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19 milioni di “No” affondano il Governo Renzi. E adesso?

Lo scenario politico italiano tra crisi di legittimità e shock monetario

Quasi 35 milioni di cittadini votanti: un’enormità, pari a oltre il 68,67% del corpo elettorale. È la dimostrazione, per chi ancora ne dubitasse, che l’esercizio popolare della democrazia rappresenta ancora un baluardo di sovranità e capacità di autonomia decisionale nel triste declino della politica italiana.
Nella notte del 4 Dicembre, lo scenario nazionale prende una piega più netta e determinante. Oltre 19 milioni di “No” travolgono con irruenza il progetto di riforma della Costituzione, e con lui il Governo Renzi. Il premier, incapace di racimolare poco più di un magro 40,32%, ha infatti annunciato a mezzanotte l’intenzione di dimettersi a breve.
Urge, per precisione, un’analisi a due dimensioni dell’evento referendario: la distribuzione socio-territoriale del voto e le conseguenze dei risultati sullo scenario politico e sull’economia.

Analisi socio-politica del voto: la vittoria del “No sociale” delle periferie

mappa dei risultati referendum

I dati dello scrutinio forniti dal sito del Ministero dell’Interno ci mettono a disposizione le basi per un’analisi più accurata. La prima costante che balza all’occhio è la disomogeneità del voto tra Nord e Sud. Se nelle regioni-chiave lo scontro è stato più acceso, le realtà periferiche e il Meridione hanno manifestato più nettamente la propria contrarietà alla riforma costituzionale. Oltretutto, aggiungerei, il significato politico del voto è ambivalente: nonostante sia improprio, oserei affermare che il referendum ha trasceso la sua originaria natura tecnico-giuridico, traducendosi in un chiaro giudizio sull’indirizzo politico del Partito Democratico.

Il picco massimo dei “No”, alle ore 2:35 del 5 Dicembre, lo si ha avuto a Catania (75%), seguita passo passo da Oristano (74%) e in generale dalla regione Sardegna (72%). La stessa tendenza è stata seguita dalle regioni “ribelli”: la Campania col 68% (e la Napoli di De Magistris col 70%) e la Puglia di Emiliano col 67%.

Le roccaforti del “Si” sono state invece gli ex-“feudi rossi” del PCI-PDS-DS-PD, ossia Emilia-Romagna (50,35%) e Toscana (52%), e il Trentino-Alto Adige, dove il giudizio favorevole alla riforma ha raggiunto il 59% dei consensi.

Si potrebbe inoltre tessere un interessante parallelismo fra i risultati delle recenti elezioni comunali e le tendenze generali avvertite nel referendum del 4 Dicembre. A Milano, ad esempio, il testa a testa fra “Sì” (53%) e “No” (47%) ha sancito un parallelismo con il risicatissimo scontro tra Sala e Parisi; oltretutto il risultato, in controtendenza rispetto al voto nazionale, mette in luce la frattura sempre più netta tra centri (numericamente più esigui e convintamente filo-governativi) e periferie (variamente egemonizzate a livello politico, ma chiaramente schierate contro la piattaforma programmatica del Partito Democratico).

Lo stesso si potrebbe dire di Torino: nella città della Mole, dove ha vinto con un discreto margine il “No”, i cittadini che hanno votato al referendum sono stati molti di più di quelli che hanno votato alle comunali, a dimostrazione del fatto che il rifiuto della riforma va di pari passo al rifiuto dell’attuale classe dirigente. Non a caso, Chiara Appendino del Movimento 5 Stelle aveva vinto ampiamente la battaglia con Fassino (PD) grazie al voto delle periferie.

Conseguenze del voto

Dopo la batosta elettorale cala la notte sulle sorti del Governo, ormai prossimo alla fine. Poco dopo la mezzanotte, infatti, Renzi ha annunciato: “La mia esperienza di governo finisce qui”.  Aleggia allora inquieto sul Bel Paese lo spettro del governo tecnico, tanto evocato in campagna elettorale dal fronte del “Sì”. Il vuoto politico lasciato dalla sconfitta del nucleo dirigente renziano crea ora campo libero alla formazione di nuovi equilibri fra gli schieramenti. Sembra tuttavia difficile scalfire l’impasse del tripolarismo.

Le reazioni dei leader dei due fronti d’opposizione non aiutano certo a chiarificare la situazione: da una parte, il centro-destra “forzaleghista” di Matteo Salvini celebra la “vittoria di popolo”, ma i tempi non sembrano ancora maturi perché le destre tornino al governo, specialmente a causa delle paralisi dovute alle frizioni interne (il declino di Berlusconi, lo scontro con Parisi, la spaccatura FI-FdI-NCD).

Dall’altra, l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle è doppio e difficile da interpretare: nonostante la candidatura a novella forza di governo, il rischio débâcle in caso di abbandono del ruolo di opposizione è gravoso. Sia nel puntuale editoriale di Beppe Grillo sul suo blog che nelle dichiarazioni di Di Maio e Di Battista emergono chiaramente tre direttrici: massimizzare il momento propizio, tornare alle urne il prima possibile e sfruttare la particolare congiuntura. Di Maio ha infatti specificato che, nonostante la guerriglia mossale in Parlamento, “una legge elettorale esiste già”: l’Italicum, che una volta modificato appropriatamente dalla Corte Costituzionale potrebbe assicurare un goloso bottino di seggi tale da assicurare una solida maggioranza all’M5S.

L’ambiguità, insomma, dominerà probabilmente i prossimi mesi, durante i quali ognuno dei tre poli cercherà di configurare al meglio il proprio assetto. In questa crisi generalizzata potrebbero tuttavia trovare terreno fertile e prendere forma nuovi movimenti e partiti, già impegnati nella campagna referendaria. Se a destra le acque sono meno torbide, è prevedibile che il fermento a sinistra si concretizzerà in un soggetto plurale nuovo e più grande (Sinistra Italiana), probabilmente senza ambizioni di governo ma con un probabile potenziale di ricatto.

Ciò che è certo è che il risultato del referendum non va nella direzione auspicata dai vertici europei e dal “consesso” delle élites e degli ambienti finanziari del continente: il “No”, infatti, trionfa nonostante le prese di posizione di Berlino e Washington, schierate con la riforma.

Il referendum è stato una prova di forza, un’occasione di ridiscussione degli equilibri tra gli schieramenti, un sondaggio sull’indirizzo politico del Paese. E per provare a discernere con consapevolezza il futuro prossimo degli scenari politici nazionali, i dati fuoriusciti dal referendum saranno più che fondamentali.

Guglielmo Migliori

@williambests

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