Il 30 marzo 2022 la Commissione europea ha presentato una direttiva sulla tutela del consumatore contro i casi di greenwashing, fenomeno che consiste in un ambientalismo di facciata per distogliere l’attenzione dai reali effetti negativi delle industrie su persone e ambiente. Secondo il testo, si vorrebbe imporre trasparenza su alcuni aspetti principali inerenti l’economia circolare, quali durata, obsolescenza e riparabilità dei prodotti. Ma l’aspetto innovativo è l’attenzione alla tutela del consumatore, tanto che la proposta può essere considerata come la prima legge specifica in materia. Fino adesso, infatti, il greenwashing era stato regolamentato solo dall’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO), stabilendo i requisiti e le modalità a livello internazionale con cui presentare pubblicità etiche, credibili, accurate e verificabili.
La tutela dei consumatori in Italia
Il fenomeno del greenwashing non deve intendersi solo come una strategia di marketing, in quanto può essere considerata come la pratica di diffondere informazioni e dati ambientali ingannevoli e di notevole importanza. Un recente studio della Commissione europea ha valutato 150 dichiarazioni ambientali relative all’etichettatura e alla pubblicità dei prodotti rilevando che circa il 53% di esse fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche ambientali dei prodotti in tutta l’Unione Europea. Le dichiarazioni ambientali hanno l’obiettivo di creare l’impressione che un prodotto o un servizio siano rispettosi dell’ambiente, e se queste dichiarazioni risultano false, allora si può parlare di greenwashing.
Il confine tra casi di greenwashing e prodotti veramente eco friendly è molto sottile, infatti “non è sempre facile per il pubblico comprendere l’effettiva portata delle pubblicità ambientali, perché i dati da prendere in considerazione possono essere molto specifici e complessi”, spiega Monica Davò, responsabile dell’area tecnico-giuridica del Comitato di Controllo dell’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria (IAP) in un’intervista a The Bottom Up. Per questo motivo l’art. 12 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione commerciale prevede che la pubblicità debba garantire una comprensione chiara degli aspetti del prodotto e dell’attività pubblicizzata.
Per quanto riguarda la sua regolamentazione, in Italia non c’è una vera e propria normativa, ma i singoli casi vengono portati all’attenzione dell’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria (IAP) e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Quest’ultimo è un istituto amministrativo indipendente che tutela il rispetto delle nuove norme sui diritti dei consumatori istituite dalla direttiva europea dell’Unione Europea. In concreto, interviene per reprimere la pubblicità ingannevole diffusa con qualsiasi mezzo. Lo IAP, invece, ha come obiettivo quello di fissare le regole di una comunicazione commerciale corretta e responsabile, e “ha sempre rivolto attenzione anche alla pubblicità c.d. green, che suggerisce che un prodotto o un servizio, di qualsiasi settore, abbiano un impatto positivo o siano meno dannosi per l’ambiente, anche quando i claim ambientali non sono veri o verificabili, dunque ingannevoli”, continua Davò.
Il singolo cittadino può segnalare all’IAP le pubblicità che ritiene scorrette, basandosi sulle norme contenute nel Codice e ogni segnalazione viene esaminata e valutata dal Comitato di Controllo, l’organo che ha funzione di monitoraggio sulla pubblicità e agisce a tutela del pubblico dei consumatori. Questo tipo di segnalazione può essere proposta parimenti anche all’AGCM, che comunque agisce anche di propria iniziativa. “Molta dell’attività di controllo sulla pubblicità diffusa è ancora svolta d’ufficio dal nostro Comitato di Controllo. È vero però che la sensibilità del pubblico dei consumatori verso i problemi ambientali è ora più elevata che in passato e può influenzare le loro scelte di acquisto” commenta la portavoce dell’IAP.

Scelte di acquisto
Un‘indagine emersa in occasione della Giornata mondiale della Terra, il 22 aprile, ha rilevato che 9 italiani su 10 si considerano rispettosi nei confronti del pianeta, anche quando fanno acquisti. La ricerca “GenZ&Millennials: due generazioni a confronto”, commissionata dalla piattaforma spagnola Wallapop di beni di seconda mano, ha rilevato che il 94% degli italiani è attento al pianeta quando acquista o vende beni. Il 93% degli intervistati è convinto che acquistare beni di seconda mano aiuti il pianeta, e solo l’1% degli intervistati ritiene che la compravendita di oggetti usati non aiuti la salvaguardia dell’ecosistema.
Anche secondo il Rapporto Coop 2021 sempre più italiani sono attenti alla tutela ambientale e scelgono di acquistare prodotti che hanno in etichetta claim che fanno riferimento all’ambiente e alla sostenibilità. “Ve ne sono diverse, dalle certificazioni aziendali alle certificazioni di prodotto, rilasciate da enti accreditati e basate su standard riconosciuti, che consentono di offrire una prova verificabile a sostegno di quello che viene poi veicolato al pubblico nei messaggi pubblicitari”, spiega Davò. “Dall’altro lato occorre riconoscere anche l’impegno delle aziende verso scelte volte a ridurre l’impatto ambientale delle proprie attività e, proprio per questo, occorre essere molto rigorosi nella valutazione dei messaggi pubblicitari che fanno riferimento ai valori della tutela dell’ambiente, per non svuotarli di significato”.
Un rapporto dell’International Institute for Sustainable Development (IISD) ha rilevato i risultati positivi che possono ottenere le aziende adottando pratiche sostenibili, quali un vantaggio economico e un miglioramento della reputazione. Nei primi sei mesi del 2021, il 62% dei consumatori italiani ha orientato le sue scelte verso marchi che adottano scelte green credibili, mentre il 60% ha acquistato prodotti di brand impegnati nella sostenibilità sociale. “Secondo me oggi i consumatori ricercano in un prodotto aspetti che lo rendano in sintonia con il pianeta in cui viviamo perché tutti ci stiamo rendendo conto che il consumo eccessivo degli anni recenti non è più sostenibile nel lungo termine”, ha dichiarato in un’intervista a The Bottom Up Niccolò Cipriani, fondatore di Rifò, azienda toscana che realizza capi e accessori utilizzando fibre tessili riciclate e riciclabili.
Rifò è un esempio di Circular fashion Made in Italy. “Usiamo in maggioranza filati certificati GRS (Global Recycled standard) e quello che usiamo in prevalenza, il cashmere rigenerato, ha anche un’analisi del ciclo di vita che ne attesta i risparmi rispetto a una produzione vergine”. L’industria tessile Rifò si occupa non solo di riciclare i vecchi indumenti, ma anche di ridurre i consumi di acqua, pesticidi e prodotti chimici utilizzati nella produzione. Per fare questo vengono evitate tutte quelle sostanze nocive vietate dal REC (Regional Environmente Center), come le ammine aromatiche, gli alchilosati e le resine contenenti PVC. Inoltre i filati di Rifò vengono creati attraverso processi di rigenerazione che provengono dalla selezione di vecchi indumenti, trasformati in nuovi capi. Per garantire un’economia circolare efficiente la produzione tessile dell’azienda utilizza il 92% di fibre che provengono da materiali rigenerati e solamente l’8% da fibre vergini. Inoltre vengono ridotti al minimo gli scarti di produzione, che possono essere riutilizzati.

Difficoltà dell’industria tessile a essere sostenibile
Nel settore tessile dunque il riciclo è una tematica importante e fondamentale, a cui gli acquirenti stanno sempre più facendo caso, ma in concreto l’effettiva attuazione richiede enormi investimenti negli impianti di raccolta, selezione e riciclaggio dei rifiuti tessili.
L’industria della moda è tra le principali cause dell’inquinamento dovuto alla sua produzione. La produzione tessile sarebbe responsabile di circa il 20% dell’inquinamento delle acque. Alcuni processi come la tintura, la finitura e il lavaggio di capi sintetici rilasciano ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari.
E per quanto riguarda il riciclo, solo l’1% del totale delle fibre utilizzate nell’abbigliamento viene riciclato trasformandolo in nuovi abiti. L’87% finisce in discarica o viene incenerito, mentre il 13% viene riciclato in usi di valore inferiore.
Negli ultimi anni ci sono stati alcuni tentativi di valorizzazione della lana autoctona, grazie alla produzione di micro-filiere di produzione locale o nazionale che realizzano il ciclo di produzione, ma secondo una statistica (link della statistica) dell’IBIMET – CNR di Firenze, in Italia il 95% della lana finisce in discarica come rifiuto speciale.
In nome del rispetto dell’ambiente, negli ultimi anni si sta tentando di stipulare accordi e linee guida. Nel 2018 130 aziende e 41 organizzazioni di supporto hanno firmato la Carta dell’industria della Moda delle Nazioni Unite con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 30% entro il 2030. Un accento sulla questione è stato posto durante il Summit ONU COP26, tenutasi a Glasgow sui cambiamenti climatici, dal momento che attualmente l’industria della moda è infatti responsabile del 10% delle emissioni annue globali. Un ulteriore passo in avanti nel campo della trasparenza delle dichiarazioni ambientali dei marchi verrà attuato con due iniziative della Commissione europea di Bruxelles, nello specifico la Green ClaimsInitiative e la Sustainable products initiative. Queste due proposte saranno il completamento della direttiva europea del 30 marzo, dato che lo scopo sarà quello di introdurre ulteriori requisiti in relazione alle dichiarazioni ambientali fatte su prodotti e organizzazioni, sia nei confronti dei consumatori che nei confronti delle altre imprese.
Sonia Faseli
Fonte foto di copertina: Rifò