Black Star: piccolo hommage all’unico vero astronauta della storia

 

L’8 gennaio David Bowie compiva 69 anni e faceva uscire il suo venticinquesimo disco in studio, Blackstar. Due giorni dopo, domenica 10 gennaio, veniva stroncato nella sua casa di New York da un cancro al fegato, che lo aveva colpito un anno e mezzo prima.
Non riesco a pensare che sia una coincidenza. Bowie, il pallido, geniale, androgino, conturbante ragazzino di South London assurto all’Olimpo della musica mondiale all’inizio degli anni Settanta e rimasto lassù fino alla morte, che si era da un pezzo conquistato lo status indiscutibile di leggenda vivente, era troppo avanti per farsi spezzare a metà del salto, proprio sul più bello. La quasi perfetta coincidenza della sua morte e del rilascio del disco non è un imprevisto; Blackstar è un ultimo, inquietante, splendido cofanetto lasciatoci dal Duca Bianco, ripieno delle primizie germogliate da un cervello straordinario e da un talento unico – musicale ma prima di tutto umano, artistico, in quanto l’uomo crea l’arte quasi involontariamente, ogni volta che segue l’impulso innato di dare alla luce qualcosa di bello.
La vita di David Bowie è stata consacrata tutta all’espressione di questa urgenza, alla ricerca del bello, che fosse tramite la musica, il cinema, la danza, il mito, la pura apparenza. Ricerca che spesso è stata difficile, dolorosa, e per i primi anni completamente infruttuosa; che ha dato dei risultati a volte costruiti, ma mai artefatti; spesso particolari, ma sempre unici. E Blackstar è l’ultimo capitolo di questa ricerca (almeno per noi; chissà cosa sta facendo adesso Bowie, chissà cosa sta suonando, ovunque si trovi).
Un capitolo alieno, in un senso diverso da quello a cui ci aveva abituati negli anni Settanta. Probabilmente perché noi non vediamo più gli alieni come li vedevamo quarant’anni fa, e lui è sempre stato davanti e intorno a noi quando si è trattato di anticipare e accompagnare lo spirito del tempo. Qui non ci sono razzi e lustrini, non ci sono ragni da Marte, ma quel tipo di lontananza siderale che si trova solo nel luogo più profondo dell’umanità. Quel punto focale di gelo e disadattamento alla vita che tutti noi ci portiamo dentro, vagamente consapevoli della sua esistenza, nonostante sia sepolto dal flusso sporco e rassicurante della struttura quotidiana. I primi due singoli estratti dall’album, l’omonima Blackstar e Lazarus, ne sono fulgidi esempi.
La traccia di apertura è la follia di un uomo che apre un disco pop con una canzone estraniante lunga 10 minuti, accompagnata da un video che mette i brividi. Ma in realtà Blackstar sono due canzoni in una, o meglio: sono le due facce della vita che ti guardano da sotto la stessa maschera da joker. Fino a 4:25 e da 6:40 in poi c’è la morte, la candela nel buio che rischia di spegnersi nella villa del grande serpente; in mezzo c’è la vita che nonostante tutto si riafferma, non può fare a meno di rialzarsi e combattere una guerra che sa già persa, prima o poi. E nemmeno la vita è una sola: ci sono dentro le mille vite di Bowie, tutte vissute per qualche anno e poi sepolte, come le mille mute del grande serpente. Persino il maggiore Tom ricompare, ormai cadavere ingioiellato degli ori della gloria sulla terra, inutili per quello che è solo uno scheletro in una goffa tuta spaziale su un pianeta freddo e morto.
Non sono un gangster, una star dei film, una popstar, una star della Marvel, una pornostar, una stella errante, né tantomeno una stella bianca. Sono una stella nera, ripete ossessivamente il Duca: uno spazio vuoto. “Ficcare finalmente un’anima dentro un corpo vecchio e malato che non ne ha mai avuta una, e che in gioventù cercava di sublimarsi dentro maschere vuote. A forza di non voler essere nessuno là dietro, ora c’è qualcun altro”.

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Hi there, major Tom.

E Lazarus? Lazarus è una storia di resurrezione, ma non come quella biblica. A risorgere nel video è il fantasma di David Bowie, con una delle sue tutine spaziali glitterate e coperte di lampi spaziali. Ma adesso è la Morte, la sua morte, che viene a riprenderselo vecchio e malato in un letto d’ospedale, e in quanto morte la tutina è diventata nera, e i lampi colorati sono strisce bianche che ricordano le ossa dipinte sui costumi di Halloween. Trasfigurando se stesso nella propria fine, mentre esce da un armadio – dove di solito si tengono gli scheletri – Bowie ci sta cantando da dov’è ora; non dai Magic Shop Studios di New York, dove ha registrato il brano, ma dall’insondabile aldilà in cui solo uno come lui può andare dopo la morte. “Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / … Look up here, I’m in danger / I’ve got nothing left to lose”. Di cosa starà parlando? “This way or no way, you know I’ll be free / Just like that bluebird”.
Alla luce della sua recente (sto cercando di non scrivere “e accuratamente pianificata”) dipartita, tutte le canzoni dell’album acquisiscono un senso nuovo. Un senso che, se poteva essere sospettato dai commentatori che si affannavano dietro ai criptici testi del disco, adesso è diventato palese come un colpo di falce sul coppino. Dobbiamo essere più chiari?

– Something happened on the day he died/Spirit rose a metre and stepped aside (Blackstar)
I’m trying to/I’m dying to/I’m trying to/I’m dying to (Dollar Days)
If i never see the English evergreens I’m running to/It’s nothing to me/It’s nothing to see (Dollar Days)

E più di tutte I can’t give everything away, la canzone di chiusura dell’album:
I know something is very wrong / The pulse returns the prodigal sons / The blackout hearts, the flowered news / With skull designs upon my shoes
David Bowie ha passato un’intera vita, artistica e biologica, cercando di superare i limiti che si sentiva imposti dall’esterno, fossero essi le convenzioni di genere o la banalità del rock. E c’è riuscito quasi sempre, anche se ciò ha riscosso un inevitabile pedaggio sulla mera struttura fisica che ospitava la sua coscienza, aka il suo corpo. E allora, invece di rassegnarsi al fatto che in quanto uomo avrebbe dovuto andarsene, si è raccolto, ha preso la rincorsa ed è saltato al di là.

Bowie non è morto. Non ha accettato la sua fine con filosofia, né ha trovato un trucco narrativo per fregare la Grande Mietitrice. Niente di tutto questo: il Duca ha semplicemente trasceso l’ultima grande barriera, i propri contorni terreni, diventando qualcos’altro da qualche altra parte. E lasciandoci con uno splendido ultimo disco che parla di morte, ma che in fondo sono convinto sia il suo testamento, e nasconda il modo per seguirlo ancora una volta su quest’ultima strada che ci ha aperto.

Ora, tornate all’inizio dell’articolo e guardatelo negli occhi.
Lui sa.
Non mi convincerete mai che quest’uomo, che in Girl Loves Me canta “Where the fuck did Monday go?” e poi muore di domenica, non l’abbia fatto apposta.

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