1996, Inghilterra. Diciassette anni di Partito Conservatore al potere e altrettanti di grave recessione dell’industria cinematografica british, la peggiore mai affrontata dai tempi del muto. Nei primi anni Novanta l’offerta nelle sale prevedeva film in costume o commedie romantiche: da un lato, gli adattamenti di Shakespeare di Kenneth Branagh, quelli di Jane Austen di Ang Lee e Douglas McGrath, La pazzia di Re Giorgio di Nicholas Hytner (1994); dall’altro, Richard Curtis e il suo Quattro matrimoni e un funerale (1994). Eccezion fatta per Ken Loach, la sudicia abiezione veniva vergognosamente celata sotto colletti di pizzo e abitudini borghesi.
23 febbraio. Cambia la programmazione nei cinema, si rinnovano gli spazi pubblicitari: cinque figure in bianco e nero emergono dalle locandine monodimensionali di un film appena uscito, sovrastate dal titolo Trainspotting. Da quel momento, il secondo lungometraggio di Danny Boyle entrerà a pieno titolo nei manuali e nelle classifiche più autorevoli dei migliori film della storia del cinema. Non solo per essere stato il primo regista inglese a far strisciare le telecamere nei sotterranei di quella società che “sceglie la vita”, dove si nasconde chi vive di espedienti per potersi permettere la prossima dose. Ma anche per il registro autoriale scelto: colonna sonora, montaggio sincopato, sequenze oniriche e iperrealismo hanno fatto di Trainspotting un cult movie evidentemente irripetibile.
“Trainspotting” è starsene seduti senza aver niente di meglio da fare che guardare con uno sguardo bovino i treni che passano, fermi a fantasticare sulle vite di coloro che ci sono sopra, dove vanno, da dove vengono, quali opportunità hanno loro che noi non abbiamo, così vicini eppure così lontani. Ma è anche un richiamo al concetto di prendere/perdere il treno, di mancare ogni occasione che la vita ci presenta davanti e poi quella dopo e quella dopo ancora, guidati da un distruttivo, consapevole eppure inevitabile principio di coazione a ripetere. Certo, c’erano stati altri film sulla droga, e altri ce ne sarebbero stati. Ma quel particolare mix di argomenti forti e momenti leggeri, di no-future post-punk post-boom post-whathever shakerato con autoironia e servito freddo fu il film giusto al momento giusto per essere un grande affresco minimale di una generazione.

Perciò, quando Danny Boyle annunciò pubblicamente nel 2015 che sarebbe arrivato il sequel, la reazione da parte del pubblico è stata di giubilo, ma ovviamente anche di sospetto.
Naturalmente c’è il problema dei seguiti cinematografici. Se normalmente un film nasce da un’idea e dalla voglia di raccontare una storia, la maggior parte dei sequel nascono dalla volontà di spremere ogni goccia da quell’idea un tempo originale, correndo meno rischi possibili, giocando sul sicuro, dato che tanto chi ha amato il primo andrà a vedere anche il secondo. Questa operazione di spremitura di sangue dalle rape ha raggiunto il suo compimento nel corrente abdicare la ricerca di una genuina produzione culturale per cercare costantemente un richiamo ai bei tempi andati. C’era da aspettarselo che sarebbe andata così, in fondo sono trent’anni che ci dicono che il futuro è morto, prima o poi la gente doveva cominciare a crederci. Il cinema, la musica, la moda, la cultura in generale dell’attuale generazione è un continuo voltarsi indietro alla ricerca di una mitizzata età dell’oro situata più o meno nella nostra infanzia o adolescenza, quando forse il mondo continuava a pensarsi come ancora vivo. Britney Spears come ultima produzione culturale genuina dell’occidente, il #machenesannoi2000 come nuovo velobucoquelpallone, l’eterno ritorno di Nietzsche in comoda forma di app. Grandi eccitazioni seguite da altrettanto grandi abbandoni. Dov’è finito Pokemon Go? Dove finirà il nuovo 3310 tra sei mesi? (Ehi, ma c’è Snake!). Un momento storico di generale metadone culturale.
Ma Trainspotting 2 ce la fa ad essere qualcos’altro? Dai si, ci vuoi credere tantissimo.
Le premesse non sono poi complicate: sulle note di Born Slippy, Mark Renton ha abbandonato gli amici e scelto la vita. Solo che sono passati vent’anni, la vita che aveva scelto forse non si è rivelata quella che aveva in mente, e comunque gli si sta sgretolando fra le mani.
Torna a casa, apparentemente per consegnare a quello che era Sick Boy la sua quota di vent’anni prima. Ma a nessuno dei due interessa veramente. Quello che entrambi vogliono è semplicemente riprendersi la vita che avevano a vent’anni. Dice, ma la vita che facevate a vent’anni faceva schifo, io l’ho visto il primo film. Ma a loro non interessa, non ci pensano. E più va avanti il film, più comincia a serpeggiare dentro lo spettatore una sensazione strana, come quei tizi che stesi su un tavolo operatorio sotto anestesia dicono di vedersi dall’esterno. La realizzazione di cosa sta succedendo arriva quando Mark, Simon (the drug addict formerly known as Sick Boy) e Spud tornano sotto quella montagna dove vent’anni prima erano andati insieme con Tommy, tutti presi dai loro cazzi, e avevano deciso di ricominciare a drogarsi.
E Simon rinfaccia a Mark la vera ragione del suo ritorno. Sei solo un turista nella tua giovinezza, gli dice. E lì finalmente ti si para davanti la netta sdoppiatura del film. È Simon che parla a Mark? È l’attore che parla al cast e al regista? È il film che parla a sè stesso e allo spettatore? È tutto questo insieme? Perchè è una frase talmente esemplificativa della natura del film che potrebbe essere usata come tagline.

Dall’inizio alla fine Trainspotting 2 è in costante inseguimento dell’ombra del suo predecessore di vent’anni fa, esattamente come i personaggi di cui racconta le storie.
Scegliete il sorriso di Mark all’autista sconvolto, il ritorno a quella montagna e a quel ponticello, gli Underworld sempre sullo sfondo, la carta da parati coi treni. Scegliete di inquadrare trenta volte i nomi delle vie, metti mai che quando hai fatto dire a un personaggio che siamo ad Edimburgo lo spettatore fosse disattento. Scegliete di far finire il film con Lust for Life di Iggy Pop e di suggerire che Spud sia il narratore degli eventi del primo film, mentre un tedesco coi baffoni abbraccia un cavallo e fa grandi cenni di approvazione. Scegliete tutto questo fino a che il vostro film sembrerà diretto dal J.J.Abrams patito delle strizzate d’occhio disegnato da Ortolani e lascerete la sensazione di una stanca gita turistica a degli studios televisivi dove le scenografie del vostro film preferito vengono spiegate da una guida dall’aria scazzata.
In altre parole, non solo Trainspotting 2 non ce la fa a sganciarsi dall’ingombrante ombra del predecessore, ma addirittura sembra quasi abbracciarne pienamente l’impossibilità di farlo. Questo meta-livello di lettura è talmente evidente che viene da chiedersi se non sia voluto. Un film volutamente pieno a metà. Ma come Spud con la sua ventennale rapporto con l’eroina, Trainspotting 2 sa che si fa del male e non sa perché continua a farsi, ciononostante continua a riempirsi la sua siringa di pellicola e ad andare avanti.
Questo film non ha niente da aggiungere, niente da dire, ma lo dice lo stesso. E in fondo tu te lo aspettavi, lo sapevi. Non sei nemmeno deluso, proprio come Renton e Simon non lo sono quando vengono fregati dalla bulgara. Ritornare a casa non era una buona idea per Mark, girare questo film non era una buona idea per cast e regista, andarlo a vedere non era una buona idea per te, spettatore. Fossimo stati tutti onesti con noi stessi, era chiaro fin dall’inizio. Ma tutti ci volevamo credere tantissimo.
Il principale problema è che non si capisce bene cosa questo film volesse raccontare. La protagonista assoluta del primo Trainspotting era la dipendenza: dipendenza dalle droghe, dalla violenza, dagli affetti, dalle amicizie. Il luogo era Edimburgo, ma poteva pure essere Campobasso; c’erano Mark, Sick Boy, Spud e Tommy ma loro non erano fondamentali, erano accidenti narrativi per poter dipingere un poderoso affresco sullo sfondo, il racconto di una particolare sensazione generazionale il un particolare momento storico. Trainspotting 2 invece racconta storie, storie dei suoi protagonisti. Ma loro oramai han doppiato la boa dei quaranta, storie da raccontare non ne hanno più nemmeno loro. Di nuovo il film e il meta-film si sovrappongono: come Simon e Mark raccontano a Veronica di Gerge Best e della loro giovinezza, mentre lei gli dice in una lingua che non capiscono che loro ormai sono vecchi e non capiscono che di quelle storie non frega più niente a nessuno, così tu seduto sulla poltroncina stai pazientemente ad ascoltare le storie di questi quarantenni privi di cose da dire. Non è un caso che il film usi costantemente pezzi di montaggio del primo e addirittura si trovi costretto a inserire degli elementi nuovi del passato dei protagonisti: è necessario, dal momento che nel primo a essere sviluppati non erano i personaggi, ma ancora e ancora l’intento si sovrappone: le riprese di spalle o i contesti fumosi per non far vedere che quegli attori non solo proprio quelli lì danno l’effetto dei racconti dei nonni che ogni volta vedevano aumentare il numero di ragazze scopate o di tedeschi sulle montagne. E tu a dire si, certo, regalando in cuor tuo un gran chissenefrega.

È vecchio in questo senso, Trainspotting 2. Lo esemplifica il rapporto che ha con la droga. Ehi, è Trainspotting, vuoi mica non parlare della droga, no? La gente se lo aspetta. Ma è puro tokenismo, ininfluente ai fini narrativi, affrontato in maniera squisitamente quarantenne. Guardate, Simon pippa cocaina e vi facciamo pure vedere che coltiva erba! E poi ci sono le pere, uh vi ricordate che belle erano le scene del primo dove si facevano le pere? E aspetta, aspetta, c’è anche il rimando alla droga legale con Begbie che prende il Viagra!
Questo film tratta la droga come un quarantenne tratta Facebook. Buongiornissimo, drogàààà?!?!1! Non sa perché lo fa, non serve a niente farlo, la storia non lo richiede, non si sa come inserirlo nella narrazione, ma essendo Trainspotting un film di droga bisogna inserirla.
Non è un caso che l’unico personaggio degno di nota, Spud, sia quello di cui non viene mai mostrato il consumo diretto. Spud è il solo di tutti i vecchi amici che non rimanga aggrappato al passato. Spud guarda avanti, anche con esiti potenzialmente disastrosi, ma è l’unico. Spud è maturo perché è arrivato a conoscersi, ad accettare quello che è senza rifugiarsi in un passato mitizzato. Non spedirmi soldi, dice a Veronica. Io sono un tossico, li userei tutti per drogarmi.
Certo, da un punto di vista tecnico è girato bene, forse anche meglio del primo. Proprio come un quarantenne, il film ha più soldi, più esperienza, più gusto e cura del dettaglio. Ma proprio come un quarantenne, tutto questo non riesce a sopperire al fuoco di quando si aveva vent’anni e con l’equivalente hollywoodiano di un pacchetto di noccioline e un cast di semi-sconosciuti si potevano fare grandi cose.
In ultima analisi, ha senso parlare di occasione persa? No. Spud dice: prima c’è un’occasione, poi c’è un tradimento. Ma il tradimento era insito nella premessa, accettandola accetti anche tutto quello che logicamente ne consegue. Sarebbe stato meglio pensarci prima. Sarebbe stato meglio non girarlo. Avresti potuto essere più onesto con te stesso, e questo film non lo saresti proprio andato a vedere. Se ci fosse stato Spud sulla locandina mentre compravo i biglietti mi avrebbe detto: “Non spendere soldi e tempo per guardarmi. Io sono un sequel, e i soldi li voglio solo scucire alla tua nostalgia”.
Ma di nuovo ti vedi dall’esterno.
Sei arrivato al sarebbe stato meglio, all’avrei potuto.
E ti sei trasformato in un quarantenne anche tu.
Roberta Cristofori @billybobatorton
Alessandro Demichelis per CinePhilo
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