Il prezzo del petrolio è determinato dalla più banale delle leggi di mercato, ovvero l’equilibrio tra domanda e offerta. Incredibile ma vero, il petrolio non solo non sta finendo, ma il mondo attraversa un periodo di eccezionale produzione. Capire come si sia giunti a questa situazione richiede un’analisi complessa che prende in considerazione tematiche sia economiche che geopolitiche, che cercheremo qui di sintetizzare.
A livello globale, tra il 2000 e il 2012, la spesa per investimenti nell’industria energetica è quasi raddoppiata. A trainare la spesa in R&D nel settore energetico tuttavia sono gli Stati Uniti, con ingenti somme di denaro provenienti sia dal settore pubblico che privato: il primo concentrato sul raggiungimento del sogno di autosufficienza energetica inseguito da decenni, il secondo attirato dagli immensi profitti garantiti dal prezzo dell’oro nero prossimo ai 100 $ al barile. La maggior parte di queste risorse è stata indirizzata verso il miglioramento dei processi a monte, coinvolgendo principalmente i settori tradizionali come l’estrazione di greggio. La principale innovazione raggiunta è stata il perfezionamento della tecnica del “fracking”, che permette di estrarre il petrolio da formazioni rocciose altrimenti inaccessibili e perciò improduttive. Ciò ha permesso di raddoppiare la quantità di greggio estratta quotidianamente, toccando il record di 9,6 milioni barili al giorno (b/d) nell’aprile 2015 e generando una tale disponibilità sul mercato americano da convincere il Congresso a rimuovere il divieto di esportazione dell’oro nero americano, in vigore da oltre mezzo secolo.
Guardando alla domanda, quanto appena descritto ha determinato un crollo delle importazioni nette di petrolio da parte degli USA pari a 7 milioni di b/d in 5 anni: ciò ha letteralmente spiazzato tutti i paesi del cartello mediorientale (OAPEC) che a fronte di un improvviso surplus di produzione hanno visto aumentare le loro scorte nazionali. Inoltre, a ridurre ulteriormente la domanda ci hanno pensato anche il rallentamento delle economie dei grandi consumatori mondiali di energia (leggi Cina, India e Brasile) e l’apprezzamento del dollaro, valuta nella quale è quotato il greggio.
Cosa bisogna attendersi quindi per l’immediato futuro? Continuando a ragionare sul panorama americano, le grandi public company del settore energetico d’oltreoceano stanno tagliando il personale e riducendo gli investimenti, scelte che comporteranno una discesa del livello di produzione. Esse hanno visto i loro profitti crollare negli ultimi: ciò ha innescato una corsa alla vendita di questi titoli e di quelli di società con forte esposizione nei confronti del settore, tra cui alcune grandi banche d’affari. Se questo può far tornare alla memoria quanto accaduto sui mercati finanziari nell’estate del 2007, un dato rassicurante è che nonostante tutto il mercato di junk bond del settore energetico ha un volume di circa 200 milioni di dollari, una cifra che il risanato mercato finanziario statunitense è in grado di riassorbire. Combinando questo calo di offerta da parte degli USA ad una sempre maggiore domanda trainata da una prevista, seppur ancora timida, ripresa dell’economia globale, si dovrebbe tornare ad un nuovo equilibrio. Nonostante ciò, secondo il report pubblicato qualche giorno fa dell’americana Energy Information Administration, il completamento di questo processo di convergenza tra domanda e offerta non potrà essere raggiunto prima della metà del 2017, data nella quale si stima che le scorte dei paesi del golfo persico possano esaurirsi.
La stabilità di questo nuovo equilibrio appare già piuttosto precaria e le motivazioni vanno questa volta cercate nel mondo arabo. Un indizio è la decisione, annunciata al vertice OPEC del 4 dicembre scorso, dell’Arabia Saudita di non ridurre la produzione. Questa strategia punta non solo a mantenere le quote di mercato rispetto al rivale americano, ma anche a tarpare le ali al nuovo grande competitor che si appresta ad entrare sul mercato energetico globale a seguito della sospensione delle sanzioni ONU, l’odiato Iran sciita. Il persistere dei prezzi odierni porterebbe allo stremo gli altri paesi esportatori il cui bilancio pubblico, in gran parte finanziato dalle esportazioni di greggio, non può usufruire dei 700 miliardi di dollari di riserve che invece può vantare il Regno Saudita e che, in un eventuale gara al ribasso sui prezzi, finirebbero per condannarli alla bancarotta nell’arco di qualche anno. Se l’aggressiva politica dei prezzi di re Salman portasse i suoi frutti e alcuni grandi competitor vedessero ridimensionate le proprie quote di mercato, nel breve-medio periodo si potrebbe assistere ad un rialzo dei prezzi del greggio a livelli che permettano a Riyad di rifarsi con gli interessi dalle perdite subite, sfruttando una posizione oligopolistica rafforzata.
In conclusione, ci si può domandare se esista un prezzo del greggio auspicabile sia per il mercato che per i consumatori. Una risposta prova a fornirla il capo economista del centro di ricerca londinese “Capital Economics” Julian Jossep: ”Un prezzo di circa 60$ al barile può essere sufficientemente alto da preservare il business dei principali produttori, e abbastanza basso per fornire una reale spinta al reddito dei consumatori”.
Andrea Mangino