Ricorderete la storia di Mahmut, il ragazzo turco obiettore di coscienza, emigrato a Kyiv da un anno, lo scorso febbraio, al momento dell’invasione russa in Ucraina, e poi fuggito con altre persone straniere alla volta dell’Europa.
L’avevamo lasciato in Germania, ad Amburgo, agli inizi di marzo 2022, dove era inizialmente riuscito a ottenere un anno di protezione temporanea, quindi il permesso a restare. Essendo solo residente e non cittadino di nazionalità ucraina, non era stato semplice, pur avendo un permesso di soggiorno in corso di validità. E infatti, le cose ben presto si sono complicate, come ha avuto modo di raccontarci lui stesso.
Le difficoltà in Germania
Ad Amburgo gli forniscono una sistemazione in un albergo e perfino una sorta di pocket money per potersi sostentare in attesa di un lavoro, perché Mahmut viene automaticamente registrato anche in un centro per l’impiego. «Mi hanno trattato come fossi un qualunque tedesco disoccupato, avevo perfino un’assicurazione», racconta a The Bottom up, «ma avrei potuto avere accesso effettivo al mondo del lavoro solo dopo aver seguito un corso di tedesco. Tutto sembrava procedere per il meglio finché non ho ricevuto un avviso di deportazione dall’ufficio immigrazione».
Già prima della ricezione della lettera, Mahmut racconta di essere stato diverse volte all’ufficio immigrazione, di cui una per far apporre un bollino che attestasse il suo visto temporaneo sul passaporto, oltre al Fiktionbescheinigung, letteralmente un “certificato fittizio” che registra l’avvenuta richiesta di permesso di soggiorno. Proprio in quel frangente, un poliziotto gli preannunciò cosa sarebbe accaduto da lì a 3 settimane : «mi disse che sarei stato deportato, perché non sono di nazionalità ucraina e non ho legami familiari in Ucraina. Tentai di spiegargli che mi era già stato accordato il permesso di restare in Germania per un anno, ma lui incalzò dicendo che dovevo uscire dalla Germania in massimo 3 mesi altrimenti sarei stato cacciato dall’intera area Schengen. Lì per lì pensai di aver beccato un tizio con la luna storta, o un razzista, come spesso purtroppo accade in questi contesti. Ma poi la lettera è arrivata davvero».
Come si legge sulla piattaforma Infomigrants, le regolamentazioni in fatto di accoglienza dei richiedenti asilo dall’Ucraina sono cambiate dallo scorso 31 agosto 2022. Secondo il ministero dell’Interno tedesco, sarebbero circa 29mila i third country nationals, le persone provenienti da paesi terzi che, scappati dall’Ucraina, si sono rifugiati in Germania. La direttiva di protezione temporanea entrata in vigore a livello europeo subito dopo il 27 febbraio 2022 aveva sospeso le procedure standard di asilo così che più persone possibile potessero lasciare il paese sotto attacco. Si tratta di una procedura pensata durante la guerra nei Balcani, ma mai applicata prima di questo momento, neppure per la crisi afghana dell’agosto 2021.
A seguito dell’ultimo incontro all’ufficio immigrazione, Mahmut inizia a pensare di trasferirsi in Olanda, dove le politiche sembravano essere più accomodanti nei confronti dei third country nationals. Prima, però, prova a cercare un avvocato che conoscesse bene il cosiddetto “paragrafo 24”, una sezione della legge tedesca sulla residenza.
L’avviso di deportazione
Il primo ricorso porta a un nulla di fatto: nessuno obbliga Mahmut a tornare in Turchia, ma non può neppure restare in Germania. Il secondo ricorso gli permette di ottenere un’estensione del tempo che precede la deportazione, ma nulla di più. Mahmut ha così diritto a restare in Germania fino al 15 settembre 2022, ma non c’è modo per lui di avere un nuovo permesso di lavoro, che gli è stato cancellato con l’invio della stessa lettera.
«L’avvocato insisteva per avviare un terzo ricorso, ma a che vantaggio? Avrei solo esteso la mia permanenza in Germania di altri tre mesi, e poi forse altri tre, senza poter lavorare. Continuavo a chiedermi cosa avessi sbagliato, quale clausola burocratica avessi perso, ma non avevo la pazienza di capire né di aspettare. Soprattutto: in nessuna delle occasioni che mi hanno portato in questi uffici ho avuto modo di raccontare la mia storia, nessuno mi ha mai dato modo di spiegare. Ogni singolo ricorso era accompagnato da documenti che attestavano la mia impossibilità a tornare in Turchia a causa dell’obbligo del servizio militare inadempiuto, così come quanto avessi perso tutto negli attacchi russi di febbraio scorso. Ero esausto: ho sempre pensato di aver toccato il fondo mentre ero in Turchia, ma questa situazione in Germania mi ha davvero gettato in una depressione profonda. Ho vissuto nell’ansia ogni volta che incrociavo un poliziotto, neanche fossi entrato illegalmente in Europa a bordo di un furgone. In realtà, anche se fosse stato il caso, che diritto avevano di trattarmi in quel modo? Ho frequentato il corso di lingua tedesca per 4 giorni a settimana fino a 48 ore prima della ricezione dell’avviso di deportazione…ho riposto ogni mia energia, ogni mia speranza».
Mahmut ci prospetta una situazione che, comprensibilmente, ha visto gli stranieri fuggiti dall’Ucraina uno contro l’altro, confusi dall’espulsione di alcuni e non di altri, pur avendo, sulla carta, le stesse condizioni di partenza. Mahmut racconta di svariate proteste da parte di studenti di origine africana iscritti a università ucraine e rifugiati in Germania: «la maggior parte di questi ragazzi ha ottenuto un permesso di 6 mesi, mentre a me era stato accordato un intero anno. Perché? Alcuni poi hanno avuto altri 6 mesi di permesso, mentre io sono stato deportato. Perché?». Così, anche l’Olanda, che fino ad allora aveva un atteggiamento più aperto verso i third country nationals, almeno a detta di Mahmut, cambia attitudine intorno alla metà di luglio 2022. Quella che sembrava un’opzione percorribile per restare in Europa non lo è più.
«Torniamo a Kyiv?»
Qui entra in scena Ercan, connazionale di Mahmut, scappato come lui dall’Ucraina, ma temporaneamente a Brema.
È un pomeriggio come un altro, Mahmut è nella sua stanza d’albergo dove trascorre la maggior parte del tempo senza sapere cosa fare e con sempre meno soldi in tasca. Ercan lo chiama, gli dice che ha intenzione di tornare in Ucraina e chiede a Mahmut se vuole andare con lui. Vuole farlo in auto, la sua auto con targa ucraina. «Io ci sarei tornato già ad aprile, ma la situazione era davvero troppo critica. Ci ho ripensato a luglio, ad agosto, quando tutto sembrava più stabile e perfino le grandi personalità della politica si erano recate in visita a Kyiv. Ma solo a quel punto, quando non avevo più niente da perdere, ho deciso che era tempo di tornare».
Siamo, quindi, al 10 di settembre, a cinque giorni dalla scadenza assegnata a Mahmut per l’uscita dalla Germania. Ancora una volta, Mahmut lascia metà di quel poco che già si porta dietro, non informa l’albergo che non sarebbe più tornato, anche perché non è certo di riuscire ad attraversare il confine. L’albergo è pagato dal governo tedesco e, facendo il check out, se qualcosa fosse andato storto non avrebbe più avuto la possibilità di avere un tetto sulla testa. Mahmut ed Ercan passano per Berlino per incontrare l’ex ragazza di Ercan, iraniana, anche lei scappata dall’Ucraina e certamente non in grado di tornare al suo Paese: di lì a pochissimi giorni la morte di Mahsa Amini avrebbe innescato le proteste che tuttora infiammano l’Iran.
«Per qualche ora mi aggirai senza meta in un centro commerciale ripensando a tutta la mia esperienza in Germania. Le cose potevano andare diversamente, potevano andare meglio. Ho subito notato la differenza tra Berlino e Amburgo: a Berlino nessuno sembra fare caso al fatto che non parli tedesco, eppure sono solo a una manciata di chilometri l’una dall’altra. E poi pensavo alla mia ragazza che avevo lasciato a Kyiv. Pensavo a quanto fossimo spiantati, a quanti contatti avessimo perso per la strada e ho realizzato che uscendo dall’area Schengen non avrei più potuto avere accesso ad una serie di comfort che comunque avevo avuto. Riconoscevo fosse un rischio, ma anche che tutta quella burocrazia mi aveva consumato».
Da Berlino attraverso la Polonia per arrivare a Lviv
Così, Ercan e Mahmut guidano fino in Polonia, fino al confine di Krakovets e da lì entrano in Ucraina. Anche in quei giorni, un po’ come a febbraio dello scorso anno, sono in una delle poche automobili che tentano di entrare e non di uscire dal Paese. «I poliziotti polacchi ci hanno inondati di domande su cosa avessimo fatto in Germania e perché volessimo uscire dall’area Schengen. Ancora una volta abbiamo dovuto spiegare chi siamo e da dove veniamo. Una volta arrivati in Ucraina ci hanno solo detto: benvenuti. Perché qui abbiamo i documenti e tutte le carte in regola, qui abbiamo il diritto di stare. Qui siamo esseri umani».
La prima tappa è Lviv: Mahmut vuole recuperare la sua auto, la famosa Grande Punto parcheggiata davanti a casa di Irina, una delle ragazze che lo aveva ospitato nella fuga opposta fuori dall’Ucraina. La Punto è ancora lì, anche se un po’ ammaccata e anche Irina è ancora lì: lavora da remoto, perché a Lviv, in fondo, la guerra li ha sfiorati. Mahmut racconta di aver visto solo qualche soldato aggirarsi per la città, una città che è diventata rifugio per moltissimi ucraini scappati dalle altre zone più colpite, e di aver rispettato un coprifuoco dalle 23 fino alle prime luci dell’alba.
Ci vorranno 3 settimane per trovare alcuni pezzi di ricambio e riparare l’auto di Mahmut prima di rimettersi in viaggio verso Kyiv. Ma perché tornare proprio lì?
L’ultimo (?) viaggio verso Kyiv
«Perché è casa», spiega semplicemente Mahmut. Certo, arrivarci non è semplice: le strade sono bloccate per evitare il passaggio dei carri armati russi e i checkpoint non mancano, ma i controlli non sono così severi, dice. Ed è così che Mahmut rientra a Kyiv il 28 settembre 2022, esattamente 6 mesi dopo la sua partenza che sembrava definitiva.
Fino al 10 ottobre tutto appare fin troppo calmo, poi i missili russi tornano a cadere sulla città, questa volta ancora più vicini al centro città e ai palazzi del governo, dice Mahmut. Le sirene non hanno mai smesso di scandire le giornate dei cittadini di Kyiv che pur avendo ripreso la loro vita lavorativa e privata, di tanto in tanto devono ancora rifugiarsi nei sotterranei delle stazioni della metropolitana.
In quei mesi di ritorno a Kyiv, Mahmut resta in un ostello pieno di stranieri che «non si capisce bene cosa siano venuti a fare», dice. Sa solo che non vuole andare via da lì, anche se neppure sua madre sa che è tornato a Kyiv. Non glielo perdonerebbe.
E invece, quando lo contattiamo per sapere se alcuni dei suoi cari sono stati coinvolti nell’immane catastrofe del terremoto in Turchia e Siria del 6 febbraio scorso, scopriamo che è di nuovo in Germania. Il suo vagare alla ricerca di un rifugio continua instancabile. «Sono andato via a novembre per i continui attacchi e i sempre più frequenti blackout. Ho passato un mese in Svizzera, ma sono stato espulso anche da lì. Tornerò ad Amburgo, finché posso, poi chi lo sa». Ha addosso una tristezza infinita e sempre meno fiducia verso l’umanità.
Eleonora Masi