Edito da ombre corte, il volume Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo parte dal genere come punto d’osservazione privilegiato per analizzare le due razionalità attraverso cui opera il potere: quella del neoliberismo e del neofondamentalismo. Dove per “neofondamentalismo” non si intendono solo la Chiesa cattolica – e le sue più recenti diramazioni, come il movimento pro life – o i partiti o i movimenti neofascisti e razzisti, ma anche tutti quegli attori e ordini discorsivi collettivi che, appellandosi ai “fondamenti” dell’ordine sessuale, attaccano coloro che quotidianamente, invece, contestano e sfidano l’eteronormatività alla base dei generi e, più in generale, delle relazioni sociali. La cura del volume è di Federico Zappino, filosofo politico, già intervistato su The Bottom Up lo scorso gennaio.
Partiamo dall’inizio. Nella tua Introduzione scrivi: “Ogni soggetto è un soggetto di genere”. La prima cosa che accade quando veniamo al mondo, in effetti, è che qualcuno spunti una casella, sancendo così il nostro genere: maschile o femminile. In questo senso, il potere regolatore del genere agisce su tutti e tutte noi fin dal primo respiro, anche su quei maschi eterosessuali che raramente si sentono toccati dall’argomento: a parlare di genere sono infatti principalmente i soggetti che definisci “vulnerabili” – le donne, le persone gay e lesbiche, le persone trans*, le persone intersex, e tutte le soggettività non cisgenere e non eterosessuali, ossia tutte coloro che pagano il prezzo di questo mancato riconoscimento dell’universalità del potere del genere.
Fai bene a ricordarlo. La prima cosa che accade quando veniamo al mondo è che qualcuno (di solito un medico) spunti una casella, e che quel segno grafico, spesso accompagnato da un atto linguistico – “è un maschio!”, “è una femmina!” – determini l’origine della nostra vita di genere, e dunque della nostra vita in generale. Si tratta di qualcosa di comune, di un atto ripetuto e naturalizzato. Ciò che voglio sottolineare, tuttavia, è che quelle categorie pretendono di limitarsi a “descrivere” i corpi (maschio/femmina) ma in realtà “assegnano” un ruolo (maschile/femminile), mettendo di fatto la descrizione al servizio dell’assegnazione. In altre parole, è come se le categorie di genere emergessero chiasticamente tra la descrizione di ciò che un corpo è e la prescrizione di ciò che un corpo deve fare.
Comprendere tutto ciò, non significa operare una facile distinzione tra la descrizione e la prescrizione, e accordare a questa distinzione la promessa di una vita di genere egualmente vivibile, egualmente felice, e per molt* meno vulnerabile. Al contrario, significa che non siamo in grado di cogliere con precisione il confine tra la descrizione e la prescrizione, dal momento che entrambe originano dalla medesima matrice, che è eterosessuale, e riproduttiva: le categorie attraverso le quali i nostri corpi vengono descritti sono binarie (o maschio o femmina), e quelle stesse categorie non avrebbero senso se non fossero collegate, più o meno esplicitamente, a una prescrizione di ciò che ci si attende da noi. I corpi descritti come opposti dovranno comportarsi in modo altrettanto opposto, e questo, d’altronde, è ciò che informa molti discorsi filosofici o psicoanalitici sul desiderio: ciò che desidero è ciò che mi manca, e se ciò che mi manca non è facilmente disgiungibile da ciò che viene meticolosamente, e incessantemente, costruito in quanto “opposto” da me, ecco allora che l’ingiunzione a desiderare si trova a essere profondamente strutturata da questa cornice rigidamente binaria, ed eterosessuale. In merito, non posso che rimandare al saggio di Beatrice Busi (Fare e disfare il sesso) e a quello di Olivia Fiorilli e Stefania Voli (De-patologizzazione trans*, tra riconoscimento e redistribuzione), contenuti entrambi nel libro.
Sia chiaro: con ciò non intendo affatto dire che il segno grafico o l’atto linguistico dei medici determinino rigidamente né ciò che siamo, né ciò che faremo. Innanzitutto perché sarebbe riduttivo ascrivere quel segno e quell’atto solo all’azione dei medici, dato che, in realtà, possono contare sul supporto e la conferma di un più vasto contesto sociale, che accorda valore a quei segni, incessantemente e ansiosamente. Benché sia importante rifuggire dal determinismo, specialmente nei casi in cui il suo lessico mira a prescrivere, anziché a descrivere, resto però del tutto convinto che il genere della stragrande maggioranza di noi sia quello che ci è stato assegnato quando non avevamo nessuna cognizione di ciò che fosse. Questo significa che il genere che incarniamo, e che desideriamo, è intriso di quei presupposti binari ed eterosessuali che nessuno di noi ha contribuito a formare, ma che sono pervenuti a strutturare parte rilevante della nostra formazione. Ma ciò non significa nemmeno sottovalutare il potere di risignificare quei presupposti. Ciò che intendo dire, piuttosto, è che in questa fase del mio percorso, e della mia vita, mi sento più interessato a insistere sul fatto che risignificare, o anche sovvertire, quei presupposti non sia qualcosa di semplice, o non sempre, non ovunque, e non per tutti – come ci ricorda, tra l’altro, Brunella Casalini nel suo saggio sul Governo neoliberale dei corpi disabili. Spesso, è qualcosa che attiene maggiormente al dominio dell’impossibile.
Infatti il tuo saggio conclusivo titola Sovversione dell’eterosessualità. Come si può raggiungere questo auspicio finale di sovversione, partendo dalle premesse contenute nell’Introduzione?
Molte persone, ogni qual volta mi restituiscano le loro impressioni sul saggio che citi, pensano in fondo che si tratti di qualcosa di impossibile. La maggior parte di loro, a dire il vero, pensa che “sovvertire l’eterosessualità” significhi eliminare la pratica eterosessuale dalla nostra agenda politica, e forse dalla faccia della terra. Leggo questo pensiero come una difesa grossolana del privilegio eterosessuale, che manca di rendere giustizia al fatto che la pratica eterosessuale s’impone a tutti i soggetti prima che essi possano sceglierla, e strutturando anzi la loro capacità di scegliere. Ma anche chi invece coglie ciò che intendo dire, ossia che sovvertire l’eterosessualità significa lottare per un mondo in cui l’eterosessualità non costituisca il presupposto per ogni forma di soggettivazione e di relazione, ritiene in fondo che sia qualcosa di impossibile.
Quale miglior occasione, pertanto, per rivendicare lo statuto dell’impossibile, se il possibile è fatto di inclusioni normalizzanti o condizionali o, al contrario, di nuove forme di esclusione gerarchizzante? Se iniziassimo a pensare e a ricalibrare la nostra azione politica a partire da questa impossibilità, quanto più in là potremmo spingere la nostra analisi, e la nostra lotta? Se ci adagiamo sulla possibilità, infatti, talvolta con eccessi di ottimismo, manchiamo di comprendere che per molte, moltissime persone il genere è invivibile, e viverlo è impossibile. E trovarsi a dimorare nell’impossibilità può anche essere radicalmente trasformativo, e forse anche rivoluzionario, ma solo se, innanzitutto, di questa impossibilità esiste una narrazione e una piena restituzione politica, per ciò che essa è, senza facili illusioni.
E dicendo tutto questo come ti poni rispetto alle teorie di Judith Butler? Autrice – è bene ricordarlo – del volume Gender Trouble, che ha posto la “teoria del gender” al centro del dibattito intellettuale.
Prendo in parte le distanze da Judith Butler, ma non per tornare indietro, semmai per immaginare come procedere. La sua teoria della performatività del genere ci è servita a svelare che il genere non è altro che una performance, anche – anzi soprattutto – quando avviene in perfetta conformità con le norme di genere dominanti, binarie, cis- ed eterosessuali. È una performance anche quella che mettono in atto i maschi etero ogni qual volta si vestono, camminano, parlano, desiderano, amano, o fanno sesso in certi modi anziché in altri (o con alcuni soggetti, anziché con altri) al pari di quella di chi compie tutti questi gesti in modi che non rientrano nei termini della maschilità, del binarismo e dell’eterosessualità. La differenza tra le due performance è che la prima è privilegiata, e naturalizzata, mentre la seconda si espone alla vulnerabilità, alla normalizzazione, alla patologizzazione, e in ogni caso alla violenza. Ora dobbiamo comprendere come sovvertire quella matrice da cui dipendono i trattamenti a cui sono differenzialmente esposte queste performance di genere che abbiamo imparato a leggere e a decostruire. In altre parole, ci resta da comprendere come fare, materialmente, a sovvertire ciò da cui dipende il genere così come lo conosciamo. E la mia idea è che quando avremo sovvertito il genere così come lo conosciamo, avremo sovvertito anche i privilegi e le diseguaglianze che, a seconda della posizione di genere che occupiamo, agiamo e subiamo – spesso in modi per i quali l’agire e il subire non sono nettamente distinguibili.
Ma torniamo al libro: quattordici saggi, per un numero complessivo di firme pari quasi al doppio. Come e quando nasce questo imponente lavoro collettivo?
Credo che sia molto importante, per quanto parziale possa essere questo esercizio, provare a distinguere l’idea di dar vita a questo libro dai suoi contenuti, nonché dalle relazioni e dalle pratiche che a quei contenuti, a loro volta, hanno dato vita. Si tratta infatti di due elementi che hanno temporalità e spazialità diverse, e che mi consentono anche di tentare una restituzione della fruttuosa ambiguità di questo libro, la cui anima è sia teorica sia politica.
Come sai, nel novembre del 2014 è uscita a mia cura la riedizione del lavoro di Judith Butler del 2004, Undoing Gender, con il titolo Fare e disfare il genere (Mimesis). Nella nota a margine a quel testo (Il genere, luogo precario, ndr) mi proponevo di condividere alcune riflessioni che lo potessero rendere maggiormente fruibile da collettivi e da movimenti transfemministi e queer contemporanei, per i quali la lotta contro le violenze e le diseguaglianze prodotte dall’eteropatriarcato non si disgiunge dalla lotta contro altri assi di oppressione: la razza, la classe, l’abilità corporea o – in modo minoritario, ma promettente – la specie. D’altro canto la lotta non si disgiunge nemmeno da quella contro le violenze e le diseguaglianze prodotte dalla precarizzazione delle vite, nel contesto più ampio del neoliberismo. In qualche modo, anche a costo di tradire il testo, mi proponevo di intersecare la questione del genere con la questione della precarietà, offrendo un supplemento a quel testo del 2004, che Butler ha poi in effetti sviluppato nel suo ultimo lavoro, L’alleanza dei corpi (di prossima uscita per Nottetempo). L’intervista presente all’interno del libro, realizzata da Federica Castelli, ne sintetizza alcune linee.
Molti collettivi transfemministi queer, così come altre soggettività individuali e collettive presenti sul territorio nazionale, e non solo, approvarono e accolsero questo proposito, e lo agganciarono a percorsi e teorizzazioni che già erano parte della propria militanza, intesa anche come ricerca militante. Nel libro ne sono un chiaro esempio i contributi di Cristina Morini, che da tempo, e notoriamente, riflette attorno alla femminilizzazione del lavoro, nel contesto più ampio del biocapitalismo cognitivo e relazionale; quello di Bruna Mura, Caterina Peroni e Camilla Veneri, attiviste e ricercatrici del collettivo Fuxia Block di Padova, che restituisce il percorso teorico e politico intrapreso dal Sommovimento NazioAnale attorno al gender strike, nonché attorno alla rivendicazione in chiave transfemminista queer del reddito di autodeterminazione; o quello di Renato Busarello, che rende conto invece dell’esperienza bolognese di Atlantide e del Laboratorio Smaschieramenti, che per primo, in Italia, ha riflettuto criticamente attorno alle tecnologie biopolitiche e neoliberiste di messa a valore dei generi eccedenti rispetto al paradigma eteronormativo, come il diversity management, o le strategie di pinkwashing aziendale. In proposito, mi preme sottolineare che nei riguardi di Atlantide questo libro ha un enorme debito di gratitudine, esemplificato graficamente anche dalla fotografia in copertina, scattata da Michele Lapini lo scorso maggio a Bologna, in occasione della prima manifestazione transfemminista e queer “Veniamo ovunque”, proprio a sostegno di Atlantide.

Come sappiamo, c’è anche chi di fronte alle strategie di inclusione strumentale e condizionale messe in campo dal neoliberismo taglia corto, e si appella alle retoriche razziste e neocoloniali della “civiltà” e del “progresso” per salutare con favore la propria inclusione – come illustrano nel loro contributo le “froce terrone” Alessia Acquistapace, Elisa A.G. Arfini, Barbara de Vivo, Antonia Anna Ferrante e Goffredo Polizzi, alcune delle quali fanno parte del Laboratorio Smaschieramenti, altre della nascente Laboratoria Transfemminista Transpecie Terrona di Napoli, e comunque tutte sono interne al Sommovimento NazioAnale. Contrariamente a chi rivendica l’inclusione, noi crediamo che nessuna inclusione possa darsi senza una critica radicale dei differenziali di potere che la costituiscono. E se anche possiamo accettare, da chi è animato dallo spirito della realpolitik, che ogni forma di inclusione sia resa possibile da un’esclusione di altro tipo, al contempo crediamo che ciò non renda affatto superfluo, o idealistico, indugiare nella critica e nella lotta. Al contrario, questa realistica constatazione costituisce precisamente l’unico motivo per cui radicalizzare sia la critica, sia la lotta. Il saggio di Gianfranco Rebucini (Cannibalismo queer) è, in questo senso, eloquente. L’obiettivo di una politica transfemminista queer radicale, d’altronde, non consiste semplicemente nell’auspicare l’inclusione per “tutti”, quanto piuttosto nell’affermare che solo attraverso la sovversione della relazione tra chi è includibile e chi non lo è, nonché dei differenziali di potere che strutturano questa relazione, è possibile abbattere il privilegio e perseguire l’eguaglianza sostanziale. Una parte importante di questa ricerca matura dunque in seno alla produzione di saperi, pratiche e relazioni che non sono riducibili all’ambito accademico, nonché in seno a questa volontà condivisa di rendere maggiormente sintoniche le analisi e le lotte di genere con le analisi e le lotte relative alla precarizzazione e alle politiche predatorie neoliberiste.
Ma come hai detto non vi siete occupati solo delle problematiche indotte dal neoliberismo, ma anche da quelle che riguardano il neofondamentalismo.
Mentre assistevamo alle sempre più frequenti crociate contro “il gender”, alle piazze concesse agli antiabortisti pro life-no choice, all’aumento esponenziale dei medici obiettori nei riguardi della legge contro la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (in Italia costituiscono il 70%), o alla accresciuta agibilità politica di gruppi neofondamentalisti ai vari livelli della vita pubblica, ci domandavamo: che cos’è questo fenomeno? Perché quello stesso potere che si riproduce attraverso le promesse di inclusione derivanti dalla messa a valore dei generi eccedenti, al contempo dà spazio a discorsi e pratiche che nei confronti di quei generi sono esplicitamente escludenti? Quale relazione intercorre, se intercorre, tra la precarizzazione delle prestazioni sanitarie e l’aumento degli obiettori di coscienza? In altre parole, ci rendevamo conto che il backlash neofondamentalista avrebbe dovuto trovare lo stesso spazio all’interno delle nostre riflessioni, e che solo in questo modo saremmo state in grado di aggirare i pericoli ai quali rischiavamo di esporci se, invece, ci fossimo occupate solo delle problematiche indotte dal neoliberismo. La tesi di questo libro è che il backlash neofondamentalista debba essere letto come interno, e come funzionale, alla precarizzazione delle condizioni di inclusività dello stesso neoliberismo.
Secondo te, come mai proprio in Italia i toni si sono accesi così tanto nella discussione pubblica sul “gender”?
C’è senz’altro una ragione storica, che nel libro emerge limpidamente dal saggio di Cristian Lo Iacono (Filosofia sociale dell’odio antiomosessuale), ma c’è anche, però, una contraddizione maggiormente legata al presente – e di questo se ne occupano Elisa Bellè, Caterina Peroni e Elisa Rapetti, nel loro contributo La natura del gender. L’Italia è un paese la cui tradizione è fortemente cattolica, come sappiamo, e ciò non può essere facilmente aggirato, né sottovalutato. Al contempo, io non penso che altrove, nel mondo “occidentale”, sia meno importante sorvegliare l’ordine dei generi, anche in contesti di maggiore laicità, né personalmente ritengo che la laicità costituisca la soluzione di tutti i mali, specialmente se si considera che in nome della laicità, in un paese come la Francia, le donne musulmane non possono indossare i propri abiti religiosi in pubblico, o in spiaggia.

Quindi è importante sorvegliare l’ordine dei generi anche qui in Italia?
Sorvegliare l’ordine binario ed eterosessuale dei generi, e punire chi non lo rispetta, anche in modi decisamente più complessi rispetto al semplice divieto o alla semplice proibizione, è necessario ovunque. È necessario a garantire la riproduzione della vita biologica, non meno che di quella sociale, come ad esempio abbiamo avuto modo di osservare con il Piano Nazionale per la Fertilità, varato dal Ministero della Salute italiano, lo scorso settembre. E sorvegliare quell’ordine è ancora necessario a garantire la riproduzione della vita del capitale, e della vita così com’è. Tutti aspetti per i quali i saggi di Angela Balzano, e di Carlotta Cossutta, ci offrono validi strumenti critici.
D’altra parte, si pensi alla recente vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Nel bel mezzo della crisi del neoliberismo, ecco salire alla guida della prima potenza mondiale un uomo bianco etero, spalleggiato dal Ku Klux Klan, che fa discorsi apertamente eterosessisti e razzisti, il cui vice – Mike Pence – è un neofondamentalista pro life, ostile all’omosessualità, alla transessualità, all’aborto, alla contraccezione e all’emancipazione femminile. In fondo, il nostro è senza dubbio il tempo della femminilizzazione neoliberista del lavoro, ma è anche quello in cui le donne, a livello globale, continuano invariabilmente a occuparsi dei lavori di cura, e dei lavori sessuali, anche quando queste donne sono quelle di altra razza, colore, o classe, anche quando sono donne che arrivano da lontano a occupare le posizioni lasciate vacanti dalle donne occidentali che lavorano, o che si sono emancipate dal dovere di occuparsene. E il nostro è senza dubbio il tempo in cui le soggettività gay e lesbiche vengono messe a valore e al lavoro, ma è anche quello in cui il vicepresidente degli Stati Uniti, quando ancora era governatore dello Stato dell’Indiana, propose di proibire ai gay, alle lesbiche e alle persone trans* l’accesso ai locali pubblici. Tutti questi paradossi accadono simultaneamente, e si accavallano proprio mentre cerchiamo di espungerli da una narrazione lineare della storia o del rapporto tra capitale e lavoro. E in tutti questi paradossi, e in molti altri paradossi possibili, significa che l’ordine binario ed eterosessuale dei generi è ben saldo.
A proposito di donne. So che tu eri in piazza a Roma per la manifestazione nazionale “Non una di meno!” del 26 novembre. Com’è andata? Lo consideri un primo passo verso un’alleanza possibile tra movimenti che finalmente potranno porsi come obiettivo comune la decostruzione del privilegio?
Sì, è stata una grande manifestazione nella quale sono confluite, visibilmente, le analisi e le lotte di genere degli ultimi anni. Sicuramente, non tutte le duecentocinquantamila manifestanti erano lì a esprimere le stesse istanze. Non credo che tutte rivendicassero l’esigenza della sovversione dei generi obbligatori, quale invece era il messaggio che il Sommovimento NazioAnale ha portato in piazza, intesa come prerequisito per la liberazione dalla violenza di genere, dalla violenza maschile sulle donne e da tutte le altre forme di vulnerabilità, violenza, patologizzazione e criminalizzazione indotte dall’ordine dei generi così com’è – e di cui abbiamo parlato finora. Ma si tratta in ogni caso di istanze che hanno fatto la loro apparizione in seno a una manifestazione politicamente importante, così come nei tavoli di riflessione del giorno dopo. E in fondo, quali che fossero le istanze, non va dimenticato che un assembramento di quella portata esprime un significato politico che non è riducibile ai contenuti che, concretamente, verbalizza o esprime. E ciò che ha espresso, mi sembra, è un senso incarnato ed estatico dell’eguaglianza, non riducibile a un’illusione formale, e un senso della giustizia la cui forza sarà, ed è già, rivoluzionaria.