Nell’attesa che qualcuno governi

La crisi di governo è durata meno di una settimana, con le dimissioni del Presidente del Consiglio Matteo Renzi confermate nella serata di mercoledì subito dopo l’approvazione della legge di bilancio. Le consultazioni conseguentemente avviate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno avuto esiti tutt’altro che sorprendenti, con i partiti d’opposizione che hanno ribadito la linea dell’intransigenza e la maggioranza uscente confermata (con il gruppo di Verdini escluso dal lotto dei ministri).
Paolo Gentiloni, dunque, è il nuovo Presidente del Consiglio: sessantaduenne, cattolico, laureato in Scienze politiche e iscritto all’Ordine dei giornalisti. Ministro degli Esteri uscente, fece parte anche del secondo Governo Prodi come Ministro delle Comunicazioni, dopo aver esordito sulla scena nazionale come assessore della giunta romana di Rutelli, seguito nella Margherita e nell’Ulivo prima di approdare al PD.

Quanto ai ministri, nessuna sorpresa: difficile peraltro aspettarsi la discontinuità invocata da molti con margini politici e temporali così stretti. Confermati Giuliano Poletti, padre del Jobs Act, o Beatrice Lorenzin, madrina del Fertility Day. Resta al suo posto anche Dario Franceschini, papabile successore di Renzi all’indomani delle sue dimissioni, così come Andrea Orlando e Maurizio Martina, invece tra i più apprezzati. Chi lascia? Stefania Giannini, volto della discussa riforma della scuola, valutata da Renzi stesso come il più grave insuccesso della sua esperienza a Palazzo Chigi.
Discusso infine il passaggio di deleghe che ha promosso Angelino Alfano alla Farnesina, con il Viminale affidato a Marco Minniti, un tempo dalemiano. Scompare infine la delega alle riforme, delle quali non sentiremo parlare per un po’, ma Maria Elena Boschi, nonostante la batosta referendaria, continuerà a giocare un ruolo rilevante come Sottosegretario alla Presidenza.

191340890-4217731d-5082-4016-8c01-625c49f91f2aFin qui la nuda cronaca, spazio per alcune considerazioni.
Prima cosa: serve chiarirsi una volta per tutte sul significato del voto referendario. È politico? È sul merito del testo proposto? È per chiedere le urne al più presto? Per cacciare Renzi? Chiariamoci, diciannove milioni di italiani hanno votato “No”, ed è plausibile che ognuno lo abbia fatto seguendo una personale combinazione di queste motivazioni.
Le contraddizioni, piuttosto, sono affiorate immediatamente al vertice dei partiti che hanno fatto campagna elettorale per il No, tra chi afferma di aver salvato la Costituzione poi dimentica il famigerato articolo 92 (nessun Presidente del Consiglio è eletto direttamente), e chi prima dichiara che Renzi avrebbe dovuto rimanere al suo posto indipendentemente dall’esito delle urne ed ora lamenta la scarsa discontinuità del nuovo esecutivo.

Secondo: nonostante letture strumentali e tatticismi, l’affluenza record del 4 dicembre testimonia la necessità di tornare presto al voto. Il problema è come. Abbiamo in vigore una legge valida per la sola Camera su cui pende la spada di Damocle del giudizio della Consulta (previsto per il 24 gennaio, e complimenti per la flemma!), ed una per il Senato esito di un precedente giudizio della stessa Corte Costituzionale. Una con forti correttivi maggioritari, una puramente proporzionale.
Due le opzioni in campo: aspettare che la Consulta corregga l’Italicum (sperando lo restituisca immediatamente applicabile) e tornare alle urne utilizzandolo anche per il Senato come proposto dal Movimento Cinque Stelle, oppure predisporre una nuova legge.
Il neo-premier Gentiloni ha affermato di voler “accompagnare” le Camere nella ricerca di un accordo in tal senso, in discontinuità almeno apparente con il governo precedente che invece si era personalmente intestato la legge “che ci copieranno dall’estero”. Difficile tuttavia credere in soluzioni rapide tra veti contrapposti e Aventini vari, e fa sorridere come a oltre vent’anni dalla sua prima approvazione, potrebbe essere il vecchio Mattarellum a sbrogliare la matassa.

Terzo: i partiti alla finestra.
Matteo Renzi lo ha affermato a caldo: il No ha vinto, ai partiti vincitori la responsabilità di fornire una soluzione alla crisi politica. Un’arma evidentemente spuntata, quando la maggioranza relativa in Parlamento rimane del PD. Nessuno, prevedibilmente, ha voluto assumersi l’onere di sostenere un nuovo governo distante dalle simpatie dell’elettore medio. Difficile inoltre pensare che l’argomento della responsabilità istituzionale possa compensare in termini di consenso l’immutata maggioranza.
Ecco allora che la linea del premier uscente è divenuta: “governo di scopo, legge elettorale e presto alle urne”, per non rimanere troppo col cerino in mano e al contempo tentare di capitalizzare un patrimonio di voti conquistati dal Sì, che pure rischia di essere decisamente sovrastimato in ottica elezioni politiche. Il tutto passando da un congresso, con annesse primarie, da celebrare in inverno per rilegittimare la propria leadership nel PD. Presti però attenzione, questo Matteo bramoso di rivalsa, alle parole di Gianni Cuperlo, che nella direzione del partito di ieri ha affermato che non c’è “paura del voto” quanto piuttosto del risultato. È vero che dilungarsi in infinite analisi logora, ma lanciarsi verso nuove elezioni senza considerare le ragioni e la provenienza dell’ampio dissenso sociale emerso il 4 dicembre potrebbe rivelarsi un grave errore.

Trasmissione televisiva Porta a Porta, Di MaioSul fronte Cinque Stelle, l’impressione è che il concretizzarsi di prospettive di vittoria alle prossime politiche abbia gettato tutti nella frenesia. Comprensibile, dal loro punto di vista, la levata di scudi nei confronti del nuovo governo, contraddittorio ma tatticamente ineccepibile l’inatteso amore per l’Italicum (un sistema antidemocratico fino a qualche giorno fa), mentre paiono fin troppo al di sopra delle righe le dichiarazioni quotidiane e scomposte di Di Battista, la minaccia di dimissioni di massa o le promesse adunate popolari sotto la Corte Costituzionale (e dunque anche al Quirinale).

Voto subito, si chiede e a ragione, dato il vento in poppa, ma rimangono alcuni nodi da risolvere: chi sarà il candidato premier? Grillo e Casaleggio investiranno definitivamente Di Maio, oppure la componente movimentista di Fico e Lombardi contenderà la candidatura? E Dibba, accetterà un ruolo di comprimario?
In secondo luogo, la definizione del programma di governo rischia di portare alla luce le posizioni ambivalenti tenute dal Movimento su molti temi (a partire, ad esempio, dall’immigrazione), e le prime interviste in merito, tra centralità del settore enogastronomico e referendum sull’Euro che la Costituzione strenuamente difesa non consente salvo modifiche apposite, non lasciano presagire soluzioni semplici.
Infine, il tema delle alleanze. Per governare, il sistema tripolare richiede accordi con altri partiti: a chi si rivolgeranno, se a qualcuno volessero rivolgersi, Di Maio e soci? Mentre il Movimento sul tema nicchia, i segnali di convergenza e di reciproca simpatia con la destra leghista aumentano, ma curiosamente anche nel campo della sinistra qualcuno si sta interrogando sull’opportunità di un eventuale sostegno ai pentastellati.

La destra si divide tra l’opposizione “istituzionale”, finanche dialogante in materia di legge elettorale, del redivivo Berlusconi e le barricate di Salvini e Meloni. “Voto subito” ripetono questi ultimi, ma come avviene negli altri schieramenti, anche qui si sottovalutano alcuni nodi decisivi. Le tornate elettorali recenti hanno dimostrato che la destra è altamente competitiva se unita, ma possiamo attenderci che Forza Italia si consegni alla Lega di Salvini (attualmente traino della coalizione), o si andrà alla ricerca di una candidatura che non spaventi l’elettorato più moderato? Come conciliare concretamente le ambizioni lepeniste degli uni con la prospettiva di una destra tradizionale in seno al PPE degli altri?

fratoianni-dattorre-fassinaInfine c’è la sinistra, alla perenne ricerca di una ricomposizione delle innumerevoli sigle che la compongono, da Possibile a Rifondazione Comunista, fino a una Sel pronta all’approdo in Sinistra Italiana, irritata dai propositi di riunificazione del centrosinistra enunciati con poco tempismo dal vecchio sindaco arancione Giuliano Pisapia. Ma se la denuncia del malessere sociale e delle disuguaglianze che persistono nel nostro paese è puntuale e costante, non altrettanto immediata è ad oggi l’interpretazione del motivo per cui tale disagio non è intercettato, se non entro il solito bacino elettorale, dalla sinistra.

Questo è lo scenario politico che attende Paolo Gentiloni ed il suo governo cui a parole nessuno augura lunga durata, primo tra tutti il partito che lo esprime, che dalla sua permanenza in carica avrebbe soltanto da perdere in termini di consenso.
Abbassiamo le aspettative, dunque. Una nuova legge elettorale in tempi ragionevoli costituirebbe indubbiamente un successo, ma è il massimo cui questo esecutivo a queste condizioni possa ambire.
Resteranno sul tavolo tutte le questioni sociali economiche ed istituzionali che attraversano il nostro paese. Sarà il prossimo inquilino di Palazzo Chigi ad occuparsene, sempre che dal voto futuro emerga una maggioranza credibile. Sempre se qualcuno al di là di un frastornato Renzi abbia realmente interesse ad entrarci.
Altrimenti, prepariamoci ad un susseguirsi di governi Gentiloni, utili soltanto a consentire ai vari schieramenti di prepararsi alla successiva campagna elettorale. Quanto al prepararsi a governare, però, siamo in alto mare.

Andrea Zoboli

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