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Bologna: le difficoltà dei credenti musulmani al carcere della Dozza

L’esercizio della religione musulmana appare problematica alla Dozza, il carcere di Bologna dove, come risulta dall’ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale, vi è un’elevata presenza di fedeli dell’Islam. La Casa Circondariale di Bologna accoglie 738 persone di cui 389 straniere. Pur non avendo dati certi sulla religione d’appartenenza dei detenuti, si stima  che una quantità considerevole sia di fede musulmana. «Sono circa 200/250. Il mese sacro di Ramadan raccoglie questo numero di adesioni, ma non so quanti preghino nella pratica quotidiana», riferisce in un’intervista a The Bottom Up Antonio Ianniello, Garante per i Diritti delle Persone private della Libertà personale del Comune di Bologna. 

Carcere e libertà di culto in Italia

La libertà di culto è tra i diritti inviolabili riconosciuti alle persone detenute in Italia. L’art. 26 dell’Ordinamento penitenziario apre alla possibilità di professare il proprio credo religioso, ammettendo così l’esercizio di tutte le fedi in carcere. 

Il riconoscimento istituzionale della libertà religiosa è ancora più essenziale se si considera l’eterogeneità delle persone recluse. Stando alle statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) aggiornate al 28 febbraio 2023, sono più di 17mila le persone straniere detenute nel nostro Paese, il 31,9% dell’intera popolazione carceraria. La maggioranza di questi proviene da: Marocco (20,3%), Romania (11,6%), Albania (10,5%) e Tunisia (10,1%). Questi dati lasciano intuire come le carceri accolgano persone con background culturali differenti, che di conseguenza possono professare religioni diverse da quella cattolica, religione più professata in Italia. L’ultima indagine condotta dal Dap sulle appartenenze religiose evidenziava come, al 31 dicembre 2016, i cattolici costituissero il 54,5% dei detenuti in Italia, seguiti da quanti non avessero dichiarato la propria fede (26,3%), i musulmani (11,4%) e gli ortodossi (4,2%). L’Islam risultava quindi la religione più professata dopo quella cattolica, dato che si ritrova anche al di fuori delle mura carceraie: le persone musulmane in Italia sono oltre 2 milioni, tra italiani e stranieri. Tuttavia, non è possibile stabilire con certezza il numero esatto degli appartenenti alle diverse fedi: il credo religioso è un dato che i detenuti, al momento dell’ingresso in carcere, non sono tenuti a esprimere obbligatoriamente.

L’effettivo esercizio della religione in carcere non è però sempre garantito, ma è condizionato dalla messa a disposizione di un luogo di culto idoneo e dalla presenza di un ministro di culto. Si tratta di elementi che per i detenuti cattolici sono chiaramente garantiti dalla legge: l’art. 26 dell’Ordinamento penitenziario assicura la celebrazione del rito cattolico e la presenza di «almeno» un cappellano in ogni carcere. Gli appartenenti ad altre fedi possono invece fruire degli stessi benefici solo a seguito di una richiesta esplicita alla direzione del singolo istituto. Ma, sebbene riconosciuta come un diritto dalla legge italiana, la presenza di luoghi adatti e di un ministro di culto negli istituti carcerari non è affatto scontata per i non cattolici.

Questo risulta evidente nel Carcere di Bologna, dove l’esercizio della religione musulmana, in particolare, incontra ostacoli significativi.  

L’assenza di luoghi di culto idonei

Il primo problema che riguarda la Casa Circondariale di Bologna è l’assenza di locali specificamente pensati per il culto islamico e per le altre confessioni diverse da quella cattolica. «Non esistono luoghi appositamente dedicati. Vengono ricavati dagli spazi che ci sono nelle sezioni detentive, come la sala socialità», spiega Antonio Ianniello. La motivazione risiederebbe nella limitatezza strutturale del carcere, caratterizzato da un’insufficienza di locali per le attività comuni. 

Il decreto Dpr 230/2000 sembra stabilire regole diverse dalla pratica. Esso prevede che vengano garantiti «idonei locali» a tutte le confessioni. Parlare di idoneità non può che significare predisporre spazi che siano, appunto, adeguati alle esigenze delle singole religioni. Questo vuol dire individuare una collocazione adatta all’interno della struttura (per esempio lontano da fonti di rumore), l’allestimento di determinati simboli e oggetti sacri, la disponibilità di servizi igienici per l’esecuzione di specifici riti. Per questi motivi, l’idoneità non può coincidere con uno spazio allestito al momento della preghiera e poi smontato, come una palestra o una biblioteca. Il credente inoltre deve potersi identificare con un luogo appositamente pensato per la propria religione, in cui sentirsi parte di una comunità che, proprio perché ha il suo spazio, è riconosciuta dal sistema e non negata. «Avere un luogo stabile e dignitoso è anche un riconoscimento», sottolinea Hamdan al-Zeqri, referente per gli istituti penitenziari e assistenza ai detenuti musulmani dell’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII). Ma non solo. Per quanto riguarda l’Islam, avere un luogo di culto stabile può assicurare poi maggiore libertà nell’esercizio della fede, essendo uno spazio in cui i fedeli possono raccogliersi e professare il proprio credo quando ne sentono il bisogno, anche in assenza di un ministro di culto. La mancanza di spazi conformi e rivolti esclusivamente ai fedeli musulmani sembra non riguardare solo Bologna. «Non c’è un carcere in cui mi sia stato detto che ci sia uno spazio bello. Io personalmente nel carcere di Firenze Sollicciano ho uno spazio vergognoso: una palestra fredda, umida e sporca. E sono considerato il più avvantaggiato», denuncia al-Zeqri. 

Un’assistenza spirituale carente

Accanto al luogo di culto, l’assistenza spirituale è l’elemento necessario al pieno esercizio della religione. Anche in questo caso i musulmani reclusi a Bologna devono scontrarsi con una forte criticità: la presenza non stabile di un ministro di culto. La figura islamica assimilabile a questa categoria è l’imam, letteralmente “colui che sta davanti”, la guida morale e spirituale della comunità. «Allo stato attuale non è ancora stato identificato un imam che entri regolarmente, come possiamo pensare alla figura del cappellano cattolico», ci dice Ianniello. Di solito si ovvia al problema scegliendo qualcuno fra i detenuti che guidi la preghiera. Si tratta di una soluzione che si concilia con i precetti islamici, in particolare con il sunnismo, la corrente maggioritaria dell’Islam. L’Islam sunnita non prevede infatti ordini sacri (diversamente dalla religione cattolica) e qualunque musulmano può guidare la preghiera. 

Ma la mancanza di un imam che entri regolarmente in carcere rischia comunque di privare i fedeli di una figura centrale per molti aspetti. Oltre alle funzioni strettamente religiose, egli è centrale nell’alleviare la solitudine del carcere. Con la sua presenza stabile può sostenere le persone nella detenzione, ascoltando i loro problemi, le loro storie e favorendo quel contatto con l’esterno essenziale ad alleviare il loro senso di isolamento. «Persone che magari non hanno mai pregato, non hanno mai cercato la fede, dentro al carcere iniziano a sentire questo bisogno. E quando lo sentono, bisogna accompagnarle», dice al-Zeqri. 

A livello nazionale le cose non sembrano andare meglio. Le ultime statistiche elaborate dal Ministero della Giustizia mostrano come, al 15 gennaio 2020, fossero solo 43 gli imam autorizzati a prestare servizio nelle carceri. Un numero molto limitato per un sistema penitenziario costituito da circa 190 istituti e in cui l’Islam è la seconda religione più professata. 

Il principale motivo di questa carenza sta nel fatto che i rappresentanti dell’Islam non hanno ancora stipulato un’intesa con lo Stato italiano, ovvero un accordo che regola i rapporti tra lo Stato e una confessione religiosa. Come accennato sopra, la legislazione garantisce la presenza di «almeno» un cappellano cattolico in ogni istituto. I ministri degli altri culti possono invece accedere secondo due modalità. Le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato forniscono un elenco dei ministri, che possono così accedere alle carceri senza necessitare di particolari autorizzazioni. L’assenza di un’intesa complica le cose. «Per entrare deve essere firmato un nulla osta da parte del Ministero dell’Interno e le persone entrano come volontarie. Ciò significa che, sia a livello di tempistica sia a livello di operatività, queste persone incontrano limiti che il ministro cattolico non ha», spiega in un’intervista a The Bottom Up Tommaso Sarti, dottorando in Scienze sociali presso il Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova.

L’UCOII, consapevole delle difficoltà dei fedeli musulmani reclusi, ha stipulato nel 2015 un Protocollo d’intesa con il Dap. Rinnovato nel 2020, si è proposto di favorire l’accesso di ministri di culto e migliorare il modo d’interpretare la fede islamica in carcere. Si tratta di un’intesa che ha dovuto (e deve tuttora) fare i conti con le carenze infrastrutturali delle carceri italiane e la scarsità di personale disponibile. Infatti, nonostante fosse prevista la sua applicazione in tutti gli istituti, ad oggi riguarda solo alcune realtà. «Noi siamo a Genova, Firenze, Pisa, La Spezia, Parma, Reggio Emilia, Milano, Verona, Viterbo. Ora stiamo cercando di coprire anche altre carceri, ma non è facile», ci riferisce al-Zeqri. Tra gli istituti al momento coinvolti non figura, significativamente, il Carcere di Bologna.

Gli effetti positivi della religione

Un luogo di culto idoneo e un’assistenza spirituale restano elementi imprescindibili per la salvaguardia della libertà religiosa e perché la religione possa produrre i suoi effetti positivi. Assicurare i diritti religiosi può garantire sicurezza, favorendo una convivenza armoniosa tra i detenuti e facendoli sentire parte di una comunità solidale. In uno studio condotto nel 2011 su una serie di istituti francesi da Rachel Sarge e Anne-Sophie Lamine, le due sociologhe hanno evidenziato come la religione sia uno strumento utile alla risocializzazione. Con i suoi valori di tolleranza e rispetto, la pratica religiosa costituisce per il detenuto una fonte di pacificazione utile nella gestione dei rapporti con gli altri reclusi e con il personale penitenziario. 

La religione è poi in grado di aiutarli a ricreare la propria identità e ciò vale ancor più per la religione musulmana. «La religione può divenire lo strumento con cui trovare spazi di autonomia in una realtà in cui l’autonomia ti è preclusa. Il fatto che l’Islam dia linee di vita molto chiare ti permette di ricostruire la tua realtà, la tua quotidianità, seguendo il tempo della preghiera e un determinato stile di vita», sottolinea Sarti. 

Una serie di vantaggi che, infine, allontana il rischio di radicalizzazione violenta. Come ha sottolineato Patrizio Gonnella, giurista e presidente di Antigone, in un’intervista con l’UCOII, garantire i diritti religiosi può ridurre il risentimento fra i detenuti e quindi il rischio di sviluppare ideologie estreme. L’assenza di uno spazio e di un ministro di culto possono invece favorire quel malcontento capace di sfociare in reazioni violente. «Non ci sarebbe nemmeno la necessità di rivendicare questi diritti, ma se tu me li neghi, io li rivendico. Se tu continui a negarmeli, l’amaro si forma e si coltiva», precisa Sarti.

Leonardo Ragni

Fonte foto di copertina: Settimana News