«Il diabete è la prima cosa a cui penso appena apro gli occhi e l’ultima prima di andare a dormire. Nel senso che l’insulina è la prima cosa che faccio la mattina e la sera, prima di andare a letto, devo fare un’altra iniezione». È in questi termini che Maria Adele Piccardo, dottoressa in psicologia e dottoranda di ricerca in psicologia sociale – con focus sulla telemedicina e la gestione collaborativa della cura nella cronicità – descrive la convivenza con il diabete di tipo 1.
«Il diabete mi è stato diagnosticato il 18 aprile 2022, quindi appena pochi mesi fa. Per alcuni, la scoperta della malattia avviene con una semplice analisi del sangue. Nel mio caso, è arrivata alla fine di una sofferenza fisica che non riuscivo più a tollerare». Piccardo racconta di aver scoperto della sua malattia solo successivamente al ricovero ospedaliero, ormai in stato semi-comatoso: «Uno dei momenti emotivamente più forti è stato quando la dottoressa al cambio turno è venuta da me, si è seduta sul letto e mi ha detto: “è diabete di tipo 1, non si guarisce, non è colpa tua”. Anche se non avevo ancora ben realizzato cosa avrebbe comportato, questa frase mi ha lasciata senza fiato. Ho realizzato non solo che sarei stata per sempre malata ma che avrei avuto bisogno di un farmaco per sopravvivere».

Diabete di tipo 1 e l’impatto di una diagnosi
Il diabete mellito di tipo 1 è una malattia autoimmune che comporta la distruzione delle cellule pancreatiche deputate alla produzione di insulina (definite cellule beta), riconosciute dal corpo come “agenti estranei” e quindi soggette all’attacco del sistema immunitario. È anche conosciuto, sebbene il termine sia considerato desueto, come diabete giovanile, in quanto la sua insorgenza si verifica solitamente durante l’infanzia, la preadolescenza o l’adolescenza. Si differenzia dal diabete di tipo 2 in quanto quest’ultimo sopraggiunge principalmente in età avanzata e non richiede la somministrazione ipodermica di insulina, ormone che regola i livelli di zuccheri nel sangue e ne permette l’utilizzo come fonte di energia.
L’effetto principale della malattia è rappresentato dall’iperglicemia, quindi dall’eccesso di glucosio nel tessuto ematico. Tuttavia, secondo il Ministero Della Salute, “la complicanza più temibile è l’ipoglicemia, cioè il repentino calo di zuccheri nel sangue”. Senza un rapido intervento (che prevede di solito il consumo di bevande zuccherate o di una bustina di zucchero) i sintomi possono peggiorare “fino alla perdita di coscienza e al coma”. Secondo i dati, “il diabete di tipo 1 rappresenta circa il 10% dei casi di diabete” e la sua incidenza è in progressivo aumento in ogni parte del mondo. Un dato allarmante, se si considera la natura cronica della malattia e il fatto che le cause della sua insorgenza non sono ancora state chiaramente individuate.
Il diabete di tipo 1 si manifesta generalmente in età infantile. Tuttavia, come per Piccardo, vi sono casi in cui la malattia può sopraggiungere in età adulta. Per un bambino a cui viene diagnosticato il diabete di tipo 1, costretto a crescere e a sviluppare la propria identità convivendo con la malattia, il percorso di accettazione è più lungo e graduale e passa attraverso il supporto di caregivers qualificati sin dall’infanzia. Per un adulto che si ritrova ad affrontare la malattia, il percorso è comprensibilmente più articolato. Come spiega Piccardo «un conto è affrontare l’impatto iniziale della malattia, un altro è riuscire a digerire tutto ciò che la sua scoperta comporta e le conseguenze che ha. In questo, il mio percorso è ancora in divenire». Per quanto riguarda il lungo processo di accettazione e successiva convivenza con la malattia, Piccardo mette in luce l’importanza di un adeguato percorso psicoterapeutico che permetta di sviluppare un approccio più consapevole alla malattia e di non incorrere in un potenziale aggravamento della stessa. Difatti, uno studio del 2016 pubblicato dalla International Society of Psychoneuroendocrinology conferma un’alta prevalenza di sintomi di depressione e ansia nei giovani affetti da diabete di tipo 1, condizioni psicologiche che sono in grado di compromettere la gestione da parte del paziente del diabete e il controllo glicemico: «Credo che il percorso terapeutico sia essenziale. Per me lo è stato. Ti aiuta a fare il punto su chi sei e dove ti trovi rispetto alla malattia. E poi è utile per mettere dei punti fermi, per convivere e vivere insieme al diabete al meglio, senza combattere l’uno contro l’altro».
Tuttavia, la natura spesso imprevedibile della malattia, con repentini picchi glicemici seguiti da situazioni di ipoglicemia, rende la convivenza spesso scomoda e complessa: «È tutto molto imprevedibile, non si ha mai una giornata uguale all’altra a livello di glicemie. Quello che ripeto spesso è che si può raggiungere un equilibrio psicologico, ma non un equilibrio glicemico. Rispetto al periodo “pre-diabete” la vita diventa molto influenzata dai numeri. O per lo meno, diventano parte integrante della vita, che siano quelli della glicemia o quelli delle unità di insulina. Poi col tempo la convivenza diventa sempre più facile e naturale, anche se ciò non significa che sia meno pesante. Ci sono due parole secondo me molto importanti, oltre ovviamente alla consapevolezza: la persona diventa sempre più abile a prevenire e prevedere, cioè a intervenire su picco o crollo glicemico e a prevederne l’arrivo».
Il tema della sensibilizzazione
La comunità scientifica internazionale non è ancora riuscita a rintracciare i fattori di rischio e le cause dell’insorgenza del diabete di tipo 1 e ciò rende le attività di prevenzione e riconoscimento precoce particolarmente complesse. Piccardo vuole però sottolineare la fondamentale importanza delle attività di sensibilizzazione, mirate a diffondere conoscenza e informazioni spesso difficilmente accessibili da chi non si trova coinvolto in prima persona con la malattia: «Credo che a livello di sensibilizzazione si stia facendo molto, ad esempio da parte della Fondazione Italiana Diabete. Se si riesce ad entrare nella “bolla” di contenuti sul diabete si trovano davvero tantissime informazioni utili. Tuttavia, ciò che si conosce all’esterno di questa bolla è davvero poco. In questo sono importanti i ganci con le esperienze dirette, quindi rendere più accessibili le informazioni e i vissuti delle persone. I social media sono un buon luogo dove iniziare a rompere questa bolla, perché sono alla portata di tutti. Certo, poi l’utente che ne usufruisce deve essere aperto a conoscere, ma è un ottimo punto di partenza».
La stessa Piccardo, successivamente alla diagnosi, ha iniziato a parlare delle piccole e grandi sfide quotidiane che ora si ritrova ad affrontare, contribuendo in parte alla costruzione di un immaginario sociale più responsabile e consapevole: «Credo che fare sensibilizzazione sul tema sia importantissimo, ho iniziato a parlarne sul mio profilo Instagram (meglioadele) proprio per questo motivo. Arrivando a una diagnosi precoce, mi sarei potuta risparmiare tutta una serie di sintomi e complicanze spiacevoli. Mi sarebbe bastato andare in farmacia e chiedere di fare un controllo glicemico. Non lo sapevo, non sapevo come si diagnosticasse il diabete. Per quello che mi riguarda, la sensibilizzazione passa anche attraverso il racconto della mia esperienza quotidiana, non edulcorata. Cerco di renderla chiara anche a chi non vive la malattia, perché ho notato che ci sono moltissime persone che si riconoscono nelle mie riflessioni nonostante non siano malate. Quindi, forse, il punto centrale non è tanto il diabete, quanto i vissuti. Molte persone che conosco condividono la loro esperienza con il diabete in modo diverso da come faccio io e secondo me questo arricchisce molto il dialogo e la sensibilizzazione, perché non tutti veniamo toccati dalle stesse cose. Nel mio caso, posso dire di essere stata “fortunata” in quanto ho sempre utilizzato i social per parlare di psicologia, il diabete è arrivato solo successivamente. In questo modo, sono riuscita a coinvolgere un pubblico che almeno inizialmente non era interessato all’argomento».
«Una delle cose più importanti che mi preme ricordare a tutte le persone che soffrono di questa malattia» conclude Piccardo «è che siamo più dei nostri alti e bassi, per cui possiamo fare a meno di definirci in base ai numeri che troviamo sul sensore e sul glucometro. Siamo più delle nostre glicemie e riconoscerlo è fondamentale».
Alex Villani