In Asia con Matthias Canapini per dare voce alle minoranze

Quando incontri una persona come Matthias Canapini che, negli ultimi sei mesi, ha compiuto un Viaggio, sì di quelli con la V maiuscola, da Fano nelle Marche fino alla Cina, e ritorno, tutto via terra, non sai nemmeno da dove cominciare a parlare. La curiosità si spande senza confini nell’improbabile brama di ripercorrere i chilometri, le albe, i tramonti. Scovare, con delicatezza, in uno sguardo le persone, le storie disseminate per il mondo, cercare un principio da cui provare a sbrogliare la matassa, fermarsi di fronte ad una tazza di the.  Scelgo di parlare delle minoranze, di dare voce a chi ha incontrato nel suo viaggio e che non ha trova spazio altrove. Per questo e viste le recenti elezioni partiamo dal Myanmar dove Aung San Suu Kyi ha sì vinto le recenti elezioni (e il premio Nobel per la pace), ma è anche il teatro di una forte repressione di una minoranza su base etnica e religiosa. Sto parlando dei musulmani Rohingya. Ti sei confrontando con questa situazione? Ne hai parlato con le persone? Che impressione hai avuto? 

Sono entrato in Myanmar per realizzare un breve reportage in merito ad alcune delle tante minoranze etniche che vivono nel paese, ma anche per capire più da vicino il periodo pre – elezioni. Un’atmosfera delicata, in bilico tra scontri e identità. Avrei voluto spingermi nello stato del Rakhine, confine col Bangladesh, proprio per incontrare i Rohingya, pesantemente discriminati e continuamente soggetti a violenze e intimidazioni, ma per tempistiche e contatti ho rinunciato. Non sono comunque mancate le occasioni per raccogliere qualche testimonianza in merito a questo dramma umano tuttora in corso. La maggior parte di essi sono schiacciati nell’Ovest, perseguitati dai Buddisti per la loro religione Mussulmana e quindi privi di uno stato, diritti umani, libertà d’ogni tipo. In tanti tentano la fuga via mare e la maggior parte muore nel golfo del Bengala cercando la salvezza sulle coste dei paesi limitrofi come Thailandia, Malesya e Indonesia. Anche gli stati esteri fino a non molto tempo fa, seppur consci delle sofferenze inflitte alla minoranza Rohingya, non hanno mosso un dito per aiutarli, chiudendo addirittura i confini e pattugliando le aree costiere. Ora dicono di essere più tolleranti e con la vittoria di Aung San Suu Kyi vorrebbero tentare di risolvere questa problema, ma in molti credono che siano come sempre parole vaghe. L’impressione è che sia “semplicemente” un altro dramma dimenticato del nostro mondo, andrà avanti nel silenzio dei media. Si contano sempre più campi di concentramento dove i Rohingya si affollano in masse continue, senza ricevere beni di prima necessità, sopravvivendo tra un pugno di riso e qualche percossa. Dall’altra parte del mondo la vittoria di Aung San Suu Kyi può sembrare una svolta storica è vero, ma viaggiando in alcuni paesi capisci che la situazione è più complessa di quel che ti dicono. Centinaia di minoranze, dialetti, costumi, colture totalmente diverse, numerosi gruppi di guerriglieri che combattono per un proprio stato autonomo da oltre venti anni. Prima contro il governo, poi contro i trafficanti di droga infine uno contro l’altro. È tutto molto complesso e i civili, che siano Rohingya, Pa Oh, Pa Duang o Da Nu, come sempre  ci rimettono, mentre i “grandi”, in qualche modo, mangiando, bevono e si ingrassano.

Birmania

In Thailandia, invece, ti sei spinto nel nord del paese per visitare un centro di fabbricazione per protesi nato per aiutare i centinaia di amputati lungo i confini del paese. Hai visitato anche il campo? Chi sono i profughi ospiti nel paese? In che modo il lavoro di questo centro favorisce la vita dei profughi? (E come si relazionano con la popolazione?)

Il centro fabbricazione protesi si trova a circa 25 km da Chiang Mai, città molto turistica e tranquilla nel nord della Thailandia. Sinceramente questa fondazione non mi ha fatto una bella impressione: aveva i tratti di un’azienda, molto più interessata al guadagno che alla sfera umana degli amputati, che siano contadini o artigiani. Ho visitato il laboratorio, il centro riabilitazione, parlato con i responsabili, ma mai una volta hanno accennato alle storie delle vittime. Solo statistiche, percentuali, fatturato, guadagno annuale e tante belle foto attaccate alle pareti che mostrano la bontà dei benefattori. Ogni tanto organizzano delle missioni nel cuore della giungla, per portare protesi è vero, ma tutto ha l’aria di una farsa più che un reale interesse umano. Spero di sbagliarmi ovviamente. La Thailandia è il paese più sviluppato e ricco del sud est asiatico quindi molte persone provenienti dal Laos, Cambogia e Birmania superano i confini (ormai completamente aperti) per rifarsi una nuova vita, guadagnare qualche soldo in più o per scappare da guerriglie o persecuzioni.  In tanti lavorano come carpentieri o muratori nei cantieri edili thailandesi. È facile vedere anche donne, ragazzine e spesso bambini. Questo fenomeno legato al lavoro minorile è più tangibile in Birmania, ma anche in Thailandia non sembra un fenomeno estraneo.

Per il resto, ho avuto l’opportunità di visitare campi minati e supporto alle vittime in Laos e Cambogia, ma non in Thailandia. Migliaia di mine antiuomo che tuttora mozzano le gambe di bambini, contadini, taglialegna o passanti. Migliaia e migliaia, l’eredità più tangibile lasciata da un conflitto armato! Boschi e foreste piene di mine, di diverse tipologia e esplosivo. Fabbricate per la maggiore da Russia, Cina, Usa e anche Italia. Un morto lo piango, no? Un amputato invece lo mantieni, quindi sono tutti soldi che entrano nell’economia sporca e bastarda dei paesi complici. Mine fabbricate per amputare ma non per uccidere. Civili ovviamente, non premier con la cravatta al collo.

Thailandia

Passiamo poi al Vietnam. Al proposito vorrei solo chiederti di essere i nostri occhi e di raccontarci quello che hai visto, le conseguenze dell’agente arancio sulle nuove generazioni. La guerra in Vietnman non è finita, proprio per questo. Se puoi, spiegaci perché.

Ho tentato di raccontare tante realtà diverse in questi 4 anni di viaggi, ma la storia dell’agente arancio credo che sia una delle peggiori, senza dubbio. Durante la guerra del Vietnam l’esercito degli Stati Uniti ha sganciato su pianure e altopiani una diossina particolarmente tossica, denominata anche Agente Arancio. Utile per disboscare il fogliame degli alberi e quindi stanare presunti vietcong, le conseguenze più micidiali oggi sono da vedere nella popolazione civile, la stessa che in tempo di guerra non ha imbracciato fucili ne lanciato granate. Si contano più di 3 milioni di persone in Vietnam affette da malattie mortali derivanti dall’Agente tossico e gran parte delle aree agricole, soprattutto nel Sud, sono ritenute impraticabili per la presenza massiccia di diossina. Oltre 40 anni dopo, la storia continua.

Tantissimi bambini, ancora oggi, nascono con gravi malformazioni fisiche, problemi mentali, tumori e malattie di ogni tipo. I veterani o i civili contaminati dalla diossina vivono una vita di stenti e dolori. Alcuni, grandi e piccoli, si spengono lentamente, giorno dopo giorno, sdraiati su letti o brandine con lo sguardo vuoto a fissare il soffitto. Ho visitato un ospedale nel centro di Saigon ed è uno dei ricordi più tremendi che mi porterò dentro. Le scale che conducono al terzo piano si animano di schiamazzi, urla, guaiti. Provengono dalle quattro stanze dislocate lungo il corridoio. Neonati deformi mangiati da tumori e bolle infettive. Occhi fuori dalla orbite e crani tre volte più grandi del normale. Gravissime malformazioni ossee, articolazioni gonfie e corpi quasi scheletrici. Molti dei bambini o adolescenti presenti si dondolano sui bordi del letto e sbattono la testa contro le pareti. Un ragazzotto sui tredici anni ha la pelle come bruciata, coperta da croste. Le infermiere sono state costrette a legargli i polsi con delle manette per evitare che si gratti e peggiori la sua condizione. Mi chiedo però, se esista un “peggio” in situazioni simili? È una eredità atroce lasciata dal conflitto armato, completamente dimenticata dal silenzio del mondo. Per questo motivo, viaggiando, nel mio piccolo, continuo a ripetere che le guerre non finiscono quando i cannoni tacciono, ma continuano nel dolore delle vittime, nei ricordi, traumi o violenze.

Vietnam

In questo ripercorrere il tuo viaggio all’indietro, vorrei concludere con la Mongolia e una via diversa di intendere il concetto di minoranza. Portaci nelle periferie, dove vivono le famiglie più povere. Quali sono le condizioni di vita? Come funziona la giornata nelle zone più complesse di Ulan Bator?

La mongolia è senza dubbio uno dei paesi più affascinanti visitati finora. È un paese immenso, più grande di tutta l’ Europa, ma conta solamente 3 milioni di abitanti. Laghi, altopiani, deserti, foreste, fiumi e spazi infiniti non ancora contaminati minimamente dall’uomo. Si intrecciano stregoni, sciamani, realtà completamente diverse alla nostra quotidianità. Seppur in minima parte, ci sono tuttora famiglie nomadi che si spostano a dorso di yak, vagabondando in praterie ampissime e orientandosi con le stelle e rituali. Ma anche in un posto cosi magico ci sono notevoli complicazioni dovute alla povertà e alle condizioni durissimi in cui vive parte della popolazione. Il clima, soprattutto in inverno, non aiuta a crearsi aspettative migliori per il futuro. Ad esempio, quando piove, le stradine del sobborgo di Songinorhairkhan, a pochi km da Ulan Bator, si trasformano in fiumiciattoli colmi di fango e spazzatura. Tra le staccionate e i cortili malandati c’è un centro diurno di colore marroncino, costruito anni fa dall’associazione Bayasgalant. Qui vengono accolti centinaia di bambini provenienti dalle condizioni più disperate. Povertà o genitori con gravi problemi d’alcolismo. Dentro le mura del centro i bambini hanno l’opportunità di giocare, sfogarsi e studiare. Con una cantilena collettiva i bambini ringraziano le cuoche e si gettano a capofitto sulle pietanze ancora calde. Malgrado tutto nell’aria si respira umiltà, spensieratezza e generosità. Allontanandosi dalla capitale, dove lo smog si confonde con le nuvole, in meno che non si dica, come dicevo, ti ritrovi tra spazi eterni e pascoli infiniti. Un occhio umano forse non è capace di cogliere tutta questa vastità. Pecore, yak, cavalli e mucche. Qui sembra di tornare un po’ alle origini. Casa, famiglia, animali, cibo, acqua. Una dimensione umana rimasta immutata nel tempo.

Mongolia

Infine, dare voce a chi non può parlare è, per te, quasi un imperativo morale. Penso sia questo ciò che ora ti ha portato di nuovo in Europa. Raccontaci la tua scelta e cosa farai ora.   

Credo sia molto importante continuare a raccontare l’umanità del nostro mondo. Non sopporto l’idea che drammi umani e realtà dimenticate vengano ignorate dal silenzio dei media e dalla nostra indifferenza. Ho cominciato questo cammino circa 4 anni fa e sto tentando, nel mio piccolo, di riportare a casa testimonianze e cronache, nascoste nei margini della nostra società sempre più divisa. Mi trovavo in Nepal per documentare il post terremoto e supporto alle vittime quando mi sono fermato a pensare ed ho capito che il mio posto era in proprio in Europa. Tornare di corsa verso casa per compiere l’ultimo passo del progetto, l’ultima storia prima del ritorno a casa, raccontare quindi la rotta dei migranti che si snoda nei Balcani, dar voce a questo dramma umano a due passi da casa. Ho sentito che il mio posto era li, e cosi ho preso un aereo direzione Teheran e poi via fino in Grecia. Vi racconto in breve qualche storia, estrapolata dagli appunti presi in quei giorni: “Le tende del campo profughi di Idomenei, confine greco – macedone, sono decorate con scritte e disegni infantili. Alcune riportano i nomi dei piccoli migranti ignari: Rama, Yazed, Zin, Hassan. Nei campi attorno, sparpagliati qua e là e mangiati dalla terra, puoi trovare vestiti, peluche, scarpe, i segni tangibili della fuga precipitosa verso una presunta libertà (?). Circa 5.000 persone al giorno superano questo confine posto a sud, proseguendo la rotta nei Balcani per poi raggiungere il cuore d’Europa. 5.000. Ogni giorno. Una perenne marea umana. File chilometriche di pullman. Bambini, giovani, donne, uomini, anziani in fuga da Iraq, Iran, Afganistan, Siria, una piccola percentuale dallo Yemen ma anche da Nord e Centro Africa. Un pezzo di pane, una zuppa, qualche coperta e poi via verso Nord. Abdel è scappato da Aleppo insieme ai suoi due fratelli maggiori. Hanno raggiunto per miracolo l’isola di Lesvos. “Dove siete diretti? Non lo sappiamo, in qualsiasi luogo più fortunato di casa nostra”. Oppure Ahmed, 30 anni, scappato dalle campagne di Damasco insieme alla moglie e al piccolo Firas, un anno appena. Imbarcati su un gommone malandato hanno raggiunto le coste greche: “È stato difficile, ma almeno non ho dovuto gettare in mare il corpo di mio figlio … molte persone sono morte nella traversata”. Le vette sono innevate e la tensione è palpabile. Le attese infinite. È un esodo senza fine. A due passi da noi. Ora.

Angela Caporale

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