A Bologna l’arteterapia è al servizio delle persone e del territorio

«Si può pensare all’arteterapia come a un vocabolario visivo: se si va dallo psicologo o dallo psicoterapeuta si possono utilizzare la voce e le parole, mentre in arteterapia si usa un differente linguaggio per comprendere il proprio modo di esprimersi, comunicare e relazionarsi con l’altro». È in questi termini che Giulia Berra, scrittrice e arteterapeuta con sede a Bologna, racconta a The Bottom Up il suo approccio a una disciplina che fa dell’arte un potente strumento di supporto e cura a disposizione della persona. 

L’arteterapia unisce conoscenze psicologiche a conoscenze pratiche e artistiche e può essere intesa come un intervento di sostegno alla persona che utilizza materiali artistici di ogni tipo a fini espressivi e relazionali. «È una disciplina che lavora e si interessa sul processo creativo», spiega Berra. «Se pensiamo all’essere umano come un’opera d’arte, con tutte le sue caratteristiche, osservare il processo creativo di una persona ci pone davanti a una relazione tra la persona, la sua opera e il terapeuta. Quindi, utilizzando il medium artistico, si vanno a comprendere le modalità relazionali che la persona mette in atto. In questo, l’arteterapeuta è uno specchio che amplifica le modalità di relazione della persona con la sua opera. Accompagna quindi l’autore a comprendere quello che è successo, non analizza le immagini ma chiede alla persona di relazionarsi, attraverso la sua opera, con sé stessa. L’arteterapia ha a che fare con il processo creativo, non con l’analisi dell’opera che ne risulta». 

L’arteterapia al servizio del territorio

Berra racconta di interessarsi da diverso tempo ai processi di comunità e a come l’arteterapia possa essere messa al servizio della salute collettiva. In questo, lo spazio che ha scelto per esercitare la professione riflette in pieno la sua concezione dell’arteterapia come strumento democratico e inclusivo. Difatti, dopo una laurea in psicologia clinica e numerose esperienze pregresse, nella primavera del 2022 ha scelto di aprire il suo studio in via Jacopo Barozzi, zona limitrofa alla stazione centrale di Bologna, considerata difficile a causa delle attività di spaccio, dell’alto numero di persone che vivono sulla strada e del generalizzato degrado più volte denunciato dai residenti. «Mi sono molto interrogata su dove avviare lo studio. Sentivo la responsabilità di creare un luogo che fosse il più possibile accessibile alle persone. Proprio perché secondo me la salute non è un fatto individuale ma collettivo, ho scelto un posto considerato “brutto” perché è responsabilità di ognuno di noi contribuire allo spazio urbano con gli strumenti che si hanno a disposizione. Ho pensato che fosse una scelta giusta per me, per le persone di cui mi prendo cura e per la comunità stessa dare un messaggio del genere, perché aprire un’attività che si occupa di salute mentale in un posto considerato non adeguato, non bello, è un messaggio sociale di una certa forza». 

Fin da subito, lo studio di Berra ha riscosso l’interesse dei frequentatori del quartiere, anche per il tentativo di mettere in contatto tutti i vissuti che compongono il suo eterogeneo tessuto sociale: «Le reazioni sono state tra le più disparate» continua Berra: «ma molte persone sono state estremamente felici che io aprissi un luogo particolarmente bello. In effetti ho tenuto molto al fatto che fosse bello. Credo che la bellezza sia contagiosa, nel senso che se si sviluppa un approccio etico all’abitare la propria città, questo genera un domino di attenzione e di cura». 

Ogni mattina da quando ha aperto la sua attività, Berra prepara una moka e la lascia a disposizione di chiunque voglia passare davanti al suo studio per versarsi una tazza di caffè. Davanti alla sua entrata ci sono anche libri, materiali artistici e una scatola dove le persone sono invitate a lasciare un messaggio, un proprio disegno o semplicemente un segno del loro passaggio. «In qualche modo» racconta Berra «questo ha generato anche una maggiore cura degli spazi: ho messo un bidone dei rifiuti all’esterno e ho chiesto di tenere pulita la zona. Adesso c’è molta meno sporcizia. A volte succede, però tutti ci diamo un’occhiata. Durante le festività ho messo all’esterno un albero di natale, invitando chiunque a lasciare un segno e appenderlo. Settimana dopo settimana ho trovato qualcosa di carino, di bello. Lentamente, le persone hanno cominciato a prestare più attenzione al quartiere: adesso, è meno scontato che debba essere per forza un brutto luogo». 

Tuttavia, nonostante queste «piccole cose preziose», Berra non nasconde le importanti difficoltà che ha dovuto affrontare dopo l’avvio del suo studio: «Qui c’è un’alta percentuale di tossicodipendenti, alcuni di loro li ho trovati più volte feriti per strada. Vengo da una famiglia di infermieri che mi ha insegnato a medicare fin da piccola e quindi ho aiutato come potevo medicando ferite da taglio. All’inizio non volevano che mi prendessi cura delle loro ferite, poi hanno iniziato a chiedermi se potevo cambiargli le medicazioni. Dal non voler nemmeno prendersi cura di un taglio è cominciata a diventare un’abitudine avere la pelle e le ferite pulite. Poi durante l’estate ci sono stati numerosi arresti e questo mi ha molto ferita, perché si trattava di persone con cui avevo instaurato una relazione e che sono sparite dal giorno alla notte. Con una di queste, al momento in carcere, è nata una corrispondenza e ci scriviamo delle lettere che faccio firmare un po’ da tutti, aggiornandola su come le cose stanno andando qui». 

Nonostante le difficoltà e un iniziale percorso in salita, Berra non rimpiange nessuna delle scelte che l’hanno condotta ad aprire il suo studio in via Barozzi: «Penso che non esistano brutti quartieri, solo quartieri abitati da persone che hanno una corresponsabilità nel renderli migliori di quello che sono. Quindi io ho fatto questa scelta, anche perdendo alcuni dei miei clienti, ma ritengo ancora che la cura sia un processo collettivo e che il benessere di ciascuno di noi non possa che essere interdipendente dalla comunità». 

Un Ciclo-Atelier di arteterapia per la comunità

L’approccio partecipativo di Berra all’arteterapia si declina anche attraverso il progetto Atelier Sospeso: un vero e proprio “studio su ruote” (di bicicletta) nato in collaborazione con la collega Valentina Crasto e finanziato attraverso un progetto di crowdfunding che ha raccolto oltre 6000 euro. L’obiettivo di Atelier Sospeso è quello di portare l’arteterapia in luoghi accessibili e inclusivi, in modo da favorire la partecipazione collettiva di tutti i cittadini. «Insieme ad altre sei persone» racconta Berra «abbiamo creato questo “ciclo cargo” con cui lavoriamo in strada, in piazza e nei parchi, dando la possibilità a chiunque voglia partecipare di fare un’esperienza di arteterapia di comunità». Essendo all’aperto, l’atelier non ha alcuna barriera architettonica e può essere frequentato da chiunque, nel rispetto delle singolarità e dei bisogni individuali. «Tutti gli incontri sono a offerta libera, ognuno ci dona quello che desidera e ciò serve per poter uscire più spesso con il cargo e portare materiali interessanti. Nessuno di noi guadagna da questa attività al momento, anche perché non è nata con questa idea, bensì dal voler mettere a disposizione lo spazio pubblico. Se le istituzioni riconosceranno il progetto e decideranno di aiutarci sarà un bene, ma per noi l’importante è restare indipendenti rispetto alla nostra idea e portarla avanti».

Oggi, i progetti di Berra e colleghi sono un importante punto di riferimento per la comunità bolognese, dimostrando la forza dell’arteterapia non solo per quanto riguarda la generazione di processi partecipativi, ma anche come strumento al servizio di progetti di inclusività sociale: «Dato che l’arteterapia si occupa di linguaggi non verbali, pensiamo a quanti potrebbero trarne giovamento. Persone che non parlano la lingua italiana, oppure individui che hanno una diversa storia di vita. Credo che l’arteterapia abbia una responsabilità enorme rispetto al processo di partecipazione di una comunità. Se si dà a disposizione uno spazio bianco, come quello di un foglio, le persone creano. Lo stesso vale per uno spazio urbano. Se si dà un luogo in cui è possibile esprimersi, le persone lo fanno. Credo che una comunità sana sia una comunità che si esprime, sceglie, si identifica e può raccontarsi. La comunità è un contenitore di storie e di narrazioni e assolutamente l’arteterapia fa parte di questo». 

Alex Villani

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