L’aborto di feti femminili, dovuto alla preferenza delle famiglie per i figli maschi, è una pratica purtroppo comune. Ci vogliono anni di pazienza e di lavoro per convincere le comunità del contrario.
Questo articolo è pubblicato originariamente in inglese su New Frame.
L’autore dell’articolo, Sanket Jain, è un giornalista e fotografo con base a Kolhapur.
Traduzione di Annalisa Rubini
Quando Gayatri Deshpande* era incinta, Shubhangi Kamble, 36 anni, un’attivista della salute sociale accreditata (Asha, Accredited Social Health Activist), presente nel villaggio di Arjunwad, nello stato indiano del Maharashtra, capì che doveva tenere sotto controllo la famiglia della donna. Se il test per la determinazione del sesso avesse rivelato che il feto era una femmina, la famiglia avrebbe deciso per l’aborto.
“Se il primogenito è una bambina o ci sono già due figlie femmine, allora c’è un’alta probabilità che la famiglia scelga l’aborto selettivo”, spiega Kamble. Il suo compito era di evitarlo, anche se significava lavorare come investigatrice e andare ben oltre il suo semplice ruolo di Asha.
Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sono state stimate circa 45 milioni di nascite di bambine “scomparse” tra il 1970 e il 2017. Più del 95% sono in Cina e India.

Per prevenire il feticidio femminile e correggere il diverso rapporto tra i sessi alla nascita, nel 1994 il governo indiano ha vietato la determinazione prenatale del sesso. Tuttavia, circa 30 anni dopo, questa pratica esiste ancora. Come ha raccontato Kamble, “sono tante le persone che illegalmente lo praticano e addirittura portano gli strumenti per effettuare il test nelle loro auto”.
Questo significa che le Asha come lei devono monitorare il ciclo mestruale delle donne dei villaggi di cui si occupano. “Se il ciclo non arriva in tempo, chiediamo loro di consultare un ginecologo”, continua Kamble. “Attraverso controlli e monitoraggi costanti, alla fine scopriamo se sono incinta oppure no”.
Il villaggio di Kamble si trova nel distretto di Kolhapur e ha notato che le donne che sono più propense,o costrette, a sottoporsi al test prenatale per la determinazione del sesso di solito cercano di nascondere agli altri il loro ciclo. Di conseguenza, per capire se sono incinta oppure no, le Asha devono scoprirlo indirettamente dai loro parenti e altri membri della famiglia. Chiedono anche di eventuali ecografie fatte finora. “Quando le famiglie nascondono le ecografie, è un campanello d’allarme”, dichiara l’attivista.
Questi indizi l’aiutano a riconoscere possibili casi di feticidio e grazie alle sue “fonti interne” nella comunità riesce a controllare queste famiglie. “Se ti presenti a casa loro con la chiara intenzione di indagare, riceverai solo risposte preparate a tavolino”, spiega Kamble. che preferisce andare là da amica, cercare novità sulla vita di tutti i giorni, e ottenere indirettamente le informazioni di cui ha bisogno. “Le persone non si rendono nemmeno conto che stiamo indagando”.

Kamble, nel caso specifico di Deshpande, aveva il forte sospetto che la donna sarebbe stata contraria a sottoporsi al test. Dalla sua esperienza sul campo, Kamble aveva capito che le donne incinte preferiscono una bambina, mentre i mariti o i parenti preferiscono un maschio. “A un certo punto, hanno smesso di invitarmi in casa e mi hanno addirittura maltrattato verbalmente”.
Il suo obiettivo era di convincere Deshpande a parlare con suo marito del fatto che non voleva sottoporsi al test. Così ha iniziato ad avvicinarsi a Gayatri. “Quando dai potere alla donna in casa, è inevitabile un cambiamento”.
Deshpande accettò e affrontò il marito. “All’inizio ci sono state litigate, però, a un certo punto, devi resistere e batterti contro le ingiustizie”, ha raccontato Kamble. Finalmente, dopo molte discussioni, la famiglia di Deshpande ha abbandonato l’idea di fare il test. Oggi sua figlia ha 5 anni e “tutta la famiglia è felice”.
Pratiche pericolose
Quando Anita Ravan, 38 anni, cominciò a lavorare con il ruolo di Asha in una comunità di migranti nel 2009, il numero di test per la determinazione del sesso era molto alto. Un altro elemento preoccupante era la mancanza di un’assistenza sanitaria accessibile, il che significava che un’alta percentuale di bambini nasceva al di fuori di un ospedale o di una clinica, mettendo a rischio la vita sia delle madri che dei loro bambini.
La prima cosa che Ravan ha fatto è stata quella di integrarsi nella comunità. La maggior parte dei migranti è povera e per molti di loro casa è una semplice struttura coperta da teloni di plastica. Inoltre, il lavoro è impegnativo anche perché i migranti si spostano ogni sei mesi in cerca di lavoro e questo non permette di riuscire a monitorarli nel lungo periodo.
Ravan ha cominciato il suo lavoro accompagnando le donne incinta al centro di primo soccorso di Shiroli, nel Kolhapur. Questo significava pagare i viaggi di tasca sua, ma voleva che le donne partorissero in ospedale. Riuscendo a salvare casi di gravidanze a rischio, ha conquistato la fiducia della comunità.
Ravan ha dovuto anche lottare contro pratiche antiquate, pericolose per le madri che partorivano in casa. I membri della comunità infliggerebbero un’ustione di terzo grado sulla pelle di una donna per rianimarla dopo aver partorito”.

Altre famiglie consulterebbero ciarlatani e guaritori per chiedere “medicine” sospette per concepire un figlio maschio, e che possono causare mortalità infantile o feti malformati. “Dieci anni fa questa pratica era molto usata, ed esiste ancora oggi”, spiega Ravan. “Non importa quanti progressi siano stati fatti, c’è ancora una parte della società, chiusa in questa mentalità conservatrice”.
Ravan, come Kamble, ha impedito aborti selettivi. Nel 2017, la famiglia Phadtare* ha costretto la nuora Poonam a sottoporsi al test prenatale per la determinazione del sesso. “Era una bambina”, ha raccontato Ravan, e il marito di Poonam e la sua famiglia erano stati chiari che doveva abortire. La donna era contraria, e chiamò Ravan.
Quando l’intera famiglia Phadtare negò che Poonam fosse incinta, Ravan li minacciò di denunciarli alla polizia. La famiglia continuò a cercare di convincere Poonam ad abortire, che nel frattempo informava Ravan per messaggio. Alla fine, Ravan li avvertì che si sarebbe rivolta al dipartimento medico e all’ufficio governativo dove lavorava il marito di Poonam, mettendolo così a rischio di perdere il lavoro e andare in carcere
A quel punto la famiglia cedette e cambiò posizione rispetto all’idea di avere una bambina, cosa per cui Poonam è davvero grata a Ravan. “Tutti vogliono una madre, una sorella, una moglie, ma nessuno vuole una figlia. Perché? Non ha solo salvato una bambina, ma ha anche cambiato in positivo la mentalità della famiglia”, ha affermato Poonam, stringendo sua figlia.

Un utile impiego di tempo
Jessica Andrews, un medico al centro di primo soccorso di Shiroli, ha detto che le Asha, (che sono tutte donne) hanno avuto una parte importante nel migliorare gli indici di salute delle donne e dei bambini dell’India rurale. “Ora sono gli uomini che hanno bisogno di assistenza. Servono degli omologhi maschili delle Asha per rivoluzionare la mentalità delle comunità”, afferma Andrews.
“Le donne sopportano tutto, che si tratti dei figli, della sterilizzazione, delle responsabilità e di occuparsi della famiglia. Negli ultimi 7 anni, non ho visto neanche 10 vasectomie qui a Shiroli, ma la società si aspetta che tutte le donne diventino sterili”.
Chhaya Sutar, una responsabile che monitora il lavoro di 23 Asha nel distretto di Kolhapur, ha ribadito che il contributo di donne come Ravan è indispensabile per le loro società. “Ogni membro della comunità oggi si fida di Ravan e questo è stato possibile grazie al tempo che ha dedicato ad aiutarli”.

Per Ravan i buoni risultati sono possibili solo se le Asha investono tanto tempo e fatica in quello che fanno. “Ci vuole molta pazienza e lavoro duro”.
Le sue visite sono piene di idee e domande per cambiarela società. Dare soltanto informazioni non basta, ha sottolineato. “Devi mettere in discussione le stranezze della società che sono diventate ormai una cosa normale e mostrare che esiste un modo per uscirne. Un dialogo costante aiuta”.
In quanto al pregiudizio, Ravan ripete spesso che “anche dopo il matrimonio, le figlie possono usare il nome dei loro padri. Niente le può fermare da un punto di vista legale. Quindi come è possibile dire che una generazione finisce quando nasce una figlia femmina?”.
*I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità delle donne intervistate.
Foto di copertina: Sanket Jain/New Frame