Eritrei, figli di un Dio minore

Eritrei, figli di un Dio minore

Johannes è un ragazzo di 39 anni. A guardarlo bene, però, ne dimostra poco più della metà. È nato e cresciuto a Roma da mi lascia, sinceramente, un po’ spiazzato. Sua madre e suo padre sono fuggiti dall’Eritrea nei primi è stata, letteralmente, un inferno. Fino a 16 anni ha vissuto in per una ricca famiglia romana e non poteva badare a lui. Retaggio storico, tra le tante cose, di in cui era normale che gli italiani lasciassero il paese con domestiche al seguito. “Il problema principale, mi dice, è che questo paese non riconosce la ”. A lui, se possibile, è andata anche peggio. Di cittadinanze, infatti, ne ha dovute cambiare addirittura tre. Per un periodo, quando l’Eritrea era parte federata dell’Etiopia, è stato cittadino etiope. Poi, quando il suo paese ha raggiunto l’indipendenza, nel 1993, ha preso quella dei suoi genitori. Oggi, invece, è un italiano a tutti gli effetti. Almeno sulla “Ottenere quella cittadinanza italiana, ammette con un po’ fastidio, non è stato facile”. Certificato di nascita, diplomi scolastici e vaccinazioni varie. Un ingarbugliatissimo , da portare a compimento entro il diciannovesimo anno di età. “Altrimenti rischi di perdere per sempre l’opportunità di farlo e sei costretto, se vuoi mettere nel portafoglio quel pezzo di carta, a sposare una donna italiana”. Qualche anno fa ha deciso di prendersi a cuore la causa di chi si oppone alla che mette in carcere gli oppositori, impone la leva obbligatoria a tempo indeterminato e costringe la popolazione ai lavori forzati. A flotte lasciano il paese, da oltre di migranti e profughi sbarcati in Italia. Si può parlare di tutto con gli eritrei, ma non di . Quella fa paura. Gli occhi e le orecchie degli informatori, infatti, sono dappertutto. . Sanno benissimo di averne pieno diritto. Ad oggi, sono circa 9.000 gli in Italia. La maggior parte di loro vive tra Roma e Milano dove ci sono le due . Tra tutte le comunità migranti, sono praticamente le uniche a mettersi in viaggio da sole. Sono “toste” le donne eritree, durante la sono salite sulle montagne come vere partigiane. Solo pochi mesi fa, hanno , che volle eliminare le “belle abissine” dalle canzoni di propaganda e non solo. sparsi nel mondo è passato da qui: dall’Italia. “È come quando litighi con i tuoi genitori e vai a cercare conforto a casa dei tuoi nonni”, spiega un anziano signore in un bellissimo documentario dal titolo evocativo: . Ecco come ci vede, o forse sarebbe meglio dire ci vedeva, chi come i è partito dall’Eritrea nei gli anni ’70, con l’idea, un giorno, di farvi ritorno. Un gruppo di eritrei sgombrati a Roma in una foto pubblicata su Internazionale. mi dice Semir quando lo incontro a Porta Maggiore. Prima di arrivare in Italia, ormai 12 anni fa, faceva il giornalista. Poi, la per il controllo dell’informazione l’ha costretto alla fuga. Ora lavora per la Croce Rossa ed è sposato con una donna italiana di origini eritree. Secondo lui, chi nasce sotto la dovrebbe essere automaticamente italiano. Il riferimento è a suo nonno, ascaro, e a suo padre nato quando in Eritrea gli uffici pubblici erano ancora italiani. “Nel suo anche ai discendenti “in linea diretta di secondo grado”. Teoricamente sì, perché alla prova dei fatti, di tutte le domande inoltrate solo 80 sono state accolte. Le altre sembra siano rimaste chiuse in qualche cassetto di qualche sperduto ufficio romano. , che esiste tra questi due paesi Semir mi racconta del odore di cappuccino e cornetti caldi che si può respirare nei bar di , che sempre secondo Semir, non si può cancellare, ma del quale nessuno sembra aver voglia di parlare. “Del rumore assordante di vecchi bolidi, di cui ammetto di non sapere nemmeno l’esistenza, e che sembrano appena usciti, nuovi di zecca, da uno stabilimento FIAT. Dei nomi dei simile a quella di alcune zone di una città che non l’ha fatto mai sentire davvero a casa sua”. per bianchi, dove ai neri non era permesso passare. La madre di Johannes, a tal proposito gli raccontava delle frustate che riceveva se veniva scoperta ad attraversare le vie o le piazze di come lo chiamano le persone del luogo utilizzando una bizzarra traduzione fonetica. Di quel periodo, sono rimasti anche i nomi propri degli oggetti più comuni, i numeri e, persino, le parolacce. cominciava a farsi più massiccia. C’era un ristoratore che, nel vano tentativo di insegnare ad un cameriere eritreo la disposizione delle forchette e dei coltelli sui tavoli, si rese conto che qualcosa sempre. Così, quel famigerato cucchiaino ora è ciò che più di ogni altra cosa ci unisce a questo paese così ricco di La cultura, la lingua e la storia sono, infatti, profondamente legate. Si può scommettere, senza rischiare troppo, che persino i siano molto simili ai nostri. Narrano le stesse vicende. Alcune pagine andrebbero rilette, forse. Ripulite da quella patina di sporco che proviene direttamente dall’ . “Defascistizzare la figura degli ascari sarebbe già un buon inizio”, dice Johannes. Guerrieri fedeli ed impavidi, senza i quali Libia ed Etiopia non sarebbero mai state conquistate. quando si rivolge agli eritrei, ma non soltanto, andrebbe rivisto. Una volta arrivati in Italia, infatti, agli eritrei vengono consegnati i moduli da compilare per fare a loro stessi. “È proprio questo che, spiega Semir, rafforza in noi la convinzione di essere stati , con la paura costante di essere sgomberati dalla polizia. O se va bene, di essere Non c’è da stupirsi, allora, se tra gli eritrei bianchi che frequentano il bar , il sentimento più diffuso sia il rancore. Lo stesso che Johannes ammette di provare ogni volta che ripensa a cosa è stata la sua vita. . In attesa che un giorno qualcuno si accorga di loro e si offra di chiedere perdono per di sfruttamento e violenza. Loro, gli eritrei, nel frattempo continueranno a sentirsi sempre un po’ . Perché in fondo, è quello che sono. Fratelli e sorelle, figli e nipoti, di un paese dalla memoria corta e dal passato scomodo.