Un progetto archeologico tenta di riportare alla luce la dolorosa storia legata alle torture perpetrate durante il regime militare del Paese.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su Apublica.
L’autore è Rubens Valente.
Traduzione di Alexandra Dunčková.
Nel 1964, le forze armate brasiliane attuarono un colpo di Stato con il sostegno del governo degli Stati Uniti, e insediarono una dittatura che durò per oltre 20 anni. Sebbene negli anni Ottanta siano state ripristinate le libere elezioni e nel 1988 sia stata approvata una nuova Costituzione, il Brasile è rimasto indietro rispetto agli altri Paesi sudamericani nel fare i conti con le conseguenze della dittatura.
La denuncia dei crimini commessi dalle élite militari è considerata in Brasile una battaglia “di sinistra”. L’ex presidente Jair Bolsonaro, di destra, ha addirittura celebrato le torture commesse dal regime in diverse occasioni, persino durante la sessione del Congresso che ha votato l’impeachment dell’ex presidente Dilma Rousseff.
Paesi come l’Argentina o il Cile, invece, hanno fatto grandi passi avanti nel fare i conti con il proprio sanguinoso passato e nel processare i membri delle juntas militari.
SAN PAOLO – Per la prima volta in Brasile un progetto archeologico, storico e forense ha intenzione di condurre scavi nei terreni e negli edifici dell’ex sede del DOI-CODI (Dipartimento delle operazioni di informazione – Centro per le operazioni di difesa interna), la tanto temuta agenzia di intelligence che durante la dittatura militare brasiliana (1964-1985) ha attuato una violenta repressione politica.
Almeno 6700 prigionieri sono finiti nelle sue segrete solo tra il 1969 e il 1975. Tra essi, innumerevoli sono stati torturati e si contano tra le 52 e 70 persone, secondo i dati raccolti dalla storica Deborah Neves.
Recuperare la memoria storica
Per mezzo di scavi controllati, raschiature, analisi ecografiche e a raggi X, tra gli altri metodi, il progetto punta a studiare da vicino gli spazi utilizzati per la repressione e, idealmente, a scovare le tracce del passaggio degli ex prigionieri, molti dei quali rimangono tuttora dispersi.
Il fulcro dell’indagine è un complesso di cinque edifici costruiti su un terreno di 1500 metri quadri a San Paolo, che per 14 anni è stato la sede del DOI-CODI di San Paolo.
Il complesso ha due ingressi, uno in via Tutoia 921, segnato dalla presenza di torri da guardia ben visibili dalla strada, le quali confermano lo scopo militare dell’edificio, e l’altro in via Tomás Carvalhal 1030, nel quartiere Paraíso, nella parte meridionale della città di San Paolo.
Negli anni Settanta, ispirandosi all’esperienza di San Paolo, altre nove città capitali del Brasile svilupparono proprie sedi del DOI-CODI, tutte contraddistinte da segnalazioni di estrema violenza e crimini.
«Il nostro intento è quello di utilizzare risorse forensi per fornire una risposta sociale. Lo scopo finale è di aiutare a trasformare il posto in un memoriale, in modo che le persone sappiano e riflettano su ciò che è avvenuto in quel luogo», ha dichiarato la professoressa di archeologia Cláudia Regina Plens, coordinatrice del progetto di ricerca e del Laboratorio di Studi Archeologici del Dipartimento di Storia dell’Università Federale di San Paolo.
«Ci sono ancora persone oggi che dubitano che la dittatura sia avvenuta davvero. Perciò dobbiamo portare tutto questo alla gente. Molti paesi stanno recuperando e facendo i conti con questo passato e il Brasile è rimasto indietro».
Usare la tecnologia per scovare tracce del passato
La prima fase del progetto ha avuto inizio ad agosto, con l’utilizzo di apparecchiature radar per poter individuare eventuali modifiche apportate nel corso degli anni alle pareti e al pavimento. I ricercatori non hanno nessuna informazione riguardo a possibili sepolture all’interno del complesso, ma il geo-radar sarà capace di trovare anche eventuali elementi in questo senso. La seconda fase, prevista per ottobre 2022, sarà di scansione 3D.
Il team di ricerca si propone anche di scovare macchie di sangue invisibili ad occhio nudo e iscrizioni realizzate dai prigionieri sulle vecchie pareti delle celle, a condizione di avere accesso a nuove risorse e ottenere l’autorizzazione da parte degli enti pubblici.
«Raschieremo le pareti, effettueremo scavi nel pavimento in modo controllato e ricercheremo prove con luminol, luci forensi, specifiche applicazioni per cellulari e droni. In sostanza, impiegheremo tutto ciò che abbiamo a disposizione per tentare di trovare queste tracce. In seguito, faremo una scansione 3D dell’intero posto», ha affermato Plens.
Trattandosi di un tipo di ricerca insolito, in quanto riguarda eventi accaduti più di 40 anni fa, gli esperti non sanno se le macchie di sangue consentano un’analisi del DNA, cioè se il DNA possa aver resistito all’azione del tempo. Se fosse possibile recuperarne delle tracce, il risultato dell’analisi potrebbe essere confrontato con i campioni di DNA di persone morte o scomparse forniti dai loro parenti.
I cinque edifici che compongono l’ex DOI-CODI (una “stazione di polizia”, che comprendeva sei celle più una “cella di forza”, un deposito, una casa a volte utilizzata dal comandante, un alloggio e un’officina meccanica) sono stati dipinti, ristrutturati e modificati nel corso degli anni. Le sbarre delle vecchie celle, ad esempio, sono state rimosse. Uno degli obiettivi della ricerca sarà quello di ricostruire l’antico assetto delle stanze.
Nel caso particolare di Vladimir Herzog, un giornalista torturato e ucciso all’interno dell’edificio nel 1975, la ricerca cercherà di identificare il punto esatto in cui il suo corpo fu appeso dai militari per simulare un suicidio, come mostrato nelle fotografie appositamente realizzate all’epoca dall’esercito.
Uno strumento di repressione organizzato
La dittatura brasiliana stabilì il DOI-CODI nel settembre 1970, a soli 800 metri di distanza dal Comando militare del sud-est, la principale autorità militare della regione. Per quattro anni, a capo di questa macchina di arresti, torture ed esecuzioni ci fu il colonnello militare Carlos Alberto Brilhante Ustra (1932-2015), trattato come eroe e modello dall’ex presidente Jair Bolsonaro e dal suo vicepresidente, il generale di riserva Hamilton Mourão.
Deborah Neves, dottoranda in storia all’Università di Campinas, coordina un gruppo di ricerca sul DOI-CODI, che riunisce diverse istituzioni.
«Il DOI-CODI era l’organo centrale che riuniva i diversi bracci della repressione, polizia federale, civile e militare. Era un enorme laboratorio per l’intero sistema di indagini, interrogatori e uccisioni. Rappresentava una sintesi di ciò che era l’apparato repressivo dello Stato. Era il grande Leviatano della repressione», ha affermato Neves.
La ricercatrice rigetta la versione secondo cui le torture, gli omicidi e le sparizioni al tempo della dittatura sarebbero stati opera di gruppi clandestini o gruppi di soldati presuntamente fuori dal controllo della gerarchia militare brasiliana.
«Quando analizziamo la natura degli organi di repressione, ci rendiamo conto che non c’era nulla di clandestino. Erano sempre in edifici collocati in posizioni centrali, in quartieri residenziali, la gente sapeva cosa succedeva lì». Secondo questa linea di argomentazione si trattava sempre del ‘comportamento isolato di un agente o di un gruppo di agenti che viene respinto dalla corporazione nel suo complesso o dagli ufficiali, «il che è falso», ha spiegato Neves. «L’esercito ha creato il DOI-CODI appositamente per questo scopo. Ha organizzato la formazione, radunando persone da tutte le forze di polizia. È impossibile che non sapessero cosa stesse accadendo lì, una tale opzione non esiste».
Emblemi della dittatura
Lo spunto per la creazione del DOI-CODI, secondo Neves, «è venuto dall’esperienza francese della guerra d’Algeria, da cui provengono i metodi di interrogazione e tortura, e dall’esperienza statunitense della dottrina della sicurezza nazionale, che portava a trattare i brasiliani come nemici del loro stesso Paese».
Un altro dei partecipanti al progetto di ricerca, l’archeologo argentino Andrés Zarankin, professore presso il Dipartimento di Antropologia e Archeologia della UFMG, ha condotto ricerche in Argentina e nello specifico nell’edificio dell’ex DOPS (Dipartimento dell’ordine politico e sociale di Belo Horizonte, Minas Gerais). Si tratta di un organo della Polizia civile che svolgeva il ruolo di polizia politica, anch’essa monitorando, imprigionando e torturando gli oppositori della dittatura.
Insieme al professor Pedro Paulo Funari, Zarankin ha elaborato il concetto di un’ “Archeologia della repressione e della resistenza”, che si propone di «analizzare, attraverso l’archeologia, la macchina di sterminio sviluppata dai governi autoritari in Sud America nella seconda metà del XX secolo».
Zarankin ha chiarito che non è possibile prevedere con esattezza cosa scoprirà lo studio archeologico durante le ricerche presso l’ex-edificio del DOI-CODI a San Paolo, perché «fare archeologia è, in un certo senso, come pescare».
«Oggi assistiamo a una distorsione, a un tentativo di alterare la storia, di creare una storia falsa di come ‘la dittatura sia stata una cosa positiva per il mondo e per il Paese’. Sono discorsi del passato che cercano di legittimare la dittatura, sostenendo anche che ‘la democrazia è nata dalla dittatura’. Ecco perché le discipline che si occupano del passato sono fondamentali: [per spiegare] che le dittature, e non solo quella brasiliana, sono profondamente legate alla morte, alla tortura e alla soppressione del dissenso politico».
Fonte foto di copertina: Apublica.