Anote’s Ark: resilienza in mezzo al mare

Anote’s Ark: resilienza in mezzo al mare

Questo articolo inizia con uno spoiler: questo documentario finisce dicendo che non è ancora finita, che c’è ancora da resistere, da lottare, da sensibilizzare. Parliamo di Anote’s Ark, docufilm a cura di Matthieu Rytz uscito nel 2018 : un’ora e tredici di fotografia incredibile, musiche e silenzi e di esempi di resilienza. Si tratta di un documentario sconvolgente, rispettoso, necessario. . Che cos’ha di tanto speciale questo stato di appena 100.000 abitanti nel bel mezzo del Pacifico? Gli atolli paradisiaci? Sì, ma no. Lo stile di vita apparentemente lontano dal logorio della vita moderna? Nemmeno. Il fatto che a causa dell’innalzamento del livello della acque causato dal cambiamento climatico Anote’s Ark è la storia di uno stato peninsulare destinato ad annegare, ma che, nonostante la quasi totale indifferenza generale, non smette di cercare una soluzione e di costruire resilienza. Portavoce dell’isola in questo docufilm si fanno Anote Tong, ex presidente di Kiribati impegnato nella sensibilizzazione sui rischi legati al cambiamento climatico, e Sermary Tiare, giovane donna e madre definibile rifugiata ambientale, a cui la Nuova Zelanda ha concesso un visto ad hoc e conseguentemente la cittadinanza a causa del destino incerto della Repubblica di Kiribati. Le avventure diplomatiche di Ante si intrecciano qui alla storia di migrazione di Sermary: mentre il primo gira il mondo per discutere l’emergenza climatica con altri capi di stato e vede adottato l’accordo di Parigi, la seconda condivide spaccati della propria quotidianità, fatta di separazione dai sei figli, di lavoro nelle piantagioni di kiwi e di costruire da capo una vita in un altro luogo. Questo documentario è sconvolgente a tanti livelli. Primo, perché ti mette davanti all’evidenza che . Nella stampa italiana, l’ultimo cenno a Kiribati risale ad un mese fa e non c’entra assolutamente con l’innalzamento delle acque o con i tifoni che si abbattono sull’arcipelago nonostante l’area tropicale non sia mai stata soggetta a tali fenomeni meteorologici. La stampa estera ne parla di più (difficile parlarne meno), ma sempre con tagli diversi da quello della crisi climatica. Kiribati non è nell’agenda, non se ne parla, non la si vede. Secondo, è sconvolgente perché ti mostra come chi meno inquina sia il più colpito dagli effetti dell’inquinamento stesso Infine, è sconvolgente perché riesce a comunicarti tutto ciò con speranza. Mentre guardi questo documentario, non puoi fare a meno di chiederti cosa faresti tu in una situazione simile. Uno dei primi sentimenti è quello di stupore, perché ti rendi conto che di tutta la violenza delle emozioni che sentiresti in questo scenario non c’è traccia nel film. C’è rabbia, dolore, certo, ma non collera o disperazione. C’è al contrario determinazione e una spinta attiva a costruire resilienza e a pensare nuove soluzioni, siano esse costruire delle isole artificiali in stile Futurama o emigrare verso altri paesi. Il regista sceglie qui di narrare la stessa storia, ma in modo diverso. Dove ci si aspetterebbe attacchi e accuse a chi è causa del cambiamento climatico, ci sono . Dove ci si aspetterebbe un cieco diniego del proprio destino, c’è una i. Dove ci si aspetterebbe un’isola in mezzo al mare che deve essere soccorsa e salvata, c’è una comunità che chiede aiuto per salvarsi da sola. Immaginare che la propria città, il proprio paese intero, tutto ciò che chiamiamo casa possano ad un certo punto smettere di essere . Ci sono persone, però, per cui questo non è una semplice astrazione conturbante facilmente allontanabile. Questo film è un promemoria per tutte le volte che individualmente o collettivamente pensiamo che non sia così importante agire per risolvere la crisi climatica. Come dice Anoke, “il cambiamento climatico non è una questione politica, non è una questione economica, è questione di sopravvivenza”.