Il potere della lingua: Arrival, Sapir-Whorf e Finnegans Wake liberano il mondo

Quando fai un dottorato, metti anche di materie umanistiche, è raro che nelle sale esca un film che parli specificamente del tuo argomento di ricerca. Metti, che so, tu stia studiando i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo come una delle massime espressioni di quella tensione all’armonica sintesi tipica del concordismo rinascimentale oppure che tu voglia redarre una microstoria della diffusione della letteratura italiana in epoca sovietica e post-sovietica – ecco – in questi casi non basterebbe neppure setacciare i peggiori festival indipendenti di Caracas per scovare una pellicola che tocchi in modo consistente al tuo programma di ricerca.

Bene, io ho avuto questa fortuna. E non è neppure un film da Sundance o da circuiti d’essai europei, nossignore. Megaschermi, multisala coi popcorn a mille euro e possibilità di versione originale (obbligatoria!). Il film Arrival, di Denis Villeneuve, con Amy Adams e Forest Whitaker, parla di quella che – secondo un’etichetta storiograficamente un po’ discutibile – è conosciuta come ipotesi Sapir-Whorf.

(qui, una spiegazione gradualmente spoiler-free di Arrival)

(Ah, per forza di cose questo articolo spoilererà qualcosa)

Ora, non illudiamoci: che sia stata citata, con tanto di nome e di mini-spiegone in una scena del film è già incredibile e il fatto che sostanzialmente l’ipotesi Sapir-Whorf sia l’elemento fondante del plot è commovente. Pretendere che sia trattata con i crismi dell’accuratezza scientifica è un po’ troppo. Ciononostante, è pieno di spunti ben informati e che scatenano affollate rotaie di pensieri.

ARRIVAL: IL LINGUAGGIO/LA LINGUA COME STRUMENTO

Partiamo dal film: arrivano i calamari spaziali (versioni fiche e misteriose di Kang e Kodos dei Simpson) su 12 diversi punti della Terra, dallo spazio sconosciuto. Non sono ostili, invitano all’interno delle loro astronavi  gli umani e raccolgono con grazia il tentativo di comunicazione da parte degli stessi. I capoccia dell’esercito, nel dubbio, convocano la professoressa Louise Banks, linguista e traduttrice poliglotta (due cose che nella vita reale raramente vanno insieme), per sperimentare un primo contatto. La linguista fa ai militari un corso accelerato di comunicazione: se non sai da che parte cominciare ad approcciare qualcun altro, non potrai certo chiedergli cose molto più complicate, tipo: “perché non mi volete polverizzare all’istante? volete riportare sulla Terra i dodo estinti? Cuperlo ha perso le primarie anche da voi?”. Denis Villeneuve in questo senso ribalta il “incontro del quarto tipo” facendolo diventare una abduction pacifica e paritaria, ponendo immediatamente gli alieni come agenti comunicatori e l’uomo come costretto a una mediazione innanzitutto verbale.

A quel punto si comincia dal cercare un punto di contatto. Il che è molto più problematico di quanto sembri: se hai davanti te un altro essere umano, per quanto il più diverso da te ti possa sembrare (conquista delle Americhe  e conseguente shock culturale da parte dei conquistati vi dice niente?), avete per lo meno in comune buona parte della biologia, i vostri corpi. Da lì, è lecito supporre che le categorie di base potrebbero essere simili o quanto meno confrontabili. 

A smentita di quanto appena scritto, un pensiero molto pessimista dell’anziano Ludwig Wittgenstein. Fonte: grab dalle Lettere 1911-1951.

Se invece hai davanti a te un’altra forma di vita, senza scomodare altre nozioni popolari di Wittgenstein, non ci si può permettere il lusso di dare per scontato che sia confrontabile/paragonabile/commensurabile. Per fortuna dei terrestri, in Arrival i calamari spaziali sono sì-diversi-ma-non-troppo. Le differenze maggiori sono a livello – guarda un po’ – linguistico.

Primo, l’alfabeto. Già all’interno del nostro pianetino verdeblu esiste una sfavillante diversità a riguardo: chi studia lingue orientali molto diffuse come cinese e giapponese sa che il concetto di alfabeto, come quello latino, greco, cirillico o coreano, è un’altra faccenda da non dare per scontata; gli arcinoti geroglifici egizi sono un caso ancora diverso, eppure comparabile e traducibile (grazie, stele di Rosetta!). Il linguaggio è uno strumento, con molteplici funzioni, ma la sua forma scritta assume sembianze diverse, con meccanismi diversi. Chiaro – ma i calamari come caspita si attrezzano?

Facile! Logogrammi: non c’è relazione con i suoni emessi; c’è una parte visuale che in maniera non alfabetica e non figurativa esprime il senso. Ma qui non c’è spazio per soffermarsi oltre.

Grab dal film.

Durante un sommario impariamo che grazie al duro lavoro di interpretariato, cominciato con una serie di gesti ostensivi che davano per scontati (azzeccandoci, però) altrettanti concetti che vi stanno alla base (l’individualità, l’intenzionalità, il problema dell’inscrutabilità del riferimento aka il coniglio gavagai di Quine, la differenza tra type e token, e chissà quanto altro ancora), i nostri eroi mettono insieme un vocabolario di base abbastanza sofisticato, tanto da consentire scambi che prendano in mezzo concetti astratti e sociali.

A quel punto, la fragilità della governance internazionale dà il peggio di sé in un domino al ribasso su scala globale: prima i cinesi, poi i russi e i sudanesi (qui il livello di elaborazione degli sceneggiatori di Hollywood è sconfortantemente basso) impazziscono e portano a un’escalation per cui si decide di sparare alle vongole spaziali. Nota: il motivo che spinge i cinesi a dichiarare guerra ai cefalopodi extraterrestri, oltre anche alle possibili difficoltà di inserirli nel normale iter per l’ottenimento del visto, scaturisce dal modo scelto dai militari cinesi per comunicare con essi. L’espediente utilizzato è infatti quello del gioco del majong che, come spiega Louise, non può far altro che tradurre tutta la comunicazione in termini di strategia militare di attacco/difesa. La comunicazione cinese appare dunque già falsata al principio, fino alla mesta e prevedibile decisione di espellere i calamaroni dal loro suolo. Un caso plateale di “il medium è il messaggio”? Direi proprio di sì.

Prima che ciò accada i nostri eroi, linguista e fisico, fanno di straforo un’ultima sessione comunicativa con Kang e Kodos, in barba ai militari, proprio prima che venga dato fuoco alle polveri. In quella fatale sessione i calamaroni abbandonano il paziente attendismo che li aveva contraddistinti e si danno una mossa. La linguista, un po’ scioccata, nonostante una barriera di vetro che separa i due mondi, riesce a ricevere (telepaticamente? non si sa) quello che secondo il vocabolario Calamaro – Inglese viene designato come “weapon”, arma, o “tool”, strumento. Poi scoppia tutto, i militari recuperano i due umani e si preparano velocemente ad evacuare la zona. Senza dire altro sulla trama, ci sarà un ultimo colloquio privato tra Kang e Louise grazie al quale tutto acquisterà senso: la “arma” è in verità un “dono”, e coincide con la lingua calamara (LC) stessa medesima – o meglio, con la sua padronanza, che è tutt’altra faccenda.

Ma in che modo una lingua può essere un dono o un’arma o uno strumento? (lingua, non il linguaggio in generale)

LA RELATIVITÀ LINGUISTICA: LA LINGUA SEGMENTA IL MONDO, ovvero IL DILEMMA ETICO DEL CALAMARO

Qui entrano in scena i signori Sapir e Whorf, a rappresentare tutta una vasta categoria di persone di diverse epoche e dottrine. La cd. ipotesi Sapir-Whorf, che d’ora in poi più correttamente chiamerò “Relatività Linguistica” (RL), è l’idea secondo cui la padronanza di una lingua naturale porti con sé la chiave per un particolare accesso al mondo, che in qualche misura e aspetto differisce da quello che può essere fornito da un’altra lingua.

Che significa? L’idea è che la nostra cognizione, sia a livello sensoriale (basso), sia a livelli più alti (ragionamento, interazione sociale), possa risultare influenzata nel complesso da una sua parte, cioè la lingua che parliamo. In che modo? Le lingue segmentano il mondo in maniera diversa le une dalle altre, come è facile accorgersi non dico studiando l’inglese ma anche solo confrontando il lessico dell’italiano neostandard e del vostro dialetto regionale (dato che siamo in un articolo scientificamente quasi-serio premetto: LO SO, i dialetti sono lingue a tutti gli effetti, era solo per fare a capirsi). Il livello più banale è quello del lessico, appunto. Esempio classico: lo spettro dei colori percepibili dall’occhio umano è uguale per tutti, ma i nomi per i colori no. Secondo alcuni, le lingue del mondo hanno vocabolari più o meno ampi per i colori focali secondo pattern regolari, pur nella diversità. Fatto sta che un giapponese avrà difficoltà mentre parla a capirsi con voi mentre gli parlate di verde e di blu, invece che semplicemente di 青 (ao) , termine che abbraccia lo spettro tra i due colori. [l’esempio non è accurato al 100%, ma è per capirci]. Questo non significa che lui non percepisca la differenza tra i due, eh, come se fosse daltonico. Però facciamo un sacco di cose al mondo mentre parliamo o, addirittura, tramite le parole, quando hanno un valore convenzionale, tipo “sei in arresto / vi dichiaro marito e moglie / la messa è finita”, (John Austin, tvb). Dunque la questione non è triviale – checché alcuni chomskiani ne dicano.

Concetto chiaro, no? Secondo RL, parlare una lingua piuttosto che un’altra dirigerà magari non la tua percezione bensì la tua attenzione verso aspetti della realtà differenti, quantomeno. Ciò, a sua volte, si riverbera nella cultura e, faccio tanto per dire, negli usi simbolici dei colori nelle decorazioni artistiche o nel confezionamento dei vestiti e del loro significato sociale (andare a un colloquio per un posto in banca vestito in leopardato sintetico vs gessato di raso) oppure gli usi gerarchici dei colori del vestiario nella società coreana. E una volta che dal fiume della lingua arriviamo nel mare della cultura, sappiamo che tutto è possibile, quanto a differenze di senso e, banalmente, di interpretazione – pensate soltanto a un caso di ironia interculturale non percepita come tale, quale è il caso di Bello Figo $wag, al netto dell’opera di riappropriazione e detournement. Infatti solitamente gli studiosi di RL sanno che devono fermarsi prima, pena il parlare di aria fritta – per quanto distinguere e perciò separare lingua e cultura è un qualcosa per cui un antropologo sarebbe pronto a tirare fuori la rivoltella, non senza avere ragione. (Qui, una bella intervista a una linguista sulla visione di Arrival).

sapir whorf
Edward Sapir e Benjamin L. Whorf. Uno sembra un nazista di un film di Indiana Jones, l’altro un personaggio inquietante di Twin Peaks.
Fonte: qph.ec.quoracdn.net

Ad ogni modo, al bancone di un bar dopo due amari di troppo, la si potrebbe riassumere così: se la parli e vi pensi, una lingua ti porta con sé in una direzione, rispetto alla quale tu puoi torcere il collo in qualsiasi momento per guardare altrove, ma non senza fatica. Un modo mirabile per ovviare a queste mancanze – una volta che ce ne si rende conto – è coniare un neologismo o prendere in prestito da un’altra lingua una parola (o, in crescenti livelli di difficoltà, una struttura sintattica o un pattern di interazione pragmatico). Il nostro italiano è una sedimentazione di parole prese, più o meno sofisticatamente, da molte lingue nel corso dei millenni e, sul piano sincronico, non c’è giorno che passi in cui non si polemizzi sui prestiti dall’inglese (o dal Globish) che salgono alla ribalta. Ma questa è materia per glottologi, cioè storici dell’evoluzione delle lingue e del contatto linguistico. Quindi, ecco, si può eccome torcere il collo, ma ci sono dei costi. Se guardo dritto, faccio meno fatica e tutto è più naturale. Se torco, vedo lo stesso, ma vedo un po’ meno bene e i miei muscoli si affaticano. Essere bilingui, in questa allegoria, è avere due teste, come un Giano, ma un cervello solo a cui 4 occhi e 2 bocche sono attaccate.

Quindi avere padronanza di una lingua è un dono e, per estensione, un’arma. Kang e Kodos hanno ragione da vendere, e lo sanno. Ora moriamo di curiosità di sapere qual è la specificità della lingua calamara, però. Sarà dare più importanza al materiale di un oggetto piuttosto che alla sua forma? Sarà ragionare con una bussola mentale assoluta e non relativa (cioè sapere in che direzione cardinale assoluta le cose si trovano nello spazio)? Sarà avere più strumenti per descrivere il modo in cui si svolge un’azione di movimento di un agente invece che l’esito istantaneo stesso? (tutti esempi reali di ricerche nel campo).

No, chi parla LC è capace di annullare la linearità del tempo e ha coscienza fenomenologica e capacità di agire in quelli che i non-parlanti di LC chiamano passato e futuro. A’a facc’ ‘ro cazz’, direbbero a Napoli. Oh, d’altronde quelli sono alieni, mica valdostani. (disclaimer legale: si fa per scherzare, viva le comunità allofone d’Italia!).

xkcd sapir whorf
Se non c’è xkcd, non è un articolo di divulgazione. Fonte: xkcd.com

A questo punto si attivano altri tipi di studiosi: da un lato chi ha letto le ricerche di Whorf (poi rivelatesi sufficientemente false, essendo basate su info di seconda o terza mano) sul concetto di “tempo” nella lingua hopi, parlata da alcuni gruppi di nativi americani; dall’altro gli altri filosofi genericamente intesi che si sono ammazzati di filosofia scolastica medioevale in versioni più o meno religiose della questione. Quale questione? Ma come, la potenza di Dio e il libero arbitrio! Se sostituite Dio con “parlante di Lingua Calamara” potreste leggere con molta più passione quel manuale di filosofia medioevale che giace sullo scaffale da tempo. Scampandomi bene dal farlo, googlerò quanto basta per ricordarmi che i Dottori della Chiesa Tommaso D’Aquino e Duns Scoto distinguevano tra potentia absoluta e potentia ordinata di Dio. In breve, come noto, Dio vede tutti i futuri contingenti davanti a sé, come pure ciò che è stato e ciò che è. Bon, però per quanto essere perfettissimo e via dicendo non può fare proprio tutto-tutto nel giocare con gli avvenimenti – se fosse capace “soltanto” di una potentia ordinata. Pier Damiani sosteneva spavaldo che per Dio fosse possibile riportare allo stato verginale una ragazza a dispetto dei mariti avuti, se solo avesse voluto (con quella punta di sessismo che fa tanto religione rivelata).

Come la trama del film ci mostra, non si tratta di compiere azioni contro la fisica, ma semplicemente contro la nostra esperienza lineare del tempo: Louise impara nel “futuro” cose che dice nel “presente”. E notate l’imbarazzo che non possiamo fare a meno di avere nel tentare di descrivere ciò che è mostrato dal film con le nostre povere inermi parole terrestri, impregnate di rapporti temporali lineari come sono. Su come Louise userà questa potentia torneremo più tardi.

Benjamin Lee Whorf avrebbe salivato compulsivamente nella visione di questo film, date anche le sue antiche passioni antroposofiche occultiste cabalistiche che in primis lo indirizzarono verso lo studio del linguaggio, per poi essere riportate a più scientificamente miti consigli dal professor Edward Sapir nei primi decenni del Novecento.

Il fisico che ovviamente la mette in termine riduzionistici. Grab dal film.

Se parlare turco mi dà un accesso particolare alle fonti delle informazioni che io enuncio (se l’ho visto direttamente, se l’ho saputo da altri, o se l’ho inferito: tutto questo è marcato all’interno della forma verbale da scegliere obbligatoriamente), parlare LC mi dà un accesso particolare all’esperienza del tempo. Kant si sarebbe messo a piangere a tre quarti del film. In Arrival vediamo la versione strong, più deterministica (e non sfumata come quella che ho dipinto io) della RL: la lingua conduce su certi binari, posto che davanti a noi abbiamo tantissime file di binari diversi (le lingue oggi più o meno vive al mondo si contano nell’ordine delle 6000) sui quali è possibile percorrere lo stesso tragitto (il mondo che ci circonda, quello fisico e quello sociale). E dunque risulta critico scegliere il binario principale, che nel 99% dei casi non scegliamo in prima persona, essendo addestrati alla nostra lingua madre in tenerissima età. Ma da quel binario non potremo più torcere il collo, nella versione strong, che oggi non è scientificamente accettata.

JOYCE: LA LINGUA PER ANDARE AL DI LÀ DELLA LINGUA

Proprio a questo punto, però, irrompe sulla scena il letterato visionario, nella versione popolarizzata da uno dei più divertenti e validi giornalisti culturali che l’Italia vanta oggi: Edoardo Camurri il secondo, James Joyce il primo. Vi concedo benissimo di ignorare chi sia Camurri: solo per oggi la cosa non vi sarà fatale; ma è indispensabile avere un paio di nozioni sull’altro. Basterà sapere che Joyce è l’autore di due delle opere letterarie dalla forma (che, come abbiamo imparato, è imbevuta di contenuto) più sconvolgente del Novecento e oltre: in ordine crescente, l’Ulysses e il Finnegans Wake. La devastazione della nozione regolare del linguaggio che avviene lì dentro è assoluta: punteggiatura, lessico, sintassi, coerenza testuale – apparentemente nulla di tutto ciò si salva. La versione più dionisiaca della cosa si trova nel Finnegans Wake. Tentare di descriverlo sarebbe opera delle opere sull’opera; mi limito quindi a consigliare questa versione annotata online: tanto per capirci, la glossa alla sola prima parola del testo (“riverrun“, che non è la roba di Game of Thrones, per l’amor del cielo!) è di cinque righe. (qui la versione annotata su Genius; sì, lo stesso dove si annotano il rap e le canzonette!) 

Bene, qui è reperibile la trascrizione di un intervento (qui un frammento dell’audio) che Camurri tenne, a braccio, a Trieste durante la celebrazione joyciana del Bloomsday dello scorso anno. È, come tutte le cose nate d’improvviso, un piccolo testo di un’importanza capitale per il nostro discorso; non solo “un esercizio scombinato di critica letteraria”, ma perché è qualcosa in cui “sotto sotto forse brucia qualcosa di bello e di aurorale contro questo presente”, nelle sue parole. La tesi del bald-o torinese è racchiusa nel titolo: Finnegans Wake, un’opera psichedelica. Sarà già chiaro che è il rapporto tra lingua e realtà a creare il dovuto entusiasmo.

finnegans wake László Moholy-Nagy
La rappresentazione grafica del FW dell’artista László Moholy-Nagy Fonte: signalvnoise.com

Un linguista australiano che tra le altre cose si è occupato anche di LR sostiene, insieme ad altri, che le parole esistono perché e fintantoché sono utili a qualcosa – e l’utilità si misura necessariamente nel commercio con gli altri: posso avere tutte le mie personalissime categorie mentali ma strettamente parlando una parola è tale quando la condivido con un’altra persona e ci capiamo. È intuitivo: tolti gli usi poetici della lingua, ogni referente che si merita un’etichetta pubblica ne avrà una. Tutto molto bello, ma c’è un problema: “trovare una lingua che sia adeguata per dire quello che normalmente è la nostra vita, che cioè non faccia totalmente astrazione della complessità, che non sia spietata nei confronti della realtà (raccontando solo un singolo aspetto che sto raccontando ed escludendo tutto il resto), è una faccenda complicatissima” (Camurri, p.78).

Che significa? Per dirla con Whorf, “il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti”. Per dirla con Enfield, un conto sono gli eventi della realtà là fuori, un conto è come li categorizziamo mentalmente, un altro conto ancora è come la lingua che parliamo li segmenta ed etichetta. Usare le etichette è fondamentale: è economico dal punto di vista cognitivo e comunicativo. Ma allo stesso tempo qualcosa rimane fuori. Chiaro? Bene, lo smarmellamento copernicano della lingua del FW distrugge con forza gioiosa queste maglie, sradica i binari e reintreccia tutti i vimini della cesta. “All’interno di una parola possiamo trovare interi mondi, l’identità tra la singola parte e il tutto”. In questo, dice Camurri sulla scia di Marshall McLuhan, il FW è una droga psichedelica, perché ferma lo spazio-tempo e apre sguardi nuovi su oggetti nuovi. Se i Flaming Lips intitolavano una loro raccolta “Finally the punk rockers are taking acid!!”, ora si potrebbe dire “Finalmente i letterati ci fanno drogare!!”.

Qui, proprio qui, capiamo cosa intendevano i calamari dallo spazio quando dicevano che la lingua è un’arma: sulla scorta di Philip Dick, Camurri propone che il FW sia “una macchina per pensare”. Non è un libro che deve essere letto, ma un libro “che ti insegna un altro modo di leggere”. Un dono, certo, ma soprattutto un’arma potentissima. Il dono è quello di allentare la nostra percezione della realtà finalizzata alla sopravvivenza (l’utilità del significato, ricordate?), “liberando il mondo”, che ci viene incontro senza quegli odiosi eppure necessarissimi filtri salva-vita della lingua. D’altronde anche Whorf, almeno all’inizio, sperava di trovare in altre lingue delle scappatoie, degli spiragli di luce (echi montaliani ci salutano da lontano). Non aveva capito, però, che questo si doveva ricercare in un altro linguaggio, ovvero nella sua semidissoluzione.

Tutto questo però ha un’altra conseguenza, che si ricollega in modo potente con uno dei messaggi morali di Arrival. Nel finale scopriamo che Louise, pur vivendo il suo “futuro” ha agito nel “presente” non sfruttando la sua potentia e lasciando che alcuni eventi negativi della sua vita avessero luogo, invece di impedirli. Cos’ha fatto Louise? Ha accettato quello che sarebbe stato, senza interferire. Oltre a fare un gran favore agli sceneggiatori, ha compiuto una scelta prettamente filosofica: ha accettato il destino senza interferire. Un destino in cui le cose nascono, crescono, risplendono per un attimo e poi decadono. Questo è uno dei tanti pregi della macchina-per-pensare rappresentata dal FW: “c’è sempre un’accettazione magnifica, commossa, piena di amore, delle cose” (p. 83). L’abbandonare la categoria dell’utile-per-la-vita (a proposito urge rileggersi il buon Nietzsche di Verità e menzogna in senso extramorale, ma sempre cum grano salis) fa sì che il mondo possa darsi nella sua intera tavolozza di colori, che nomi non hanno, se non quello di esistenza.

Una recente foto dell’autore a Trieste insieme all’Autore

E infine (ironica espressione!), poteva essere il FW un libro con un inizio e una fine determinati? Naturalmente no, per la nostra gioia. Nel suo essere circolare, come il tempo dei parlanti di LC, il FW si autodissolve come entità discreta nel collegare i suoi incipit ed excipit. Lo scopo è di farci capire che esso “non accade né nel lettore, né nel testo, ma tutto nello spazio intermedio, nelle parole che fluttuano nella nostra testa come fosfeni, nel nostro modo di dire sì al mondo in tutta la sua pienezza, pienezza che il nostro sistema percettivo ci obbliga invece a vedere in una forma ridotta e tristemente utilitaristica”.

Ricongiungendomi al mio, di incipit, posso dire che invece che fare il dottorato sulla RL potrei leggermi il FW o assumere LSD o – con più probabilità rispetto al trovare un posto dentro l’accademia dopo il conseguimento del PhD – imbarcarmi su una navetta spaziale dell’ESA e andare alla ricerca del pianeta calamaro, armato di carta e penna, con la sola speranza di ottenere una certificazione C2 della loro psichedelica, filosofica, tempocerchiata favella.

Filippo Batisti

@disorderlinesss
@Una_t_sola

(grazie ad Arianna Casarini e a Giorgio Busi-Rizzi per le preziose revisioni)
Immagine di copertina: servingcinema.com

 

3 pensieri su “Il potere della lingua: Arrival, Sapir-Whorf e Finnegans Wake liberano il mondo

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