Nelle democrazie occidentali il fenomeno politico degli anni ’10, o se preferite del periodo che va dalla Great Recession del 2008 ai giorni nostri, è quello che comunemente viene chiamato populismo. In pratica, i soggetti politici che hanno portato alla crisi del 2008 definiscono populiste, antisistema, antiestablishment tutte ed indistintamente le forze politiche nate in contrapposizione ad essi dopo la crisi.
Questa dinamica, con l’aiuto di internet e dell’altrettanto famigerata comunicazione politica 2.0, ha reso piuttosto vaga non tanto la definizione di populismo, quanto piuttosto la sua individuazione e la sua attribuzione ad una particolare componente politica. In parole povere: populista è l’avversario che si vuole screditare, populista è motivo di vanto, populista è una dichiarazione, populista non è né di destra né di sinistra, sicuramente c’è qualcuno più o meno populista di te, populista è quello che vorrebbe ributtare in mare gli immigrati ma anche quello che vorrebbe un’Europa più sociale e meno economica, il populista piace al padrone che vuol pagare meno tasse ma anche all’operaio che vorrebbe un trattamento più dignitoso. Populista è tutto e, soprattutto, niente.
In Italia, il fenomeno politico che in questi ultimi anni ha aderito meglio ai canoni di populismo è il Movimento 5 Stelle. È qualcosa di già appurato e condiviso, tant’è che loro stessi sono i primi a definirsi tali. Il M5S è anche la maggior forza di opposizione al governo Renzi, il quale non ha mai esitato, nel difendere il suo operato, a sminuire i suoi avversari accusandoli appunto di essere populisti e di conseguenza bugiardi e manipolatori. Lungi da me sentenziare chi abbia ragione in questa diatriba entusiasmante come il funerale di un parente, quello che mi preme mostrare è come in realtà il Presidente del Consiglio e i suoi collaboratori abbiano da sempre attinto a piene mani dall’armamentario populista e lo abbiano fatto in particolare durante questa campagna referendaria.

Avevo già parlato in passato di come la retorica antipolitica e anticasta del M5S avesse di fatto spianato la strada all’ascesa dell’ex sindaco di Firenze, che ha approfittato del clima di diffidenza nei confronti della politica e di voglia di cambiamento alimentato con forza dagli stessi grillini che, piaccia o meno, hanno cambiato totalmente la percezione e la diffusione della politica in questi ultimi anni. Se prendi la retorica del vaffanculo del tutti a casa e dell’onestà come programma politico e le metti un vestito sartoriale, la simpatia dei media tradizionali e il sostegno dei vari Confindustria e affini otterrai una retorica altrettanto populista ma più rassicurante e moderata, basata su rottamazione, cambiamento, futuro, segno più. Anche durante la campagna a sostegno della riforma costituzionale Renzi e i suoi collaboratori hanno attinto a piene mani a questo tipo di retorica, che è difficile non inquadrare nei canoni del populismo.
Ad ogni discussione, dibattito, scontro, chiacchierata, commento che abbia come argomento il referendum ad un certo punto qualcuno salterà su dicendo “si ma se entriamo nel merito della riforma..” (poi probabilmente ribadirà slogan, prese di posizione e idee già cementificate a favore del Sì o del No). Va detto che l’esposizione ripetuta alla nausea di questa che ormai è una frase fatta a tutti gli effetti nasce da Renzi e dai sostenitori del Sì, ma è stata utilizzata così massicciamente da diventare trasversale e condivisa anche dal fronte del No. Per il sommo piacere di distinguermi e fare il Bastian contrario, si potrebbe quasi dire per hipsterismo, io non entrerò assolutamente nel merito della riforma ma mi limiterò ad analizzare come la strategia comunicativa del governo in occasione di questa campagna referendaria abbia candidamente cavalcato quello stesso populismo che è solita individuare come male assoluto quando è usato contro di loro.
- Kasta!
“Più si entra nel merito più la riforma toglie alibi a tutti. Non c’è più potere per il presidente del Consiglio ma si semplifica il sistema politico. Se voti No stai difendendo la ‘Casta’: contento te, contenti tutti. Non mi venite a cercare poi… Se di fronte alla domanda vuoi ridurre parlamentari e costi della politica gli italiani votano No, se c’è gente che brinda sono i sostenitori della Casta, non gli innovatori. Quelli che per anni hanno sempre detto No al cambiamento”. Matteo Renzi, 16 Novembre 2016
Credo che questa dichiarazione sarebbe più che sufficiente, potrei tranquillamente fermarmi qui. Il Presidente del Consiglio di uno degli stati più grandi d’Europa, il segretario del più influente partito italiano (l’altro dice di non essere un partito), quello sostenuto da più o meno tutti i gruppi di interesse/lobby/potentati da Confindustria e Marchionne in giù, quello che qualche settimana fa cenava con Obama e recentemente pranzava con Merkel e Hollande dice che un voto contro la sua riforma andrebbe a favore della “casta”. Cos’è la casta? Da chi è composta? Non sarebbe un buon inizio ricondurla ad una generica classe dirigente? Certo, sarebbe una definizione molto labile, che non tiene conto delle sfumature e soprattutto piuttosto inutile. Sarebbe un po’stucchevole, ma tutto sommato potrei accettare una tirata contro la casta da parte del mio vicino che a cinquant’anni si ritrova in cassa integrazione, ma da quello che ha tutti quei titoli che ho elencato qui sopra no, indipendentemente dalla bontà della riforma, voglio argomentazioni più serie.
(Propongo una riforma per l’abolizione delle metafore calcistiche in politica)
- Offerta speciale: shampoo + taglio ai costi della politica
L’inseguimento al M5S sulle tematiche a maggior concentrazione di populismo continua su uno dei punti a loro più cari: le sferzanti sforbiciate ai famigerati costi della politica. Il fatto è che a me come penso a tutti andrebbe benissimo ridurli, ma se devo dare il mio consenso ad una modifica sostanziale dell’assetto istituzionale del mio paese non lo faccio per risparmiare 80 milioni su una spesa pubblica di circa 840 miliardi (meno dello 0,01%). Penso che ci siano argomenti più validi a sostegno di questa ridefinizione del Senato, tutta questa enfasi sulla riduzione dei costi è semplicemente fuorviante e, appunto, populista.
- Don’t touch my poltrona
Parallela ai tagli dei costi della politica si trova spesso la riduzione delle poltrone. Il comodo elemento d’arredamento è da sempre simbolo nell’immaginario populista di sprechi, corruzione e immobilismo. Una persona seduta in poltrona solitamente si riposa, dorme, riflette e probabilmente è vecchia. Tutto questo è inaccettabile per il premier più giovane e dinamico dell’universo, che tutt’al più vorrebbe moderni ed aerodinamici sgabelli. La riduzione delle poltrone è figlia del tentativo fallito di abolire il Senato, cosa che magari avrebbe avuto anche una sua logica, ma che però ha portato a questo strano pasticcio ibrido del Senato delle Regioni. La nuova creatura desta già da ora numerose perplessità e mostra diverse debolezze, ma ti permette appunto di dire di ridurre le poltrone, che effettivamente passerebbero da 315 a 100.
- Ipersemplificazione
Vecchio giochino: non l’ha scoperto Renzi, non l’hanno scoperto i 5 Stelle. Da sempre nel dibattito politico salta fuori qualcuno che evidentemente ha ben poca stima dell’elettorato e disegna un quadro ipersemplificato e banale che appunto prevede una situazione di o noi o loro, dove noi è qualcosa di estremamente positivo e adorabile mentre il loro è il male assoluto. Questo meme in particolare è di assoluto interesse. Anzitutto ha il merito di riuscire a dare un’immagine nitida di come il dibattito referendario sia stato svilito fino ad avere la stessa dignità di un rutto. Poi, presenta uno strano caso: se da una parte non c’è da stupirsi che il governo si immedesimi con la modernità, concetto da sempre molto caro all’universo renziano, dall’altra troviamo una delle parole dell’anno per il 2013, inciucio. Inciucio nel magnifico mondo della politica italiana degli anni ’10 è un termine a forte connotazione grillina, si tratta infatti di quello che secondo i pentastellati ha permesso prima a Letta e poi allo stesso Renzi di governare. In pratica, è come se lo stesso Renzi avvallasse la teoria del M5S, o come se in questo momento a capo di un governo di larghe intese non ci fosse lui.
- Riferimenti oncologici
La sezione della riforma sulla distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni ha risvolti sul discorso sanità. Secondo i sostenitori del Sì questi risvolti sarebbero positivi, e questa è una posizione legittima. Peccato che, con tutti gli esempi possibili per argomentarla, Boschi e Bonafè (min. 14:20) abbiano avuto il cattivo gusto di scegliere quello sui malati di tumore che secondo loro riceverebbero equità di cure indipendentemente dalla loro Regione di residenza (cosa peraltro già garantita dall’art. 32 della Costituzione). Si tratta di una strumentalizzazione che trovo piuttosto squallida, prendere un tema così delicato e utilizzarlo in questa maniera (il succo è: la riforma darebbe più possibilità di guarigione ai malati di cancro, Bonafè lo dichiara apertamente, Boschi la mette giù in maniera appena un po’ più elegante) va anche oltre il populismo, siamo più nella sezione “sciacallaggio”.
(Qui invece Renzi – min. 1:10:45 – porta l’esempio dei malati di epatite, ma per lo meno non si limita alla banalizzazione riforma – equità di trattamento – i malati guariscono ma prova a spiegare più dettagliatamente cosa accadrebbe nel sistema sanitario)
- Ok, mollami pure, ma sappi che non troverai nessuno meglio di me
Dal gentismo si è passati quasi alla minaccia. In questo caso Renzi prova a fare leva sulla paura degli elettori, dipingendo scenari post-apocalittici in caso di mancato successo della riforma. Tra i tanti:
- si torna indietro di 30 anni
- fine crescita economica
- governo tecnico
- ritorno di Monti
- uscita dall’Euro (questa però non è stata detta direttamente da Renzi o qualcuno attorno a lui)
- i mercati non la prenderebbero affatto bene
- Italia come USA con Trump
- Italia come Regno Unito con Brexit
- palude
- caos
In tutto ciò, resta la contraddizione di un governo che da una parte sta raccontando una storia di grande crescita, sviluppo, riscatto e ripresa, ma dall’altra sostiene che se non passasse la riforma (e quindi le cose rimanessero semplicemente come sono ora) il paese si ritroverebbe sull’orlo del baratro.
In tutto ciò, non resta che fare una triste constatazione. Indipendentemente dall’esito del referendum, il M5S e il PD di Renzi continueranno ad essere le due principali forze politiche del paese. Lo sono da tre anni ormai e la sensazione è che continueranno ancora per un po’. Inizialmente, e al netto di ogni valutazione strettamente politica, c’era molto interesse attorno a questi due soggetti che, anche se in maniera diversa, si presentavano come assolutamente nuovi e moderni, in particolare da un punto di vista comunicativo. La rete, lo storytelling, la presenza sui social network: in un ambiente tendenzialmente vecchio e retrogrado da questo punto di vista come la politica italiana queste novità si pensava addirittura potessero dare inizio ad una nuova fase, più partecipativa, democratica e diretta. Alla (quasi) fine di questa infinita campagna referendaria invece non resta che constatare come i due nuovi soggetti siano riusciti nell’impresa eccezionale di abbassare ancora di più il livello del dibattito pubblico.
Un pensiero su “Matteo Renzi, il premier grillino”