If I could wave my magic wand… – 30 anni di Presto

If I could wave my magic wand… – 30 anni di Presto

(al momento in cui scrivo questo articolo, come sempre annaspando dietro alla deadline che mi sono dato – e ho dato alla direttrice), il 21 novembre 1989, Nel 1988, il trio canadese aveva appena concluso l’ennesimo tour di successo, in supporto dell’ultima fatica in studio : un album generalmente ritenuto ‘controverso’, il cui principale difetto è però l’ingenua “Tai Shan”, che affoga in . Per il resto, al di là dei suoni così ineluttabilmente anni ’80, è ! Un saluto a Luca del fan club italiano dei Rush). Dal tour (e da quello precedente) esce anche il live , il cui titolo è preso da un pezzo che spacca un sacco di , disgraziatamente non incluso nelle versioni audio, ma solo in quelle video (inizialmente, VHS e Laserdisc). Con A Show of Hands si conclude il rapporto della band con la Mercury, il che li lascia completamente liberi di pensare a una nuova mossa per il loro futuro tra le dolci braccia della Atlantic Records, loro nuovo distributore internazionale. Questa nuova mossa sarà ritornare a , con le chitarre di nuovo in primo piano, dopo la fase tastieristica degli anni ’80, proprio con , che ha lavorato con diverse band prog negli anni ’70, tra cui i Greenslade, i , Kevin Ayers e il fondatore dei Genesis Anthony Phillips, e negli anni successivi con artisti tra i più vari, dai Saga a viene registrato molto rapidamente, e pubblicato per l’appunto a novembre 1989. , come molti album post-Hugh Padgham (lo storico produttore di Phil Collins). Eppure, trovo che sia stato dato troppo peso a questo elemento, mettendo in ombra delle dei Rush, con testi sempre splendidi di Peart, qui impegnato in riflessioni forse più ‘adulte’ rispetto ai dischi anni ’80, e ormai distante anni luce dalle saghe cosmiche degli anni prog. Di certo, , che vede la sua chitarra di nuovo in prima linea, dopo essere stato sepolto da negli anni ’80 (qui una precisazione fondamentale: sebbene lo stesso Lifeson si sia sempre sentito oscurato, abbastanza a ragione, in realtà le sue chitarre hanno continuato a essere un elemento indispensabile nella musica dei Rush, anche sotto i tappeti di tastiere). Certo, il suo sound non è quello sognante degli anni ’70, e nemmeno quel suono pieno e ricco degli anni 2000, ma il nostro riprende saldamente il timone. Questo, naturalmente, senza costringere il bassista e cantante ad abbandonare le tastiere, che qui ricoprono ancora un ruolo importante, per quanto non siano più l’elemento trainante. Neil Peart qui torna alla batteria analogica, dopo aver incorporato quella elettronica molto pesantemente nei suoi kit degli anni precedenti, e anche se ogni tanto ha un approccio un po’ schematico, regala qui alcune idee , nel primo passo verso la rivoluzione, arrivata qualche anno dopo su e un ritornello, sebbene forse figlio del suo tempo, assolutamente memorabile. Segue “Chain Lightning”, che da un assaggio della direzione hard rock che prenderà la band, per poi arrivare alla prima grande gemma del disco: la struggente , uno dei pochissimi brani dell’album sopravvissuti al tour promozionale. Il brano, che cita Oscar Wilde, parla della romanticizzazione del suicidio, e di come venga troppo spesso dipinto come qualcosa che non è. Qualche anno dopo, la band lo includerà su , con un giro di batteria ispirato a Peart da alcune percussioni africane ascoltate durante le sue , che riprenderà spesso, in futuro, incorporandolo nei suoi assoli di batteria. Il lato A del vinile si chiude con : dice Peart, io non credo alla magia, ma a volte vorrei crederci per poter aggiustare le cose tra di noi. Il brano verrà riesumato, in una versione al fulmicotone, per il live del 2011 Il lato B inizia con “Superconductor”, un pezzo poppeggiante, e prosegue con la curiosa “Anagram (for Mongo)” con un testo farcito di calembour e di Mel Brooks. “Red Tide” è un pezzo distopico che racconta la storia di una Terra devastata dal fallout di un inverno radioattivo, e una delle chicche nascoste dell’album. “Hand Over Fist” una tenera riflessione sulla solitudine di un uomo (Peart stesso) che ha difficoltà ad aprirsi agli altri e a relazionarsi serenamente. , che prende il titolo dalla definizione di una tecnica fotografica, essenzialmente quella dello scattare solo con la ‘luce disponibile’, quella naturale, per riflettere su come sia necessario vivere la vita facendo tesoro delle piccole cose belle di ogni giorno, ed è , la band ha suonato regolarmente la sola “The Pass” (presente anche sul già citato ): come molto del loro materiale degli anni ’90, non essendo diventato un classico, ha avuto poca fortuna anche negli ultimi anni della band, quando il revival della loro musica ha consentito loro di intonare un canto del cigno come nessun’altra band mai. – quasi sempre, si badi bene, per via della produzione, che è figlia del suo tempo, ma non degna, a mio parere, di tutta questa ostilità. Eppure lo stesso Neil, in un’intervista di gennaio 2015 al magazine specialistico , ha infatti confidato che, avendo l’occasione di risuonare e riregistrare un solo album, avrebbe scelto proprio Presto: