Madre e figlia decidono di aprire a Ekurhuleni il nuovo rifugio per persone della comunità LGBTQIA+, un santuario per coloro che cercano un posto da chiamare casa.
Questo articolo è pubblicato originariamente in inglese su New Frame il 26 gennaio 2022.
L’autore dell’articolo è Carl Collison.
Fotografo: Ihsaan Haffejee.
Traduzione di Veronica Nalli

Sono all’indirizzo giusto, ma non è per niente come me lo aspettavo. Osservo questa piccola casa qualunque da cui risuonano risate di donne e mi rendo conto che nulla in essa suggerisce che si tratti di un rifugio, specialmente non uno per persone queer in cerca di aiuto.
«Ce l’hai fatta, entra, benvenuto». Vengo accolto dall’abbraccio di Thabisile Msezane, 68 anni, che mi presenta ad altre cinque o sei donne sorridenti e sedute in un salotto dall’arredamento semplice.
Msezane mi spiega che queste donne sono solo alcune dei membri di Lerato la Basadi, l’organizzazione che ha fondato sei anni fa. Il gruppo, composto da donne di chiesa, viaggia per il paese «ovunque ci sia bisogno», per informare e dare supporto ai genitori di bambini queer.

«Dovresti vederci quando ci sono casi di crimini d’odio. I tribunali ci conoscono. Ci conoscono molto bene. Andiamo sempre nei tribunali, dovunque siano, e protestiamo. Poi, prima che la sentenza sia emessa, troviamo un posto in cui pregare, e preghiamo, preghiamo affinché sia fatta giustizia», mi dice.
Quando le incontro, le donne sono riunite in un trilocale a Ekurhuleni, a est di Johannesburg, e pregano per l’apertura di Turning Tides, il nuovo rifugio per persone queer. In una discussione sulla ripercussione che la pandemia da Covid-19 ha avuto sull’assistenza a persone queer bisognose, Roché Kester, direttrice di LGBTI and Others, all’interno dell’ufficio del premier di Gauteng, ha fatto notare una mancanza, in tutto il paese, di case-rifugio per persone della comunità LGBTQIA+. Turning Tides, che può ospitare appena 16 persone, è una delle uniche due strutture di questo tipo in Sudafrica. L’altra è la Town’s Pride Shelter Trust a Città del Capo.
Pregando per il successo
Nel piccolo salotto affollato Msezane dà inizio al momento di preghiera: «Solo Dio può proteggerci dall’alto», dice, «Quindi questa preghiera è diretta proprio a Dio per chiedergli di vegliare su noi tutti, su questo posto, sulle persone che vivono qua affinché le prenda sotto la sua ala e le protegga. Che le protegga perché per troppo tempo hanno sofferto e sono state emarginate. Se questo posto deve essere la loro casa, un luogo sicuro dove possono sentirsi finalmente libere, allora dobbiamo garantire la sua sicurezza. Preghiamo…».
Con le teste chinate e le mani in alto, il gruppo di donne intona le preghiere con fervore, una più alta dell’altra.
Più tardi, Msezane spiega che dopo che Nandi, sua figlia, le ha proposto di usare la casa come rifugio, ci sono voluti due anni per organizzarne l’apertura. Questa casa, che Msezane ha comprato all’inizio degli anni Novanta, è stata molte cose, prima un asilo per bambini, poi un luogo d’accoglienza sicuro per le vittime del traffico di esseri umani.
«Dopodiché ho messo la casa in affitto» mi dice Msezane, «ma gli inquilini l’hanno trattata male. Dopo che gli ultimi se ne sono andati ho trovato delle impronte di scarpe infangate sulle pareti del soffitto, del soffitto. Il lavandino era putrido. Ho speso così tanti soldi per quella casa».

Le condizioni della casa non sono proprio delle migliori. Le aste che sorreggono le tende sono rotte, i rubinetti della cucina non funzionano, l’elettricità va e viene e i fornelli rimangono inutilizzati – per cucinare viene usato un fornello a gas posizionato sul pavimento della cucina.
Ma per gli ospiti si tratta di piccoli inconvenienti – in fondo, il rifugio è aperto da solo due giorni. Prima vivevano a Benoni, a casa di Msezane.
Alla fine del momento di preghiera, Unathi*, una giovane donna trans di 24 anni ospite del rifugio, prende la parola e si rivolge alle altre donne e alle fondatrici del rifugio: «Siyabulela da parte di tutti», dice. «Spero che la convivenza con tutti voi funzioni, così come hanno funzionato le nostre preghiere. Ci saranno momenti in cui non andremo d’accordo, è inevitabile, ma, come avete detto prima, ciò che conta è riuscire a sederci insieme e parlare di ciò che non va: questo ci aiuterà sempre ad andare avanti e ad accogliere nuove persone in futuro. Sibulela kakhulu ngobukho bakho. [Siamo molto grati per la vostra presenza]».
Unathi è diventata una senza tetto nel 2020 a causa «degli abusi e del rifiuto subiti a casa». Contattando amici e persone sui social media è riuscita a racimolare una somma di denaro sufficiente ad uscire di casa e trovare una sistemazione provvisoria. Nonostante ciò, nel 2021 si è trovata di nuovo per strada. «È stato allora che, fortunatamente, l’attivista e regista sudafricana Bev Ditsie mi ha indirizzata verso Turning Tides».
Non è stato facile andare in un rifugio, ammette Unathi, «dato che ero già stata senzatetto e non mi sarei mai immaginata di trovarmi nuovamente in quella situazione. Mi sento di star diventando un caso disperato per le persone che mi stanno attorno. Un peso».
Fa una pausa per accendersi una sigaretta. «Faccio ancora fatica ad accettarlo». Unathi ha vissuto un trauma enorme condensato in un periodo di tempo molto breve e sta ancora cercando di processarlo. Non sapendo come descrivere esattamente le sue sensazioni, dice di avere dei «piccoli crolli mentali… durante i quali non capisco cosa stia succedendo». Nell’ultimo periodo, però, ammette di sentirsi psicologicamente più stabile.
Anche un’altra ospite del rifugio, Qaqamba*, 33 anni, dice che la sua salute mentale è migliorata molto da quando si è trasferita a Turning Tides. «Stavo impazzendo», dice. «Ero preoccupata anche perché ho una figlia che risentiva molto della mia salute mentale. Ora però va meglio, è a suo agio e felice».
«È come far parte di una famiglia. È vero, ognuno ha i suoi problemi, però non è come prima, non ci sentiamo più fuori posto. Ci sentiamo di appartenere finalmente a qualcosa, mi capisci? Ed era quello di cui avevo bisogno».
Azola*, 28 anni, è scappata da una piccola città in KwaZulu-Natal perché dopo aver ricevuto diverse minacce temeva per la sua vita. Nonostante il trasferimento la tenga lontana dai pericoli, Azola dice che andare a vivere al rifugio non è stato facile. «Quando sono arrivata qua, mi sembrava che ci fosse una divisione tra la mia…famiglia di sangue e me stessa». All’inizio non stava bene e si è sentita disorientata, le ci sono voluti cinque giorni per riuscire a adattarsi. «Ciò che è davvero confortante è sapere che possiamo effettivamente chiedere aiuto a Nandi e che lei sarà in grado di occuparsi di noi».

Guarigione
Provvedere ai bisogni di tutte le ospiti non è affatto semplice, ma la direttrice del rifugio, Nandi Msezane, 40 anni, riesce a destreggiarsi in maniera egregia. Tra una chiamata e l’altra, prima per prendere appuntamento con l’elettricista («la settimana prossima toccherà all’idraulico») e poi per discutere con la madre («perché non posso piantare delle verdure nel giardino davanti?»), Nandi trova il tempo di rispondere alle organizzazioni partner che la informano di persone in cerca di aiuto che potrebbero avere bisogno di un posto al rifugio.
«Sembra che accoglieremo presto qualcun altro» dice Nandi. «È lesbica e la sua famiglia l’ha fatta internare oltre a portare via suo figlio».
Dirigere un rifugio di questo tipo non è solo stancante dal punto di vista emotivo e fisico, ma anche molto costoso. «Portiamo avanti questo posto sperando e pregando, per lo più», dice Nandi, aggiungendo che il rifugio è riuscito a ottenere dei fondi da The Other Foundation, l’unica organizzazione che per il momento fa loro donazioni; però vorrebbero riuscire a creare accordi con società che si impegnano a favore della comunità LGBTQIA+.
«Per noi è essenziale ricevere donazioni in modo da sostenere e dirigere il rifugio, ma è anche altrettanto importante trovare delle istituzioni partner in modo da assicurare ai residenti del rifugio che una volta usciti da qua…avranno la possibilità di ricominciare con la loro vita».
Al rifugio si punta molto sul supporto alla salute mentale, in modo che le persone siano in grado di superare e di convivere con il loro passato. «Vogliamo che capiscano che, indipendentemente dal tempo che passeranno al rifugio, è importante che continuino con le sessioni di terapia almeno per un anno, anche se non vivono più con noi», dice Nandi, «Lavorare su sé stessi… richiede un impegno costante».

Per Unathi le sessioni settimanali di terapia sono come parlare con un amico, si sente meno sola con i suoi problemi. «Spesso non si ha tempo per… elaborare tutto, perché la vita va avanti velocemente. Però quando guardi indietro, a quello che è stato, ti rendi conto di aver affrontato così tante cose. E io ancora non sono riuscita a processare una gran parte di ciò che mi è successo. Ho ancora bisogno di mettermi di fronte alla realtà delle cose, al fatto che la strada della mia guarigione è ancora lunga. Ed è proprio quello che succede durante le sessioni di terapia».
Una volta terminate le attività per la giornata, per il gruppo di donne è arrivato il momento di andare. Non appena lasciano il rifugio, del Black Label viene aperto e ci si raccontano storie. La notte, dopo essere andata nella mia stanza, mi addormento con il suono delle loro risate fragorose.
La mattina dopo, le risate riempiono di nuovo la casa. Non sono nemmeno le 6:30 del mattino che le ospiti sono già in piedi intente a pulire e scambiarsi battute.
Più tardi, mentre siamo tutte sedute all’ombra dell’albero in giardino, discutendo di tutto, dalla «problematica» cerimonia dei Feather Awards dell’anno scorso alla «fantastica voce» di Zonke (un cantautore sudafricano), Unathi si rivolge a me e dice: «Sai, l’altro giorno io e Nandi abbiamo parlato di come molte persone hanno una certa idea di come dovrebbe essere un rifugio. E Nandi mi ha detto: “Una volta che hai un’idea di come è effettivamente un rifugio, significa che vivi in un rifugio. Ma quando avrai un’idea di com’è una casa, vuol dire che vivi in una casa”».
*I nomi sono stati cambiati