Nel giardino dei Titani: 5 dischi del 2018

. Non scrivo su The Bottom Up da più di un anno (da settembre 2017), ed è un paio di mesi che medito su quale potrebbe essere Da quando scrivo su The Bottom Up, sono passati cinque anni, e neanche un Listone di Fine Anno con i Migliori Dischi dell’Anno Passato. (vi prego di notare che questi non sono, in effetti, i cinque dischi che ritengo i migliori dell’anno: sono i cinque dischi che, tra quelli usciti quest’anno, . Come vedete, da bravo progster, non c’è nulla di quelle cose moderne che ascoltano i giovani. Non ci sono anche alcuni dischi che ho apprezzato ma non abbastanza da dirvi “guarda, questo lo devi proprio sentire che è mondiale”, nello specifico il debutto eponimo dei : ho ascoltato quei gruppi che, quando ero un adolescente sfigato, I miei amici metallari più fighi già ascoltavano. I sono un meraviglioso connubio di tre tra i miei gruppi metal preferiti: gli Opeth (dei quali hanno in forza il batterista ), i Paradise Lost (con i quali condividono il carismatico cantante , che ne sono il cuore pulsante come lo sono dei Bloodbath). Inizialmente, nei Bloodbath militava anche il degli Opeth cantante e sommo profeta Mikael Åkerfeldt, che però ora ha perso interesse nel metal estremo – e questo, non l’avrei mai detto, è il principale punto di forza della nuova formazione: il Insomma, questa band fa un death metal nello stile della vecchia scuola svedese (sono tutti svedesi tranne il britannico Holmes), che all’inizio era più dello stesso, ma negli ultimi due album pare essersi fatto molto più serio. Dopo un album di rodaggio con Holmes, sul nuovo The Arrow of Satan is Drawn la band offre divertimento a più non posso, che ai non addetti ai lavori potrà sembrare insopportabile cacofonia, ma dai, leggetevi i titoli: come si fa a non voler sentire un pezzo che si intitola “Bloodicide” o “March of the Crucifiers”? La mia sorpresa (fino a un certo punto, ma insomma, capitemi) del 2018 è il secondo album di Luca Dorotea, in arte , ovvero un terzo dei Carnicats, assieme a Dek IllCeesa e DJ Deo, trio di hiphoppers carnici. , ma un po’ questo è uscito nel 2018 e quindi ha senso inserirlo in questo listone, un po’ c’è stato un salto di qualità. Molti dei pezzi sono suonati da una ‘vera’ band, che da ai brani un suono più fluido rispetto a quello che avrebbe avuto una produzione hip hop più tradizionale, e gli ospiti (presenti su quasi tutti i brani) raramente fanno la differenza – i pezzi sono terribilmente buoni già di loro – ma , leggendario artista friulano, con una specie di rielaborazione del classicone “Tu Tramontis”, tradizionale noto ai più nella versione degli (scusate tutto questo name-dropping casuale di artisti rock friulani, ma questo listone sta già venendo abbastanza lungo, cercateli su Google), alla successiva “Blu” con il coro FVG Gospel Choir, a “Caos Ordinato” con il fradi Dek IllCeesa. Il mio pezzo preferito del disco, comunque, con una Arriviamo sul podio con l’ultimo lavoro di uno dei tre progetti dello sfuggente sono essenzialmente lui e Billy Howerdel, polistrumentista e principale compositore; sull’album li aiutano il bassista titolare Matt McJunkins (ma solo su due brani) e tre batteristi (il titolare Jeff Friedl, Matt Chamberlain e Isaac Carpenter). Dal vivo si aggiunge, quando non è impegnato con gli Smashing Pumpkins, il chitarrista ritmico James Iha. del 2004, è affascinante notare l’influenza dei Puscifer, l’altro progetto di Maynard, con la sua atmosfera che più che ai Tool rimanda ai Gorillaz. Ci sono pochi pezzi hard rock, che invece abbondavano sui primi due lavori, Mer De Noms e Thirteenth Step, e molti brani lenti, ipnotici. Il tema del disco è inevitabilmente la contemporaneità, ma anche e soprattutto nella forma di un invito alla riflessione e alla calma, più che alla rivoluzione violenta, molto in stile Maynard. Oltre a pezzoni come (uno dei pochi rimandi ai Tool del disco) e “TalkTalk” l’album contiene anche quella che, non me ne abbiano quelli al secondo posto in questa classifica, eleggo a , omaggio agli artisti scomparsi negli ultimi anni (si citano Prince, Carrie Fisher, David Bowie e Gene Wilder) con titolo ispirato alla Guida Galattica di Douglas Adams, e tagliente specchio della società consumista. è vicinissimo alla vetta. Da un certo punto di vista è niente più che , eppure c’è molto di più: i Ghost del 2018 sono radicalmente cambiati rispetto a quelli di un anno fa. C’è stata la rivelazione finale dell’identità dei vari Papa Emeritus nonché del Ghoul Writer autore di tutte le loro canzoni, quel Tobias Forge che era nei pettegolezzi già da molto tempo, al quale diversi ex ghoul (i musicisti mascherati parte dei Ghost) hanno fatto causa perché, a quanto pare, non li pagava abbastanza. Ok, probabilmente è un po’ più complicato di così, ma insomma, mi avete capito. C’è stata la sostituzione di Papa Emeritus III con , un personaggio più giovane e dinamico a detta di Forge, ed è arrivato più pop, più metal, più bombastico, più ambizioso, in breve più Ghost ” che vi sfido a farvi uscire dalla testa, si capiva che Forge continua a fare sul serio, ma la conferma arriva con l’immenso strumentale con un assolo di sax devastante, che prosegue con il contendente di “So Long…” da poco citato per ‘canzone del 2018’: , con un ritornello assolutamente perfetto che fa “Just wanna be, wanna bewitch you [voglio stregarti]…” giocando con “be with you”. Nell’edizione deluxe ci sono due cover, ed è davvero stupenda la versione ‘fantasma’ di , quintetto svedese tra il prog e il metal (avevo recensito il loro penultimo album quanto il titolo fa intendere. La sua unica pecca, e lo dico all’inizio così me la tolgo, è che è decisamente troppo corto (dura appena un’ora e mezza – accettabile per un album dal vivo normale, ma per un video è decisamente inferiore agli standard a cui ci siamo abituati – male). (ok – posso concedere ai fan della prima ora che Peter Lindgren aveva più personalità di Frederik Åkesson come chitarrista co-solista, ma mi fermo lì): il già citato La scaletta, una panoramica sulla quasi totalità della carriera della band (quasi ogni album ha un brano qui presente), dove i brani vecchi suonano meravigliosamente, finalmente suonati con dei mezzi adeguati alla qualità compositiva (determinante anche l’apporto delle tastiere, assenti sui lavori originali – ), e quelli nuovi hanno una seconda nascita, soprattutto grazie a una produzione uniforme e a un Martin Axenrot assolutamente in stato di grazia dietro ai tamburi ( (il primo pezzo pop scritto da Åkerfeldt, a detta di lui stesso), e la