Scotland’s Pride – i Mogwai ancora sul pezzo

e pur non sfuggendo a una quantità fisiologica di passi falsi restano un gruppo piacevole ed interessante da ascoltare su disco come dal vivo grazie alla loro capacità di reinventarsi pur mantenendo intatto un certo approccio alle cose che li rendono non dico unici, ma quantomeno immediatamente riconoscibili. Ma, prima di difenderla un poco, partiamo dal presente: siamo stati per quella che è almeno la terza se non la quarta volta a degli scozzesi, con Indipendente Concerti. La prima volta, però, senza il chitarrista John Cummings, ritiratosi a progetti privati ormai due anni fa esatti, dopo aver contribuito a danneggiare permanentemente il mio udito sempre all’Estragon, nel 2011, con una coda noise del classico di cui nessuno (Euterpe per prima) sentiva il bisogno. Da allora ho scoperto il terribile mondo dei tappi per le orecchie per fare o ascoltare musica dal vivo e ho perso l’innocenza auricolare per il resto dei miei giorni. Non ho , pur senza Cummings, mi insaporisce un pochino di più il piacere dell’ascolto. Ad oggi, il ruolo di secondo chitarrista per il live spetta a glasvegiano come gli altri, mentre problemi di schiena hanno fatto sì che alla batteria sedesse a mio modesto parere hanno sempre fallito a trasmettere. Menzione per la Cat, intanto per lo scenograficissimo secondo piazzato alla sua destra ad una altezza che farebbe preoccupare qualsiasi fisioterapista, e poi, come dicevo, per l’energia, evidentemente trattenuta dal fatto di dover calzare a pennello il cappellino da papà in gita al mare di Bulloch. Di tanto in tanto, penso che per una volta sarebbe interessante ascoltare i Mogwai con un batterista più dinamico – per quanto alcuni , non particolarmente ispirato forse, ma d’altronde i Mogwai ormai hanno una discografia tale da aver scolpito nella pietra quei pezzi che compongono la scaletta-tipo degli scozzesi. Se avessi sbatto controllerei, ma credo che i pezzi suonati nel 2011 nella stessa location fossero in gran parte gli stessi. , perfettamente integrati e fedeli all’album, che a sua volta nonostante la produzione del sognante David Fridmann, sono orchestrati senza tanti fronzoli (al contrario degli antichi Anche se, personalmente, avrei volentieri ascoltato qualcosa dalla magnifica colonna sonora di ma con meno robe strane e molto più Sartre – invece che la solita, stantia per gli estimatori di lungo corso come il sottoscritto, ma d’altronde 90 minuti con i Mogwai volano letteralmente, data l’estensione media dei brani, quindi lo spazio per le chicche è strutturalmente limitato. , ma anche limitandosi a confrontare la sfera LP con la sfera EP, colonne sonore e singoli vari, troviamo una capacità di destreggiarsi, all’occorrenza, tra elettronica di diverso tipo, strumenti acustici ( , principalmente), fedeltà alla linea strumentale o linee vocali più o meno subacquee, aggiungendo pure collaborazioni con cantanti di ogni genere ( di grande delicatezza. Tutto questo ha pochi eguali, soprattutto se si considera che a queste variazioni sul tema si accompagna sempre l’aver sostanzialmente , dove la formazione classica di una rock band è stata sovvertita, a vantaggio di più alte mete – sempre senza perdere il gusto per qualche pezzo di una ventina di anni fa. Sentimenti semplici o atmosfere stratificate e complesse, non molto risiede al di fuori della portata dei glasvegiani. per sondare il sistema stellare Mogwai, e per giunta oramai la scaletta è istituzionalizzata neanche fossero Bruce Springsteen, ma da un loro concerto non si può uscire veramente delusi, oggettivamente. A meno di non aver rischiato un acufene, ma questa è – forse – un’altra storia.