Poche malattie al mondo subiscono ancora uno stigma forte come l’AIDS, nonostante gli enormi progressi compiuti nel campo della medicina nei trattamenti per tenerla sotto controllo, impedirne il contagio e forse, in futuro, addirittura guarire completamente. I farmaci antiretrovirali permettono ad oggi di bloccare gli effetti degenerativi della malattia e arrivano fino a bloccare il temuto contagio materno-fetale, permettendo così anche a madri sieropositive di partorire figli sani. Di fatto, l’HIV al giorno d’oggi non è più il mostro che tanto terrorizzava negli anni novanta, e non è più nemmeno contagiosa, se opportunamente trattata. Tuttavia, lo stigma persiste, anche nei confronti di vittime inconsapevoli e innocenti (se mai si può fare della malattia una colpa), come abbiamo potuto vedere in una delle più aberranti e ingiuste argomentazioni utilizzate dagli antivaccinisti contro l’obbligo vaccinale nelle scuole.

Il documentario Up the Hills; Down the Valley trasmesso al Terra di Tutti Film Festival di cui The Bottom Up è media partner tratta proprio il tema della convivenza quotidiana con l’HIV nella comunità Thai nella provincia di Dien Bien Phu in Vietnam. Lo fa focalizzandosi su una categoria di vittime inconsapevoli: le donne. Negli anni novanta in Vietnam ha avuto luogo una vera e propria epidemia di dipendenza da eroina fra gli uomini del Vietnam, epidemia che ha avuto i suoi picchi di virulenza nelle minoranze etniche come quella Thai. Molti uomini sono morti a causa della droga, ma condividendo aghi contaminati hanno diffuso il virus dell’HIV, contagiandolo alle mogli e potenzialmente ai figli. Il film, prodotto da Minority Rights Group International, è stato selezionato nel 2016 per il Buffalo International Film Festival.
Una storia di donne. La prima cosa che colpisce del documentario Up the Hills; Down the Valley è questa: gli uomini sono vettori di HIV, sono dipendenti da eroina, restano a casa a rubare ciò che le donne guadagnano lavorando, e soprattutto, non parlano. Assenti, o inquadrati di sfuggita dalla telecamera, spesso in lontananza. Il documentario ci restituisce il quadro di una società sbilanciata, dove le donne sono fondamentalmente sole a portare avanti la vita quotidiana, mantenere la famiglia e lottare. Lottare per vivere, ma lottare anche per essere accettate nella società.
La storia segue il percorso di malattia e di vita di due donne in particolare.
Incontriamo per prima Tuong, la seguiamo nella foresta, mentre taglia bambù con un machete con cui io mi sarei già asportata una mano, e dice che gli uomini al villaggio non farebbero mai questo lavoro. Tuong racconta di essere stata diagnosticata dopo un episodio particolarmente brutto di Fuoco di sant’Antonio, e che tutti al villaggio volevano lasciarla morire, ma sua madre non si è arresa. Quando Tuong si è aggravata, è stata portata all’ospedale, dove ha scoperto che la cura era gratuita. Ora sta bene e vive con le sue bambine, che mantiene raccogliendo bambù e legna nel bosco e vendendola al mercato.
La storia di La è molto simile. Entrambe sono state contagiate dal marito dipendente da eroina. La parla della discriminazione da parte degli abitanti del villaggio, che la evitavano il più possibile. Sua madre teneva pronto un maiale per il giorno del suo funerale. In ospedale, La si è ripresa in pochi mesi. Racconta che con la salute, le è tornata la sicurezza in se stessa, e la voglia di fare qualcosa per le persone nella sua stessa situazione. Il gruppo Sunflower diffonde informazioni sulla malattia, sui test necessari e sulle medicine. Vediamo Tuong portare le sue due bambine a fare il test. Anche le infermiere e i medici che compaiono sono donne.

Sia Tuong che La sono membri del Sunflower Support Group che riunisce donne sieropositive e permette loro di portare avanti campagne di informazione che diffondano consapevolezza nella società, di ottenere supporti preziosi come prestiti economici a basso interesse, e di ritrovare la fiducia in loro stesse. L’importanza di gruppi come Sunflower è evidente, in un paese come il Vietnam dove su 93 milioni di persone, il Ministero della Salute stimava nel 2015 un numero di 250000 sieropositivi e tra questi 67000 donne. Molte di queste donne si sentono isolate, emarginate dalla società, e hanno vergogna della loro condizione, il che impedisce loro di cercare cure appropriate. Il gruppo, nato nel 2004, continua a crescere e a diffondersi nelle provincie. Perché il girasole come simbolo? “Il girasole ci piace, gira sempre verso il sole, e noi vogliamo avere più fiducia in noi stesse e scegliere la vita” dice Lu, un’attivista di rilievo del gruppo.
Del resto, come dice La sorridendo: “La vita continua e ci sono molte malattie peggiori dell’HIV”. E se lo dice lei, non possiamo che crederle.
Francesca Maria Solinas