Scrivere un romanzo a Bologna: intervista a Luciano Funetta

Selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega, Dalle rovine di Luciano Funetta è un titolo perturbante (edito da Tunué). A un anno esatto dalla pubblicazione di quello che è suo romanzo d’esordio, l’autore ha incontrato i lettori alla Libreria Modo Infoshop di Bologna. Durante la presentazione si è parlato delle geografie emotive della città, della «paura bellissima» provata dall’autore nell’appartamento nei pressi di via Andrea Costa, dove ha vissuto durante la stesura del romanzo. Si è parlato di via Mascarella e dello stesso Modo Infoshop, tra i cui scaffali Funetta si è aggirato a lungo, in cerca di libri, di autori e di ispirazione. Per questo non ne abbiamo fatto una recensione – in rete si trova ormai tantissimo materiale a riguardo –, piuttosto abbiamo voluto portare avanti questo discorso sui luoghi e sul valore della memoria.

Luciano, raccontavi che hai trascorso a Bologna sette anni della tua vita. Un luogo vivo culturalmente, ricco di stimoli e con una variegata vita mondana. Nella vita di un uomo tuttavia non mancano i momenti di solitudine, forse di necessario (quanto duro) riesame di se stessi e del proprio percorso.
Hai conservato qualcosa o qualcuno di Bologna in Dalle rovine

Sono arrivato a Bologna a diciannove anni per iscrivermi all’università, anche se dell’università non mi importava più di tanto. Diciamo che l’università era, nei miei pensieri, il giusto e accettabile strumento per andarmene dal paese dove sono nato. Di Bologna mi piaceva tutto: mi piaceva il freddo e mi piaceva il caldo delle biblioteche, mi piacevano certi bar, mi piacevano i nuovi amici che incontravo, con cui dividevo tutto, nei soggiorni e nelle stanze (a volte veri e propri ripostigli) delle case improbabili che i bolognesi ci affittavano per cifre fuori dal mondo. Mi piaceva la Cineteca. Ogni volta che ripenso alla Cineteca mi viene da piangere per la nostalgia. Mi piaceva uscire dal centro a piedi, salire su per le strade che andavano in mezzo ai campi. Una volta, di notte, salivo con alcuni amici verso l’Eremo di Ronzano. L’oscurità era totale e a un certo punto ci siamo ritrovati circondati da migliaia di lucciole. Non lo dimenticherò mai. Mi piaceva divorare kebab (che non avevo mai assaggiato prima di arrivare in città), mi piaceva bere birre scadenti in lattina. Su tutto, al di sopra di ogni cosa, però, amavo la Libreria delle Moline, un posto raro e singolare che naturalmente non ce l’ha fatta. Adesso in quei locali c’è un’osteria, credo. Nella Libreria delle Moline c’erano libri che arrivavano da ogni angolo del pianeta e da ogni angolo del pensiero. Persino il proprietario, Grigorys, veniva da lontano. E poi c’era La Paresse, il circolo Arci di via Avesella, dove ho passato praticamente tutte le notti degli ultimi tre anni in cui ho vissuto a Bologna. Sono una persona abitudinaria e propensa, ma non facile, agli affetti indissolubili. Per questo ogni volta che mi capita di tornare a Bologna mi sembra di tornare a casa. Come dici tu, è vero che gran parte di Dalle rovine è stata scritta in una casa vicino via Andrea Costa. Di Bologna il romanzo conserva il sentimento di libertà che la città mi aveva insegnato. Più tutte le letture che a Bologna ho fatto. Letture che ho fatto gratis, in biblioteca, nutrendo una gratitudine immensa per quella possibilità, e letture che mi sono portato dietro fisicamente, libri che ho comprato e che sono ancora nella casa dove vivo adesso. Hanno formato il mio gusto e gran parte della mia persona.

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Leggendo il romanzo, sembra che la memoria storica rivesta una grande importanza: nello specifico si fa riferimento alla dittatura militare in Argentina e alle tante domande che sono rimaste senza una risposta.
Alla luce del collettivo di cui fai parte (TerraNullius), credi che ad oggi sia possibile una letteratura militante? Una letteratura, insomma, che riesca ad avere un ruolo etico e una funzione sociale.

Una letteratura può essere militante senza essere etica. Credo che dalla letteratura, dal praticare la letteratura in qualsiasi forma, non si possa escludere un aspetto di militanza, inteso come contributo prepotente a un momento storico. Questo non significa fare la storia o cambiare la storia, ma forzare la realtà e cercare di farne esplodere alcuni elementi essenziali, come l’ineluttabilità e l’ingiustizia metafisica. Persino una letteratura isolazionista è militante. Si tratta di un rifiuto, inteso come presa di posizione ma anche come immondizia. Ogni letteratura che si rispetti deve essere uno scarto: anche qui, la parola venga intesa con duplice significato. In quanto all’etica, mi sembra giusto affermare che la letteratura debba essere amorale, eretica e singolare. Solo queste tre caratteristiche possono suscitare una forma di influenza o di scontro. Il collettivo romano di scrittori di cui faccio parte, TerraNullius, è una casa in cui si pratica qualcosa che a tutti noi sembra giusto: l’ostinazione. Non ci importa essere introdotti in qualche luogo reale o ideale (l’editoria, il dibattito, il canone, l’avanguardia). Quello che ci preme è costruire una città e pensarla costantemente sotto assedio. Resistiamo con pochi viveri e poche munizioni, da quattordici anni ormai. E facciamo una letteratura multifronte. Non puntiamo a un gigantesco libro scritto da dieci individui come se fossero uno. Più interessante è l’idea di un libro scritto da un individuo in cui convivono dieci personalità, dieci scrittori. E finché saremo vivi quel libro non si chiuderà.

Daniele Barresi
@DanieleBarresi2

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