E se dietro i tuoi vestiti ci fossero solo tante chiacchiere?

L’abbiamo fatto ancora. Dopo #TBUtalksaboutFOOD, arriva #TBUtalksaboutFASHION. Se ci seguite sapete di cosa parlo, anche perché è venerdì e già da quattro giorni stiamo intasando la newsfeed di Facebook con questo hashtag. Parlare di moda per noi del Bottonomics non è stato facile: l’unica idea era quella di buttare su una teoretica su “Affinità e divergenze tra le camicie del compagno Varoufakis e le nostre”. Purtroppo, l’industria della moda sta alla nostra redazione maschile del Bottonomics come il senso del gol sta a Džeko. Per fortuna, Valentina, la nostra social media manager, ci ha dato una mano. Grazie Vale. Fatto questo bel preambolo, andiamo al punto. Qui si parla di Responsabilità Sociale d’Impresa (Corporate Social Responsibility, CSR) nell’ambito del fast fashion. Urgono definizioni.

In una comunicazione al Parlamento Europeo, la Commissione parla di CSR come di tutti quegli “interventi delle imprese che vanno al di là dei loro obblighi giuridici nei confronti della società e dell’ambiente”. Quindi, ad esempio, eco-sostenibilità, volontariato, filantropia e via discorrendo. Tradotto: il volto buono del capitalismo. Detto in altre parole, l’idea di fondo della CSR è che metodi di produzione più sostenibili insieme ad un’immagine pubblica positiva possano far aumentare i profitti. La sostenibilità andrà di moda.

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Ladies and gentleman, la CSR. Fonte: asean-csr-network.org

L’altra definizione necessaria è quella di fast fashion. E qui devo citare un paper uscito su Fashion Theory nel 2012 (scusate, da domani tornerò a citare riviste più consone ad un dottorando in finanza): “The phrase “fast fashion” refers to low-cost clothing collections that mimic current luxury fashion trends”. Ovvero, citando Lo Stato Sociale (è la seconda citazione che vi facciamo questa settimana: al prossimo evento TBU suonate aggratisse), “ma ti piacciono o non ti piacciono i miei pantaloni? Li ho comprati da H&M, li ho comprati da Zara, me li ha regalati il mio ex, ma ora sono libera”. Più seriamente, le imprese che operano in questo settore producono abbigliamento di bassa qualità a basso prezzo che assomiglia per design ai capi di alta moda. Loro ci vedono l’intento democratico di rendere la moda accessibile a tutti. Da queste parti, oltre alla missione di rendere la società un po’ più hipster, ci vediamo il dramma di produzioni per nulla sostenibili a livello umano e ambientale. Anche perché, l’unica equazione che vale in questo discorso è:

fast fashion = bassi costi di produzione + volumi di produzione enormi.

Per cui, è facile capire che, da un lato, bassi costi implicano la necessità di spostare il comparto produttivo in paesi con salari bassi e condizioni di lavoro inumane e, dall’altro, grandi volumi di produzione implicano un grandissimo impatto sull’ambiente. L’altro dramma, come ci fanno notare sempre da Fashion Theory, è che i consumatori sono in genere piuttosto interessati ai temi ambientali, ma quando si tratta di moda tendono a fregarsene (gli autori eseguono uno studio basato su Hong Kong e Canada, ma credo queste conclusioni possano valere in generale).

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L’attrice Olivia Wilde, testimonial della campagna Conscious

E qui entra in campo la CSR. Evidentemente, la aziende della fast fashion si rendono conto del loro impatto e hanno iniziato a mettere in campo politiche di Responsabilità Sociale d’Impresa. Esempio lampate di ciò è H&M (seguita, ad esempio, da OVS e Intimissimi) dove, come si legge nel loro Sustainability Report 2014, 170 persone lavorano alla causa e l’Head of Sustainability (il responsabile del dipartimento CSR) fa diretto riferimento al CEO. Insomma, tutto il top-management di H&M si occupa di sostenibilità.
Nella pratica, ciò si traduce nei 7 impegni che potete comodamente leggervi nel report. Tra questi, ricordiamo i prodotti della linea Conscious, fatti almeno al 50% con materiali sostenibili, l’impegno a controllare le condizioni lavorative nelle aziende partner e il motto “reduce, reuse, recycle”. Per quanto riguarda l’ultimo punto, avrete sicuramente notato dei bidoni all’interno dei negozi della catena in cui poter mettere i vostri vestiti usati, ricevendo in cambio un buono sconto. I vestiti, dai bidoni, vengono spostati in Svizzera dove ha sede I:Collect, azienda che si occupa del riciclo dei tessili e che oltre alla partnership con H&M ne vanta altre, ad esempio, con Puma, The North Face e Levi’s. Il problema fondamentale di questa mossa, però, è che la responsabilità sociale viene assunta non dall’azienda, ma dal consumatore che deve impegnarsi a riportare i capi usati al negozio. Unico incentivo: un piccolo sconto sul prossimo acquisto.

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H&M e il motto “Reduce, reuse, recycle”

Tutto molto bello, ma c’è una valanga di dubbi da tenere in considerazione. Innanzitutto, proprio da un punto di vista economico, non è chiaro l’effetto della CSR sui profitti. In altre parole, metter su un comparto CSR costa e gli studi pare non siano concordi nel dire che il gioco vale la candela. Poi viene il dubbio che, nella pratica, la CSR sia tutta chiacchiera.
Infatti, in un settore come quello della fast fashion in cui il modo di produzione è di per sé insostenibile, vista l’equazione costi/volumi di cui sopra, forse conta di più l’immagine dell’azienda agli occhi dei consumatori, che la messa a punto di una vera e propria strategia di sostenibilità. Ecco che allora le aziende concentrano le loro risorse più sulle campagne di promozione delle politiche di CSR (tipo questa di H&M con la bellissima Olivia Wilde), che in vere e proprie azioni mirate allo sviluppo di metodi di produzione meno impattanti su società ed ambiente. Viene da chiedersi, in definitiva, se la CSR non sia solo un’altra delle autoassoluzioni del capitalismo. Intendiamoci, ben vengano le politiche di responsabilità sociale, ma forse occorrono maggiori incentivi alla loro reale attuazione.

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