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Renzi si è messo tutti contro e alla fine ha perso

“Tieni vicino i tuoi amici e ancora più vicino i tuoi nemici” Michael Corleone, Il Padrino Parte II.

Nella sua esperienza al governo, Matteo Renzi non ha tenuto vicino né i primi né i secondi. Anzi ha messo alle strette i potenziali alleati e si è creato costantemente nuovi oppositori. Il problema è che non è stato uno sfortunato errore strategico il suo. Tutto il contrario, era una tattica premeditata e studiata nel dettaglio.

Renzi ha sistematicamente costruito dei nemici per alimentare la sua personale narrativa originaria, quella della rottamazione di una vecchia classe dirigente e del cambiamento dell’Italia, quella che lo ha sospinto verso la segreteria del Partito Democratico e poi verso Palazzo Chigi. All’inizio questa dicotomizzazione della realtà, in cui da una parte c’era lui, paladino di un paese più moderno e consapevole delle proprie possibilità e dall’altra tutti i gufi che gli mettevano la zappa sui piedi, ha funzionato. In quelle elezioni europee del 2014, gli italiani sembravano aver riposto definitivamente la loro fiducia su quel presuntuoso ragazzo di Rignano sull’Arno che parlava un po’ come il Movimento 5 Stelle, ma non faceva paura.

Piano piano tuttavia il numero degli amici si è assottigliato e quello dei nemici ingrassato in maniera abnorme. Renzi è rimasto solo insieme al giglio magico, a categorie impopolari come imprenditori e finanzieri, e, più in generale, a tutti coloro che avevano qualche interesse, anche minimo, da difendere, per combattere una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento. Dall’altra parte, quegli stessi nemici che lui strumentalmente si era costruito – forze partitiche e sociali ma anche uomini e donne di ogni credo politico (o di nessuno) – si sono reificati e coagulati in una massa critica eterogenea che aspettava solo un’occasione per mandarlo a casa.

Gli avevano già mandato qualche avviso alle elezioni amministrative, ma Renzi lo aveva bellamente ignorato o, forse, aveva solo fatto finta di ignorarlo. Alla fine la chance di sfogare la propria disapprovazione per il primo ministro e per l’operato del suo esecutivo si è materializzata con questo referendum su una riforma della Costituzione scaturita da principi più che condivisibili, ma viziata da numerose criticità. Spiace dover dire che un argomento così delicato come la modifica della nostra fonte di diritto primario si sia trasformata in un enorme test su Matteo Renzi, ma così è stato. Punto e basta. Con buona pace delle discussioni sul merito che i media più lodevoli (tra i quali modestamente ci siamo inseriti pure noi) hanno cercato di fare. La colpa della personalizzazione del referendum è da attribuire in primis allo stesso Renzi, ma probabilmente era inevitabile che andasse in questa maniera. Ce lo insegna la storia con i casi del generale Charles De Gaulle che rassegnò le dimissioni da presidente dopo aver perso un referendum minore nel 1968 e, più recentemente, con David Cameron e la consultazione sulla Brexit.

L’effetto collaterale di questa prevedibile personalizzazione è stata una campagna di livello infimo, giocata da entrambe le parti a colpi di slogan populisti che trasudavano post-truth da tutti i pori e di fantomatici spauracchi per dissuadere gli elettori dal votare l’opzione opposta. Uno degli aspetti più preoccupanti è che questi mesi di becero scontro da talk show di Rete 4 sono riusciti nella complicatissima impresa di mobilitare un elettorato italiano che sembrava ormai irrimediabilmente destinato ad assopirsi. Il fatto che ormai siamo più interessati a una contrapposizione tra frasi ad effetto da inserire nelle prime pagine dei giornali rispetto ad una tra idee (manco ideologie) politiche dovrebbe far riflettere tutti. A partire da chi foraggia questa perversa retorica per finire con coloro che ne fruiscono in maniera colpevolmente acritica.

E, alla fine, nel gioco al massacro, ad aver la peggio è stato proprio Renzi. Dopo che quasi il 60% degli italiani gli hanno sbattuto sul grugno il loro “no”, ha deciso, con ammirevole coerenza per i nostri standard, di dimettersi da Presidente del Consiglio, una carica che ricopriva da poco meno di tre anni. È andato a casa insieme ai suoi paradossi. Voleva portare la stabilità governativa e non è arrivato a fine legislatura. Voleva eliminare le poltrone e alla fine è stata eliminata la sua di poltrona. Ma, appunto, il paradosso più evidente è quello di un Renzi fagocitato dalla sua stessa narrativa: i nemici che da specchietti per le allodole sono diventati persone in carne ed ossa, dotate di matita (indelebile) e scheda elettorale e il rinnovamento del paese che non si è rivelato sufficientemente tangibile.

In questo momento prevalgono i dubbi. Spazio agli altri, gli oppositori del governo, ha dichiarato il premier uscente. Altri chi? Il fronte anti-Renzi era tenuto insieme solo dal collante dell’opposizione all’esecutivo. Chi dovrebbe prendere le redini del paese? Il Movimento 5 Stelle con la loro totale inesperienza e incompetenza nell’amministrazione della cosa pubblica? Matteo Salvini con il suo progetto “lepenista”, fatto di xenofobia e disprezzo verso l’Unione Europea? Il PD al momento pare ancora il primo partito in Italia. Se si tornasse alle elezioni, eventualmente con un proporzionale puro da Prima Repubblica, quindi potrebbe toccare ancora al centrosinistra formare un governo.  Sì, ma quale PD ci sarà dopo Renzi? Quello della vecchia ditta di Bersani e Cuperlo? E se non si forma un governo che succede? È di nuovo il momento dei tecnici? Questa instabilità potrebbe portare a ripercussioni sui mercati finanziari. Dobbiamo temere una nuova crisi dello spread? Il nostro peso a livello europeo e internazionale potrebbe diminuire sensibilmente. Torneremo ad essere gli zimbelli del continente?

In retrospettiva ci interrogheremo sull’esperienza del governo Renzi. Disastro, come è stata evidentemente giudicata, o moderato successo? Ha fatto gli interessi solo dei celeberrimi “poteri forti” oppure anche di una platea più vasta di persone? È durata fin troppo o troppo poco? E che diremo invece di lui? Venditore di fumo alla costante ricerca di consenso tramite bella presenza e bonus fiscali oppure promettentissimo statista con un progetto a lungo termine per il nostro paese? Politico arrogante e dal piglio autoritario o leader carismatico mosso da quell’energia positiva che serve per governare in maniera efficace?

Tante domande, nessuna risposta. C’è solo una certezza: Matteo Renzi non è stato l’unico sconfitto di questo referendum. A perderci siamo stati tutti noi: appassionandoci a questo deplorevole teatrino, siamo finiti come il premier nel tritacarne di una dicotomia dietro al quale non si nasconde nulla, se non il vuoto più assoluto.

Valerio Vignoli

@ValerioVignoli

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