Gazikent Turchia

La Turchia si prepara alle elezioni. Reportage da Gaziantep, due mesi dopo il terremoto

«Mustafa Kemal Atatürk non avrebbe consentito questa catastrofe», dice amareggiato Fatih, un signore di 47 anni che gestisce una sala da tè a Gaziantep. Dietro al negozio campeggia spettrale una moschea senza più cupola né minareto. Sono gli effetti delle due scosse di terremoto che lo scorso 6 febbraio hanno colpito la Turchia meridionale e la Siria nord-occidentale, provocando la morte di oltre cinquantamila persone. Niente di simile si era mai verificato nella storia contemporanea del Paese anatolico, dove il 14 maggio si terranno delle elezioni presidenziali e legislative determinanti per il proprio futuro. A cent’anni dalla proclamazione della Repubblica e dieci dalle proteste di Gezi Park, questo appuntamento elettorale potrebbe infatti mettere fine all’ormai ventennale egemonia del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, aprendo nuovi scenari per la Turchia. Data la prossimità delle elezioni, il sisma non poteva quindi che diventare uno dei temi più caldi della campagna elettorale, mettendo in difficoltà il Reis (“Capo”) Erdoğan, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) che presiede e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), suo alleato di estrema destra. 

Amministrata dalla sindaca dell’AKP Fatma Şahin, Gaziantep si trova a ridosso del confine turco-siriano ed è una delle città coinvolte dal terremoto. Al contrario di quanto avvenuto in località limitrofe come Nurdağı o İslahiye, la stragrande maggioranza degli edifici situati nel centro non è collassata. Sono state soprattutto le crepe, nonché il crollo parziale di alcune moschee e del castello, a spaventare però molti residenti, che hanno trascorso le giornate successive all’interno delle proprie automobili, nei parchi, a casa di amici e familiari fuori città o, ancora, nelle tende fornite dalla protezione civile turca AFAD. Sui marciapiedi coperti di un sottile strato di neve molte persone si sono riunite intorno a falò improvvisati per proteggersi dal gelo invernale, che in quei giorni ha visto la temperatura scendere sotto lo zero. Oggi la maggior parte dei cittadini di Gaziantep è potuta rientrare nelle proprie abitazioni, se giudicate sicure dopo l’ispezione degli esperti. 

Foto di Nicolò Cenetiempo/The Bottom Up.

Le testimonianze dei giovani 

Ceylin e Buğlem sono sorelle e, insieme al fratello minore e i propri genitori, hanno abitato per quindici anni nella stessa casa, nel quartiere di İbrahimli, che dista un quarto d’ora di macchina dal centro. Ceylin, diciassette anni, frequenta il Liceo Galatasaray di Istanbul. Buğlem, ventidue anni, si è da poco laureata in giurisprudenza all’Università di Gaziantep. Trascorse le vacanze invernali a Gaziantep con la propria famiglia, sabato 4 febbraio Ceylin avrebbe dovuto prendere un aereo diretto a Istanbul per tornare a scuola. Il volo è stato però cancellato per maltempo e Ceylin ha dovuto rimandare la partenza alla settimana successiva: un imprevisto che l’ha portata a rimanere a Gaziantep anche il giorno del terremoto. «Abbiamo sentito il tonfo provocato dalle scale del condominio che stavano crollando. Delle crepe erano comparse sulle pareti. Sembrava un teatro di guerra. Abbiamo dovuto abbandonare la casa per salvarci», ha spiegato Ceylin a The Bottom Up.

Usciti illesi dal condominio, tutti i componenti della famiglia si sono rifugiati all’interno dell’automobile per poi dirigersi verso un posto meno pericoloso. «Non ci siamo ancora riprese dallo shock», racconta la sorella Buğlem, che aggiunge: «Dopo aver visto le condizioni del mio quartiere ho imparato che quasi tutte le cose sono temporanee, compresi i luoghi dove ho trascorso la mia infanzia».

Ceylin, Buğlem e il fratello si sono poi trasferiti nella casa della zia, a Kilis, un’ora di macchina da Gaziantep, per approdare infine a Istanbul, dove hanno alloggiato due settimane in un hotel a spese del Liceo Galatasaray. Il padre e la madre, rispettivamente poliziotto e infermiera, non hanno potuto fare lo stesso: lo stato di emergenza semestrale proclamato all’indomani del terremoto da Erdoğan nelle dieci province maggiormente colpite, infatti, prevede che gli impiegati statali debbano rimanere in servizio. «La nostra casa era stata inserita nella lista degli edifici da demolire con urgenza per i danni subiti durante il terremoto. Mentre noi eravamo a Istanbul, i nostri genitori si sono così messi alla ricerca di una nuova abitazione, ma non è stato facile perché gli affitti erano saliti alle stelle», racconta con amarezza Buğlem, che vive ora con i genitori nel quartiere di Osmangazi, a meno di dieci minuti di macchina dalla casa precedente. Buğlem, neolaureata, sogna di trasferirsi un giorno in uno Stato dell’Europa occidentale o negli Stati Uniti.

Aiuti a Gazikent. Foto di Nicolò Cenetiempo/The Bottom Up.

La separazione della famiglia di Ceylin e Buğlem non è però un caso isolato in quei giorni, come conferma la storia di Mert, ventun anni, che dopo il terremoto ha deciso di partire per İzmir con il fratello minore, ma senza genitori. Mert frequenta il terzo anno di ingegneria industriale all’Università di Gaziantep e nel tempo libero opera come volontario dell’organizzazione non governativa Geged. Il suo appartamento si trova al primo piano di un condominio posizionato nel centro di Gaziantep. «Io e mia madre abbiamo pianto per l’intera durata del terremoto. Credendo di morire, le ho detto di averla amata tanto. Poi ci siamo abbracciati».

Terminata la scossa, l’intera famiglia si è stipata nell’automobile, rimanendovi per due giorni. Dopo aver trascorso una giornata a casa dello zio, Mert e i familiari sono ritornati all’interno della macchina per poi spostarsi nella sede di Geged. Una volta appurata la sicurezza dell’edificio da parte delle autorità competenti, a una settimana dal terremoto, la famiglia di Mert è potuta finalmente rientrare nella propria casa.

La madre, casalinga, e il padre, proprietario di un negozio di baklava (un dolce a base di pasta fillo e frutta secca tipico della Turchia), sono rimasti a Gaziantep per aiutare i propri concittadini distribuendo pasti caldi e coperte nei pressi del castello, il simbolo della città che ora, in rovina, tiene viva la memoria del terremoto. La separazione tra figli e genitori ha avuto però vita breve. Partiti con la prospettiva di rimanere a İzmir qualche mese per allontanarsi anche fisicamente dai luoghi del terremoto, i due fratelli sono invece ritornati a Gaziantep dopo meno di una settimana. Pochi giorni dopo il sisma, Mert aveva confessato: «Non me la sento di andare all’estero e lasciare la mia famiglia in Turchia, dopo quello che è successo». Oggi, tornato a Gaziantep, guarda al futuro e attende il visto per partecipare ad un progetto europeo in Portogallo.

Molti, tuttavia, non hanno avuto la possibilità di trovare rifugio a casa di un familiare o in una città distante dall’epicentro. La protezione civile AFAD ha quindi allestito all’interno di centri giovanili, campi sportivi, parchi e scuole migliaia di tende, che sono poi state smantellate per fare posto alle famiglie sfollate delle città che, più di Gaziantep, hanno sofferto i danni umani e materiali provocati dal terremoto. 

Ibrahim, sedici anni, ha vissuto una settimana insieme ai genitori e alla sorella in una delle tende AFAD allestite nel Centro Giovani Gazikent, che nelle palestre e nei campi sportivi ha accolto per una decina di giorni fino a cinquemila sfollati, tra cui molti bambini. Ibrahim è potuto ritornare a casa, ma quando è stato intervistato per The Bottom Up si trovava ancora all’interno della struttura.

«Mio padre ha scoperto che fumo e mi ha messo in punizione: non posso più usare il mio computer. Un vero peccato se pensi che è proprio grazie ai videogiochi del computer che ho imparato un po’ di inglese. Ora, comunque, continuo a fumare, ma solo dietro l’edificio, dove non posso essere visto», racconta Ibrahim, che un istante dopo si lascia scappare una risata.

Poi, torna subito serio. «Qui siamo cinquanta percento turchi e cinquanta percento siriani», spiega Ibrahim, «Ma le persone, a prescindere dalla nazionalità, sono psicologicamente esauste e per un niente possono cominciare a litigare e persino alzare le mani. Com’è successo qualche giorno fa: alcuni adulti si sono spintonati per ricevere il pasto per primi». L’elevato numero di persone siriane presenti nel campo in cui ha vissuto Ibrahim riflette la composizione degli abitanti di Gaziantep, dove a partire dallo scoppio della guerra in Siria nel 2011 si sono stabiliti circa mezzo milione di profughi, anche se le stime rimangono approssimative.

«Vedi, sono annoiato, perché durante la giornata al campo non c’è niente da fare. Allo stesso tempo, però, provo ancora paura. La notte dormo poco e male perché ho sempre il timore di non riuscire a svegliarmi in tempo se dovesse ripresentarsi il terremoto», rivela Ibrahim, che alla domanda inerente ai suoi piani per il futuro risponde: «Mi piacciono la storia e la geografia. Ma se mi chiedi cosa vorrei fare da grande non ne ho idea. Come tutti i ragazzi turchi, neanch’io guardo al futuro».

Fatih, 47 anni, gestore di una sala da tè a Gaziantep. Foto di Lucas Bozzo/The Bottom Up.

Il sisma nella campagna elettorale

Quando l’ex Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, durante una conferenza stampa nell’aprile del 2021, aveva definito Erdoğan un “dittatore”, era insorta una crisi diplomatica tra Roma e Ankara. In Turchia, oggi, commenti di questo tipo non sono tabù: non è raro, infatti, che soprattutto i più giovani esprimano, anche se con discrezione, il loro disappunto sul carattere autoritario del Presidente turco, che secondo un ragazzo incontrato in una sala da tè di Gaziantep equivarrebbe a Benito Mussolini per gli italiani. 

Seduto a un tavolino del suo negozio, davanti a un çay fumante, Fatih racconta di aver dormito per dieci notti, con la moglie e il figlio, nell’automobile di un suo amico: «Mi sono detto che anche se non avevamo nulla, c’era rimasta pur sempre l’amicizia. Il governo, invece, pensa solo al denaro». Poi, temendo probabilmente di essersi esposto troppo, si affretta a correggersi: «Ma d’altronde tutti i governi sono fatti così». I governi, però, non sono tutti uguali. Se alle elezioni del 14 maggio l’Alleanza del Popolo (in turco Cumhur İttifakı), la coalizione di destra formata da AKP, MHP e due partiti islamisti minori, dovesse uscirne sconfitta, il corso della Turchia potrebbe cambiare rotta, virando da una postura sempre più autocratica a una maggiormente democratica e inclusiva. 

A questa tornata elettorale l’opposizione si presenta compatta sotto l’Alleanza della Nazione (in turco Millet İttifakı), conosciuta anche come “Tavolo dei sei” per il numero di partiti che ne fanno parte: il Partito Popolare Repubblicano (CHP), fondato da Mustafa Kemal nel 1923 e oggi collocato su posizioni di centro-sinistra; il Partito del Bene (İYİ), nato da una scissione con l’ultranazionalista MHP; il Partito della Felicità (SP), di orientamento islamista; il Partito della Democrazia e del Progresso (DEVA) e il Partito del Futuro (GP), entrambi sorti da una scissione con AKP. Nonostante riunisca anime politiche anche molto distanti tra loro, questo cartello elettorale è accomunato dall’obiettivo di sconfiggere Erdoğan, ripristinare la democrazia e sostituire il sistema presidenzialista privo di pesi e contrappesi, introdotto dopo il referendum del 2017, con l’originario modello parlamentare. Il candidato Presidente nominato dall’opposizione è il segretario del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, che verrà indirettamente appoggiato anche dall’Alleanza della Libertà e del Lavoro, formata da sei partiti di sinistra tra cui si distingue il filo-curdo Partito Democratico dei Popoli (HDP), che rappresenta circa il 10 per cento dell’elettorato turco. 

«Questa tragedia ci ricorda che non è stato il terremoto a uccidere le persone, ma la negligenza con cui sono stati costruiti gli edifici», denuncia Buğlem, evocando il tema delle controverse politiche edilizie e abitative, tra i più spinosi per il governo insieme al ritardo della protezione civile nei soccorsi. In visita ad Adıyaman, una delle città più severamente colpite dal terremoto, Erdoğan ha però utilizzato una parola turca dalla connotazione religiosa, helallik, che significa “perdonare e dimenticare”, per giustificare la malagestione dell’emergenza. Ma come sostiene la docente Lea Nocera in un articolo pubblicato sulla rivista online Kaleydoskop, che dirige: «Non si può credere […] che tutto sia colpa della natura, di una catastrofe naturale. Parlare di “forze della natura capricciose e indomabili” […], come ha detto poche ore dopo il terremoto il presidente Erdoğan, è un modo di scrollarsi di dosso gravi responsabilità politiche e sociali». 

Nonostante l’evidente responsabilità del governo nel disastro, un sondaggio pubblicato a marzo sulla base dei dati del mese precedente da James in Turkey, sito che si dedica all’analisi in lingua inglese della politica turca, non ha riportato un calo significativo del consenso di Erdoğan tra gli elettori dell’AKP, registrando una diminuzione della sua popolarità di neanche l’1 per cento. Un’interpretazione di queste stime viene fornita da Mustafa, un insegnante di filosofia incontrato nel Centro Giovani Gazikent: «Negli ultimi vent’anni Erdoğan ha costruito il culto della propria persona e molti turchi musulmani lo vedono ancora come un salvatore, colui che può condurre il suo popolo fuori da questa emergenza». Un mese dopo il terremoto, a Istanbul è mattina e il cielo, nuvoloso, copre la capitale di un’atmosfera malinconica. Sulla sponda asiatica, nel quartiere di Kadıköy, una lieve brezza trasporta gli odori del Bosforo e il verso stridulo dei gabbiani. Quasi nulla a Istanbul ricorda Gaziantep, se non il pistacchio dei baklava venduti dai negozianti. Murat, un pensionato di 61 anni, seduto su una panchina non lontana dalla riva, sorseggia lentamente un bicchierino di çay. Interpellato sul terremoto, che non ha vissuto in prima persona, distoglie lo sguardo dal fumo provocato dal calore del tè e spiega: «Attribuire al destino il collasso degli edifici ci impedirà di identificarne le vere cause e di migliorare il modo con cui li costruiremo in futuro. Prendi gli Stati occidentali o Paesi sviluppati come il Giappone e la Corea: lì vigono regolamentazioni più rigide e standard più alti, che vengono verificati una volta ultimato il lavoro edilizio», e prosegue quasi sarcastico: «Vedi, due giorni fa la sala operatoria di un ospedale ha preso fuoco per un surriscaldamento di cavi elettrici. Di sicuro i responsabili verranno individuati. Quando ci viene diagnosticato un cancro, invece, tendiamo a dare la colpa al destino, anche se un cancro può avere molte ragioni. Bene, ci comportiamo allo stesso modo con il terremoto».

Nicolò Cenetiempo

Fonte foto di copertina: Nicolò Cenetiempo/The Bottom Up