Uma fina saudade metropolitana: Arto Lindsay, Prize (2000)

“However, the artlessness of your gesture/ is a present, let me keep it” Uso una Punto grigia vecchia di tredici anni, da un paio d’anni. Mi giunse piena di dischi di Vasco e altre cose poco raccomandabili che credo di aver restituito al primo proprietario. La macchina, che è ancora la mia prima macchina, aveva, finalmente, oltre all’autoradio , anche il lettore cd, anzi, il lettore cd MULTIPLO, che per uno che aveva fino ad allora vissuto al massimo con un’autoradio degli anni ’70 (che devo ammettere era per essere tale) era una sorta di bio-hacking. Io già esultavo e , perché il lettore, dopo il primo cidì masterizzato per l’occasione che con molta fretta e tanto amore avevo fatto (c’era – dei Giardini di Mirò), progressivamente, decise di tacere e io rimasi con la sola autoradio. Va tutto bene, ma questo mi impedì di fare tante cose divertenti con gli amici o, più realisticamente, da solo: una di queste era darmi una bella riascoltata a un cd di inizia in sordina e già fa capire molto del disco: una chitarra acustica in un accordo che più di minore sa di appena dissonante, mentre la voce di Lindsay prende una strada finto-celestiale. L’ e ciò che segue sono di una leggerezza rara, proprio perché appoggiati con sapiente a un pattern di batteria che oltre a un rullante convenzionale annovera anche dei che sembrano più attinenti alla lavorazione del legno che alla musica – come pure la percussione barattolesca che si aggiunge alla strofa seguente. I sassofoni tenore e baritono (mi pare) ripetono una frasetta in legato che è indicativo della poetica di La chitarra morsa, addentata, diventa un contorno, al pari della percussioni o del tastierino che sa di fisarmonica (un giro di parole per presentarVi è un pezzo tosto, si presenta non umile, ma neppure roboante. Un tappeto di rumori in reverse e sprazzini di noise danno il la# a una chitarra un po’ goffa, con l’intento di essere allegra. Il canto/controcanto Arto Lindsay/ ) riesce a essere un bell’incastro per contrasto radicale, non certo per affinità (e qui andrebbe doverosamente aperto l’armadio della vergogna dove riposano inquieti, come dei piccoli bambini rinnegati e amanti del diavolo, proprio come in un pezzo di Nick Cave, tutti gli inserti malriusciti della storia del pop-rock. Prometto che apriremo questo armadio, presto o tardi), spalleggiato da una selva di big drums a cui si aggiunge una frasetta di sassofono ricorrente. è la canzone decisamente più tradizionale, fino alla metà; dopo scatta un momento inizia con qualcosa che sa di Portishead ma ritorna sulle strade (no, sul serio, quanti fra i vostri conoscenti credono che sia drum’n’ ? io ne conosco almeno uno), che sul cantato di Lindsay diventa più inquietante che altro: qualcosa su cui, in un altro contesto, balleresti. sulla stessa linea del brano d’apertura, per un accordo iniziale in minore che contrasta con l’orecchiabilità zuccherosa del , una domanda che ha del marxiano, nel senso di Groucho , uno degli eroi dimenticati degli anni ’90 (anche lui brasiliano, non a caso) e contaminazioni industriali. Questo è uno degli album che, nella sua personale e non eterodiretta maniera, rispecchia la mia idiosincratica concezione dell’elettronica di fine anni ’90 e inizio anni ‘2000. Cioè? Cioè concepire l’utilizzo della stessa non come il punto di partenza per costruire un pezzo, ma come inserto, il più possibile omogeneo alla trama del pezzo. Non qualcosa che stravolga, ma che arricchisca e dica qualcosa di diverso all’interno di un pezzo pop-rock-quellochevuoi. Per il disinteresse generale, mi riprometto di tornare sull’argomento e per quanto riguarda questo disco, la fusione fra e sporcizia electro è realizzata con garbo: i suoni aspri o potenzialmente aspri della parte elettronica-noise sono piuttosto addolciti e/o perfettamente integrati col resto, in modo da non spiccare come elementi troppo anomali né da risultare cacofonici all’ascolto. Ad ogni modo, un buon riassunto per questo disco che porto nel cuore e nel cruscotto – che ovviamente sono costretto a rubare, altrimenti non sarebbe tale – è il seguente: si muove il culo sulla sedia in maniera un po’ rassegnata ma vigorosa. i cose su un personaggio interessante come Arto Lindsay, vi basti sapere che è stato epigono della scena nei D.N.A. e ha partecipato a un gruppo che va forte fra chi non capisce un cazzo di jazz ma vorrebbe, cioè i di John Lurie, che hanno fatto, anche se molto più didascalicamente e sfacciatamente, quello che hanno fatto i Bad Seeds insieme a Nick Cave per il rock’n’roll etimologicamente inteso: lo hanno distrutto dall’interno. [versione radicalmente rimaneggiata di un mio articolo apparso su un altro oscuro –