L’arte alleata dell’ambiente a Venezia

L’arte alleata dell’ambiente a Venezia

Negli ultimi tempi si sta alzando, in maniera sempre più perentoria, una voce che sembra ripetere come un mantra che, per quanto riguarda l’ambiente, dobbiamo mobilitarci in fretta, se vogliamo ancora avere qualche speranza di salvare il pianeta. Anche fin dagli albori delle prime mobilitazioni pro-ambiente, come per esempio quando alla fine degli anni Sessanta si sviluppò la corrente della , con opere che si innestavano nell’ambiente attraverso l’intervento diretto degli artisti sulla natura: forme tangibili di un ripensamento radicale del ruolo dell’arte all’interno delle dinamiche economiche della società dei consumi. Questa riflessione, in aperto conflitto con la mentalità consumistica, nasceva in un momento storico in cui una parte dell’ambiente artistico iniziava ad intendere il proprio : un atteggiamento di impegno ecologico che ha continuato a manifestarsi in varie forme e movimenti fino ai giorni nostri. Dagli anni Novanta, in seguito all’organizzazione da parte dell’ONU delle prime , all’interesse per l’interazione dell’uomo con la natura si è affiancata la necessità di una più pressante azione di sensibilizzazione sui rischi ecologici, concretizzatasi anche in un contributo della Biennale d’Arte e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia al dibattito sull’impegno ecologico dell’arte , che vede le due istituzioni impegnate nell’organizzazione di due esposizioni, rispettivamente l’evento collaterale Artists Need to Create on the Same Scale that Society Has the Capacity to Destroy: Mare Nostrum a città di Venezia, che ha con l’ambiente naturale un rapporto complesso fin dalla sua fondazione, si propone così come il luogo ideale per utilizzare l’arte come catalizzatore di una riflessione più profonda circa l’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale. In laguna, dove l’ambiente è sempre più minacciato da un turismo di massa asfissiante, il mondo dell’arte, non sempre sensibile a queste dinamiche, comincia tuttavia a porsi il problema della sostenibilità della suo stesso sistema. Artists Need to Create on the Same Scale that Society Has the Capacity to Destroy , pubblicazione newyorkese indipendente sul mondo dell’arte nata ad inizio secolo, in collaborazione con i curatori Phong Bui e Francesca Pietropaolo. Il progetto espositivo è la concretizzazione artistica dell’attivismo militante , immaginato per riflettere sulle responsabilità della società nella corrente crisi ecologica e per intervenire con una strategia comune per rimediare al disastro ambientale prima che sia irreparabile. è una riflessione corale sul tema dell’ecologia, incentrata sul rapporto tra l’uomo e le risorse naturali Artists Need to Create on the Same Scale that Society Has the Capacity to Destroy (2006), Lauren Bon and The Metabolic Studio © Lauren Bon and The Metabolic Studio. Photograph by Joshua White Entrati nella chiesa, in armonia atmosferica con la luce soffusa che permea l’interno dell’architettura, si viene predisposti ad uno stato di meditazione immersiva da due opere che richiamano in modo diverso l’ambiente marino e le sonorità del Mediterraneo, per approdare poi all’incontro con un’installazione che ci mette brutalmente di fronte alla magnitudine del nostro potenziale distruttivo. mpegnata nella realizzazione di interventi di arte ambientale con il preciso scopo di rigenerare il paesaggio sociale e urbano delle metropoli contemporanee, obiettivo di cui si fa portavoce attraverso le operazioni artistiche . L’opera ricrea con cartapesta e metallo lo scheletro di un albero abbattuto e sventrato da un incendio la cui cenere è utilizzata per annerire la superficie del tronco, in un funereo ricordo della sua distruzione. Il processo creativo dell’artista si manifesta dunque in un vero e proprio atto rigenerativo, capace di donare una nuova esistenza a ciò che l’intervento umano ha demolito. Tuttavia ciò che qui si materializza, più che l’albero in sé, è la ferita inferta alla natura dall’azione incosciente dell’uomo, concretizzata in un’installazione il cui realismo penetrante diventa una riattualizzazione dolorosa del crimine commesso contro la natura. Sfruttando la forza evocativa dell’arte, Lauren Bon costruisce opere che sono riscritture metaforiche dell’attuale crisi ecologica, visioni di inquinamento e contaminazione dal forte impatto poetico , capaci con la loro violenta forza visuale di sconvolgere e turbare immagini altrimenti familiari. Nella cappella antistante all’altare, l’installazione avvolge di una inquietante patina di bitume la scrivania, i libri e le ampolle tradizionalmente impiegati nella raffigurazione iconologica del santo traduttore nel suo studio. L’impressione di una strabordante inondazione di inchiostro richiama altri e più letali sversamenti di liquido nero, evocando i disastri petroliferi che contribuiscono con particolare virulenza all’inquinamento marino. Inverted Mediterranean Pine (2019) di Lauren Bon © Photo: Haupt & Binder Non concentrandosi solo sulla concretizzazione visuale delle conseguenze dei disastrosi rapporti fra uomo e natura, la mostra esplora artisticamente anche le possibilità di trasformazione creativa dei lasciti dell’inquinamento , presentando opere che ne rielaborano i prodotti in installazioni dall’inquietante fascino estetico. In una nicchia laterale, Julian Charrière esplora le potenzialità del rapporto fra natura e tecnologia con la , modellata a partire dall’unione di lava artificiale e scarti disciolti di componenti informatici. L’artista propone, con la sua opera in bilico tra concreazione geologica e scultura astratta, un possibile aspetto positivo dell’interazione fra naturale e artificiale, la cui reciproca compenetrazione apre a nuove possibilità creative. L’inserimento armonico dell’elemento artificiale in quello naturale si comporta come una restituzione creativa all’ambiente di ciò che era stato contaminato dall’uomo. dell’esposizione si svolge sul retro della chiesa, dove al tema ambientale si affianca il tentativo di ricosti che da quasi quarant’anni sviluppa progetti collaborativi a sostegno della biodiversità e dello sviluppo di comunità sostenibili. Con , una reinvenzione contemporanea di un codice medievale, l’artista, in collaborazione con la moglie Helen Mayer Harrison con cui forma un sodalizio artistico, esprime una serie di considerazioni filosofiche sull’ecologia a partire da esperienze semi-autobiografiche, in un’esplorazione narrativa dell’ambiente lagunare e della sua unicità. Sempre con l’intenzione di costruire un l’artista propone una video-lezione che ha più gli accenti di un’auto-accusa, in cui un uomo si denuncia responsabile per i danni che arreca al Mediterraneo mare stesso risponde, prendendo la parola e intimando all’uomo di mettere fine ai suoi disastri. L’urgenza di dover cambiare rotta per impedire catastrofi ambientali ben più gravi di quelle odierne in un ambiente già sovraffollato e ipersfruttato nelle sue risorse, non è evocata tanto dalle sequenze di immagini di litorali devastati dal turismo di massa, ma è sottolineata piuttosto dall’insistenza e drammaticità  che animano l’invocazione rivolta ad un elemento naturale altrimenti muto. di Maya Lin, e un’ultima opera di Lauren Bon eponima della mostra, che riconducono lo spettatore al punto di partenza della mostra, comunicando un senso di circolarità dell’intero progetto espositivo. non mancano spunti anche molto interessanti legati agli intenti curatoriali dichiarati di mettere in mostra ciò che l’arte crea come risposta a ciò che la società distrugge , contribuendo ad un mostra capace di rappresentare la complessità della tematica, suscitando riflessioni empatiche. Nonostante la molteplicità dei contributi dei differenti artisti possa talvolta risultare dispersiva, la mostra sembra voler invitare lo spettatore a costruirsi un percorso di fruizione personale ed emotivo, senza imporre un percorso forzatamente coesivo. Passando dall’acqua del Mare Nostrum come fonte d’ispirazione a ciò che nell’acqua del mare finisce ad opera dell’uomo, la , esposta nel cortile della sede centrale dell’Università Ca’ Foscari, presenta un altro aspetto della complessa problematica della relazione fra arte e ambiente, lasciando un segno innegabile al di là di ogni considerazione di carattere estetico. Nonostante la spregiudicatezza estetica e il violento impatto visuale dell’opera di Holstand, costruita come una trasposizione parodica di una cornucopia realizzata come un agglomerato di rifiuti in plastica, la forza evocativa dell’installazione richiama immediatamente alla mente l’ attualissimo problema delle enormi quantità di rifiuti che galleggiano nei mari ed oceani di tutto il pianeta .  Il dibattito intorno a questo problema è proprio ciò che l’artista vuole alimentare e rafforzare con la sua scultura, composta da materiali provenienti dalle campagne di raccolta rifiuti in mare realizzate da 12 pescherecci di San Benedetto del Tronto nell’ambito del progetto , co-finanziato dall’Unione europea. Intenzionalità che ritorna anche nell’idea dell’Università di Venezia di organizzare il convegno “From Pollution to Solution” tenutosi il 5 giugno, ideale controparte concettuale delll’imponente materialità dell’opera di Holstad, in cui il mondo della ricerca, dell’arte, dell’industria e la società civile si sono confrontati su cause e conseguenze della presenza di plastica nei mari, sulle possibili soluzioni al problema e sui rispettivi ruoli che in questo ambito ciascuno deve svolgere. Il Padiglione dei Paesi Nordici alla 58ma Biennale di Venezia © Finestre sull’Arte Sensibilizzare e portare le persone ad interrogarsi sulla questione ambientale facendo leva è dunque l’obiettivo ultimo di questi due eventi, particolarmente riuscito nel caso dell’enorme installazione di plastica non tanto per le sue imponenti dimensioni, ma piuttosto per la potenza iconica delle sue forme riciclate. in un misto di moda-Thunberg e reale preoccupazione per il tema . Il padiglione del Canada, ad esempio, propone opere di video-arte realizzate da un collettivo Inuit che esplorano come l’interconnessione fra imponenti opere di estrazione mineraria e cambiamenti climatici influisca sull’ambiente in cui vivono le loro comunità, mettendone in pericolo la sopravvivenza. Il padiglione dei Paesi nordici si concentra invece sul fragile equilibrio fra le diversi specie all’interno degli ecosistemi terrestri, collegando fin dal titolo ( ) il futuro dell’umanità ad una diversa consapevolezza della nostra interrelazione con le altre specie viventi e sul loro impatto. Con mezzi e materiali diversi e offrendo una prospettiva globale da punti d’osservazione sparsi un po’ per tutto il globo e con un impatto a volte molto forte sui visitatori, il mondo dell’arte prova a fare la propria parte sulla questione ecologica, partecipando all’attualizzazione di un dibattito sempre più urgente. Forse sarà solo nel momento in cui inizieremo a “considerarci ospiti” di un pianeta nei confronti del quale continuiamo a comportarci “come bambini maleducati”, che la consapevolezza schiacciante della nostra responsabilità non potrà più lasciarci indifferenti. davvero arrivare alle soglie dell’estinzione, come in modo provocatorio suggeriscono alcuni di questi artisti,