«Ho un ricordo che ancora mi fa piangere: una volta feci la domandina per fare un corso di teatro, ero contenta perchè nel mio Paese ho studiato danza movimento tanto tempo. Non me lo hanno fatto fare, perché era un’attività riservata ai maschi».
Queste sono le parole di una ex detenuta trans riportate nell’ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale, sulle condizioni delle persone lgbt+ nelle carceri italiane. Secondo gli ultimi dati raccolti e comunicatoci da Antigone, in Italia le persone trans attualmente detenute sono sessantaquattro in dodici carceri diverse e le condizioni in cui vivono sono per molti versi critiche.
Modalità di reclusione
La prima problematica è strutturale. Definire le modalità di detenzione di quanti non si riconoscono nella rigida appartenenza all’uno o all’altro genere è complicato. La difficoltà sta nel determinare una collocazione tale da salvaguardare la loro incolumità. Le persone trans rischiano infatti di subire pericolose minacce in carcere, essendo una realtà rigorosamente fondata sulla distinzione uomo-donna e che fatica a confrontarsi con coloro la cui identità di genere non corrisponde al genere assegnato alla nascita. Inoltre, il quadro normativo di riferimento non facilita la questione: sia la legge italiana sull’ordinamento penitenziario, sia le Regole Penitenziarie Europee sono poco chiare sulle modalità di reclusione. In entrambe è assente il riferimento alla necessità di considerare al momento della reclusione anche l’identità di genere, oltre al sesso anagrafico delle persone.
Le soluzioni per ovviare a questo problema sono state diverse. La prima riguarda le cd. sezioni protette, dove la persona detenuta poteva essere trasferita su richiesta e con motivazione di «problemi di incolumità personale». Come si legge dalla circolare del 2001 del ministero della Giustizia, queste categorie sono state «istituite per rispondere ad esigenze di tutela di determinate categorie di detenuti per motivi oggettivamente esistenti ancorché talora connessi a caratteristiche soggettive dei ristretti (ad esempio perché transessuali)». Altra soluzione temporanea è stata la sottoposizione della persona trans a un regime di particolare sorveglianza, come previsto dall’art.14 bis dell’ordinamento penitenziario, ossia un isolamento in nome della tutela personale non superiore a sei mesi.
Queste procedure rispondevano alla stessa esigenza: garantire l’incolumità delle persone trans separandole dalla restante popolazione detenuta, così da evitare una convivenza plausibilmente problematica.
Solo con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 la legislazione si è espressa in maniera inequivocabile, disponendo la collocazione di coloro che «possano temere aggressioni o sopraffazioni, in ragione solo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale» in sezioni dedicate e per categorie omogenee. Ma tra le dodici carceri italiane che accolgono persone trans, solo 7 prevedono le sezioni dedicate: Rebibbia Cinotti (che accoglie 15 detenuti/e), Como (12), Reggio Emilia (11), Napoli Poggioreale (8), Ivrea (5), Belluno e Firenze.
Seppur nate con l’obiettivo di tutelare le condizioni di permanenza delle persone trans, le sezioni presentano diverse criticità che mettono in discussione il raggiungimento della finalità rieducativa e di reinserimento sociale alla base della detenzione.
Il caso di Reggio Emilia: la Sezione Orione
L’Istituto penale di Reggio Emilia ha visto la nascita della Sezione Orione nel 2018. Precedentemente collocata presso il carcere di Rimini, questa è la sola articolazione che in Emilia-Romagna ospita persone trans. Situata di fianco al reparto femminile, la Sezione ad oggi accoglie 11 detenute. La separazione fisica cui sono sottoposte è tale anche dal punto di vista delle attività. Nonostante l’istruzione, la formazione professionale e l’accesso al lavoro siano considerati elementi essenziali per il corretto trattamento delle persone, come definito dagli artt. 15 e 19 della legge sull’ordinamento penitenziario, questo diritto non è pienamente garantito per le detenute della Sezione Orione. Dai corsi scolastici alla formazione professionale a qualsiasi genere di attività ricreativa, non hanno la possibilità di svolgerle con il resto della popolazione detenuta.
«Nel corso della visita che abbiamo fatto lo scorso 5 dicembre, ci è stato detto che sono state solo un paio le occasioni di incontro tra popolazione femminile e detenute all’interno della Sezione Orione. Per il resto questa cosa non è possibile», riferisce in un’intervista a The Bottom Up Mariachiara Gentile, avvocata del foro di Bologna e osservatrice per Antigone. Il rischio è che la separazione attuata in nome della sicurezza divenga facilmente un vero e proprio isolamento, con notevoli ricadute sulla qualità del quotidiano detentivo e sul piano psicologico.
A ciò si aggiunge un’ulteriore criticità: le attività previste per la Sezione Orione (e per quella femminile) sono praticamente nulle. La motivazione risiederebbe nella difficoltà a investire in maniera adeguata le risorse, secondo quanto evidenziato dalla direzione del carcere a Gentile. Dal momento che le sezioni maschili sono caratterizzate da un numero molto più elevato di persone (323), è ritenuto più opportuno investire in queste piuttosto che nella Sezione Orione (con 11 persone) e in quella femminile (12).
La situazione pare destinata a migliorare con l’intervento dell’associazione MIT, Movimento Identità Transessuale. «Abbiamo in mente tantissime attività. Quelle che sicuramente verranno realizzate da gennaio sono il corso di serigrafia, il cineforum e i gruppi di auto mutuo aiuto», svela in un’intervista a The Bottom Up Anna D’Amaro, operatrice del MIT e curatrice delle deleghe agli istituti di pena. D’Amaro mette in luce anche il fatto che si tratterà di attività unicamente rivolte alle detenute della Sezione Orione: essendo lei l’unica operatrice ad entrare a Reggio Emilia, non sarebbe possibile coinvolgere anche gli altri detenuti.
Assistenza sanitaria
L’assistenza sanitaria è un altro diritto inviolabile che deve essere garantito alle persone detenute. Nel caso delle persone trans questa prerogativa deve consentire una piena fruizione della terapia ormonale e della psicoterapia a supporto del percorso di transizione, a condizione che questi trattamenti siano già stati intrapresi prima della detenzione. Tra l’altro, la terapia ormonale è stata inserita nel 2020 dall’Agenzia nazionale del farmaco (Aifa) nell’elenco delle medicine erogabili gratuitamente dal Sistema sanitario nazionale.
Queste disposizioni rischiano però di non trovare una piena attuazione a Reggio Emilia, dove spesso non vi è la possibilità di proseguire le cure ormonali per una questione di carenza di personale. «Manca la figura dello specialista, dell’endocrinologo» denuncia Gentile. Non potendo entrare maggiormente nel dettaglio, Anna D’Amaro ci ha riferito come il MIT si stia attivando anche su questo piano. Per un maggiore chiarimento abbiamo contattato ripetutamente la direzione del carcere, senza ottenere risposta.
La mancanza di cure ormonali può contribuire a rendere ancor più problematica la detenzione, già di per sé pesante da gestire a livello psicologico. Gentile, nel corso della sua visita, ha avuto modo di rilevare un clima poco positivo fra le detenute, plausibilmente connesso anche ad un’altra questione. Alle detenute non è consentito accedere al reparto per la tutela della salute mentale, unicamente destinata ai detenuti di sesso maschile. «All’interno della Sezione Orione esistono situazioni che presentano disagio psichico. In particolare abbiamo avuto modo di vedere una persona visibilmente sofferente sotto questo punto di vista. A queste persone non è permesso accedere all’articolazione», spiega Gentile.
Auspicato trasferimento
La permanenza delle detenute all’interno della Sezione Orione appare problematica, nonostante la presenza pressoché costante del MIT e la formazione ad hoc riservata a operatori e personale di polizia penitenziaria. Il corso di formazione “Detenzione e persone trans”, promosso dal Comune di Reggio Emilia e tenutosi lo scorso aprile, si è posto proprio questo obiettivo: fornire strumenti utili al corretto trattamento delle detenute trans alle figure professionali che ogni giorno entrano in contatto con loro. Gentile ha sottolineato come la direzione del carcere, cosciente delle difficoltà nel garantire un’offerta pienamente adeguata, le abbia manifestato l’auspicio della chiusura di questa sezione. «È importante quello che vorrebbero le persone detenute. Bisogna metterle al corrente: se loro sapessero che al carcere di Bologna ci sono più strumenti, più finanziamenti, più possibilità, spetterebbe comunque a loro la scelta», precisa D’Amaro. L’art. 42 dell’ordinamento penitenziario stabilisce d’altronde la possibilità per i detenuti di richiedere il trasferimento «per ragioni di studio, di lavoro, di salute o familiari».
Leonardo Ragni
Fonte foto di copertina: Antigone