene poi proiettata la sequenza de Les amours imaginaires dove due protagonisti hanno un dialogo serratissimo- girato quasi one shot– in cui lei gli confessa di aver inviato una poesia d’amore per posta, anonima, rimasta ignorata.
“Ho scritto alcuni dei miei film perché avevo il cuore spezzato, o perché volevo che qualcuno che amavo si accorgesse di me” : cosa c’è di più riconoscibile in queste parole e in quella scena? Il ritmo incalzante, il tentennare di lui, la tensione di lei nel confessarsi, c’è dietro il desiderio di essere amati ed amare che muove quasi tutta la nostra vita.
Ma i modelli Dolan li ha, eccome. Cita Wong Kar Wai in In the mood for love come riferimento per lo slow motion nella camminata della madre in J’ai tué ma mère, “in quella scena c’è così tanto Wong Kar Wai che ho avuto paura mi denunciasse”. Boato in sala, Dolan + Kar Wai è un’accoppiata che ucciderebbe anche l’essere umano più distaccato.
Dolan ha una sensibilità straordinaria, certo, ma è pur sempre un ragazzo nato alla fine degli anni ’80, non può essere immune a una certa cinematografia di culto pop.
E infatti confessa che a 8 anni è stato Titanic a fargli credere di poter anche lui un giorno realizzare un film: è l’esaltazione, quella che riconosciamo e amiamo nei suoi film e in lui, tanto che lui stesso racconta di aver citato il blockbuster iconico proprio in una cena al cospetto di Paul Thomas Anderson, Julian Schnabel, Sean Penn e altri grandi.
Quello che mi colpisce più di tutto, nelle sue parole, è l’estrema sincerità, che non sembra mossa di marketing o finta umilità, ma genuina passione di un ragazzo geniale a cui è piombata addosso la fama.
Mentre rivediamo le sequenze dei suoi film, tutte scelte accuratamente fra le meno “banali”, ci spelliamo le mani ed emettiamo grida di entusiasmo e quasi siamo costretti dentro le poltroncine da cinema perché vorremmo alzarci, muoverci, sgolarci. Come a un concerto.
Dolan ci stupisce anche sul finale, scegliendo lui due film di culto – Birth di Jonathan Glazer e Mysterious Skin di Gregg Araki, di cui viene proiettata per errore la sequenza più forte – e parlando di Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino (regista italiano fra i più sottovalutati in patria), un film che ha amato particolarmente, per poi concludere con:
“ … la maniera in cui cresci [professionalmente, ndr] è prendendo in prestito da altri e sbagliando, anche Francis Ford Coppola dice: “Noi vogliamo che rubiate da noi. Rubiate le nostre inquadrature, le nostre idee e le nostre riprese, fino a che qualcuno non ruberà le vostre”.
Chiara Tripaldi