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Non c’è lotta senza le donne

Durante la guerra di liberazione della Guinea-Bissau, le donne hanno ricoperto ruoli chiave al fronte. Dettaglio spesso dimenticato nella mitologia della lotta per l’indipendenza.

Questo articolo è pubblicato originariamente in inglese su Africa Is A Country.
L’autrice dell’articolo, Ricci Shryock, è una giornalista e fotografa con base a Dakar. Dal 2020 è associata a AIAC.

Traduzione di Adele Casciaro.


Senza dire una parola, Fatou Mané siede nel suo salotto a Bissau, capitale della Guinea-Bissau, e muove le dita per parlare una lingua di altri tempi.

“Tap, tap, tap”. La sua mano si muove rapidamente grazie alla memoria muscolare, anche se sono passati 47 anni da quando la guerra di liberazione del Paese si è conclusa con la vittoria sui Portoghesi.

“Cosa hai detto?”

“Compagno”, risponde piano Mané. Per quasi quattro anni, degli undici della guerra di indipendenza, ha prestato servizio come addetta al codice Morse per il leader rivoluzionario della Guinea-Bissau, Amilcar Cabral.

Vinta una guerra, la storia costruisce monumenti agli uomini, ergendo il contributo del soldato maschio su un piedistallo, presentandolo come il ruolo più valoroso e chiave per la vittoria.

Durante la lotta di liberazione della Guinea-Bissau, molte delle munizioni del movimento erano introdotte attraverso il confine dalla Guinea-Conakry dalle donne, che nascondevano i proiettili nella frutta e nel pesce all’interno di ceste trasportate sulla testa. Dopo l’indipendenza, erano per lo più gli uomini a ricoprire ruoli di potere e ad essere celebrati nella nuova toponomastica delle strade liberate. Quanto alle donne che portavano i proiettili, solo gli alberi, cresciuti dai semi caduti dai frutti da loro trasportati, erano rimasti a sussurrare i loro nomi.

Con il cambiare della linea del fronte durante la guerra, i guerriglieri liberatori dipendevano dalle persone  liberate. Per affrontare i meglio equipaggiati Portoghesi meglio, i combattenti per la libertà del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (PAIGC) avevano bisogno del supporto dei residenti locali, i quali permisero ai soldati di far partire sabotaggi e attacchi segreti dalle loro basi nella foresta.

Secondo Cabral, uno dei modi migliori per conquistare e mantenere il supporto della gente era quello di mostrare loro come la loro vita quotidiana sarebbe migliorata sotto le forze di liberazione rispetto al precedente dominio portoghese. “Tenete sempre a mente che le persone non combattono per le idee, per ciò che qualcuno ha in testa”, diceva. “Loro combattono per ottenere benefici concreti, per vivere meglio e in pace, per vedere le loro vite andare avanti, per garantire un futuro ai propri figli”.

Una delegazione delle Nazioni Unite visitò le zone liberate nel 1972 e notò che, mentre la capacità dei soldati di strappare via il potere ai Portoghesi era ammirevole, “ancora più ammirevole è il lavoro che il PAIGC sta svolgendo per organizzare la vita civile della comunità e, anche se nel mezzo della lotta, per creare una nuova società, con le proprie istituzioni, adatte alle caratteristiche del popolo della Guinea piuttosto che a culture straniere imposte con la forza”. Anche se furono poche le donne a combattere al fronte al fianco dei soldati maschi, molte di più avevano il compito di fare ciò che, come previsto daCabral, avrebbe aiutato i residenti a “vivere meglio”, prestando servizio come personale medico, insegnanti, funzionarie politiche e altro.

Nell’odierna Guinea Bissau, dove le scuole e il sistema sanitario sono tristemente ben lontani dalla promessa di “garantire il futuro” dei bambini, ci si chiede se ci sia qualche correlazione tra le condizioni attuali e il modo in cui il ruolo di insegnanti, medici e altre “operatrici socio-sanitarie” durante la rivoluzione costituisca un ripensamento storico.

Nonostante durante la guerra di liberazione gran parte di queste mansioni ricadde sulle spalle delle donne, dopo la vittoria il loro lavoro venne svalutato nuovamente, ridotto a qualcosa di dovuto, di cui si poteva approfittare, di non riconosciuto.

Di recente, quattro donne che hanno preso parte a questo lavoro rivoluzionario hanno riflettuto sui tempi in cui erano in lotta e sui loro contributi alla causa.

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FatouMané. Fonte: Ricci Shryock

FatouMané (Amelia Sanca) [Addetta al codice Morse per Amilcar Cabral]

“Ci sono tante cose che non sarò in grado di spiegarti qui”, afferma Mané – alias Amelia Sanca – sui tempi in cui lavorava come addetta al codice Morse per Cabral.

Ha passato anni al fianco di Cabral durante la lotta, codificando e decifrando messaggi da un fronte all’altro. “Ho preso parte alla battaglia perché sono l’unica figlia di mio padre e mia madre, uccisi durante il conflitto. Si sa, un orfano ha sempre una certa attitudine – se fai qualcosa, è perché provi già del risentimento. È questoche mi ha portato a unirmi alla lotta”.

Subito dopo lo scoppio della guerra, Cabral mandaMané in Unione Sovietica per l’addestramento militare. Torna in Guinea Bissau nel 1969 e diviene la sua addetta al codice Morse.

“I nostri messaggi erano dettati dai comandanti”, racconta. “Ad esempio, se dicevanodi aver attaccato gli accampamenti e che i “Tugas” (gergo per i soldati portoghesi) avevano perso cinque persone e noi una, scrivevo questo. A volte avevo paura di aver commesso degli errori e che, una volta arrivato alla radio nazionale (Rádio Libertação), questo sarebbe stato quello che avrebbero letto per aggiornare la popolazione. Doveva essere scritto in numeri, codificato in numeri e poi decifrato in numeri”.

Il suo lavoro era reso ancora più difficile dal fatto che spesso i comandanti non parlavano Kriol, una delle tante lingue locali. Nonostante la Guinea-Bissau sia un piccolo Paese, di soli 36.000 km2, e con soli 600.000 abitanti ai tempi del conflitto, ospita più di 14 gruppi etnici con lingue diverse. “A volte i comandanti non sapevano parlare Kriol, quindi veniva fuori un’immagine astratta e indecifrabile da far interpretare a qualcun altro nella tua lingua”.

Come le tante persone vicine aCabral, Mané si illumina quando parla dell’eroe dell’indipendenza. Invece di concentrarsi sulle sue idee o sul suo valore militare, ne ricorda il lato umano. “Ovunque andasse, giocava sempre con i bambini, come se a volte avesse dimenticato il suo destino. Lui diceva che i bambini sono i fiori e il motivo della nostra lotta”.

Cabral aveva delle abitudini semplici, ricorda Mané. “Mangiava poco e dormiva poco. Ma quando dormiva, sembrava come morto. Dormiva ogni giorno tra l’una e le due di pomeriggio”. Sorride mentre rievoca il giorno in cui un soldato aveva scommesso con un altro che avrebbe spostato la tenda di Cabral – con lui dentro – senza svegliarlo. L’altro soldato accettò la scommessa e perse. “Ma di notte non dormiva”, aggiunge Fatou.

Le donne hanno svolto un ruolo fondamentale in ogni ambito della lotta, conclude Mané. “Non c’è lotta se la donna non ne fa parte, e non c’è neanche un istante in cui la donna non abbia partecipato”.

Brinsam [cuoca]

“C’era una battaglia all’epoca e tutti vi partecipavano, non sapevamo però come sarebbe stato il domani”, afferma Brinsam.

Dopo aver sposato un soldato nel 1966 in Guinea-Conakry, viaggia fino al fronte insieme a suo marito. Lì, insieme ad altre donne, ha il ruolo fondamentale di cucinare per i soldati nelle zone liberate.

“Era tutto difficile, ci bombardavano. I bianchi cercavano di realizzare i loro piani e controllavano quasi l’intera superficie aerea del nostro Paese”, dice.

Questo voleva dire che persino le zone di terra liberate e controllate dal PAIGC erano vulnerabili agli attacchi aerei dei Portoghesi. “C’erano zone liberate, ma nessuno credeva che lo fossero, perché i bianchi arrivavano in qualsiasi momento e ci bombardavano in un modo che nessuno di noi avrebbe mai immaginato potesse accadere, camminando in un posto chiamato zona liberata”.

Quando i combattenti per la libertà tornavano alla base dopo un attacco ai Portoghesi, erano Brinsam e le altre donne ad occuparsi del loro approvvigionamento. “Cucinavo persino quando tornavano dalla missione all’alba, mi svegliavano per servire il cibo”.

Durante la guerra, le donne si accorsero che il grande mortaio di legno e il pestello, tipicamente usati per schiacciare il riso, facevano troppo rumore. Il colpo sordo del legno sul legno avrebbe potuto segnalare alle forze coloniali dove si nascondevano i combattenti. Brinsam e altre donne, allora, inventarono un nuovo metodo per cucinare. A bucherellare la terra rossa della Guinea-Bissau, spesso ci sono dei termitai che superano i due metri di altezza. Ricavarono dei grossi buchi sui lati dei termitai e, poi, usarono sterco di vacca essiccato per livellare la superficie. Era lì che pestavano il cibo.

Brinsam ricorda una canzone che cantavano, quando erano sicure di poter fare rumore. “C’era una ragazza che si sentiva triste, e la sua tristezza la ispirò a scrivere una canzone bellissima che ricordo ancora oggi. Questa ragazza era una grande combattente. Piangeva, cantando questa triste canzone.”

Noi ora siamo di nuovo sicure.
Molti dei nostri compagni sono arrivati.
Ci proteggono a Komo.
Non ci spaventa più la morte a Komo.
Non ci spaventa più niente nella nostra area.
La forza del PAIGC è a Komo. Amilcar Cabral è il nostro leader.
Dove possiamo trovare Cabral allora?
Cabral è a Cacine, Cabral è a Conakry.
Cabral è ovunque, è anche in mezzo a noi.

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Brinsam. Fonte: Ricci Shryock

“Durante la guerra cantavamo per motivare i combattenti così che non si demoralizzassero e non smettessero di combattere”, dice Brinsam. “Le canzoni di questa ragazza erano molto toccanti. Ha insegnato a me e a molte delle mie colleghe, ma non solo quello, ci ha rese un gruppo e ci ha insegnato a cantarediverse canzoni. Sfortunatamente è morta”.

Brinsam sente che le donne venivano trattate più equamente durante la guerra di quanto non lo siano oggi. “Durante la lotta le donne sono sempre al fianco degli uomini, ma quando la battaglia finisce, ci sono gli uomini da un lato e le donne dall’altro”.

Joana Gomes [personale medico]

Nel 1971, mentre la lotta in Guinea-Bissau continua, un’ondata di colera colpisce l’Africa occidentale. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite dell’epoca, il personale medico mandato in Guinea-Bissau dalle forze di liberazioneriuscì a fermare l’epidemia con una campagna vaccinale.

Nel report si legge: “Il PAIGC possiede diversi ospedali e postazioni mediche disseminate per le zone liberate; queste non servono solo a medicare i feriti in guerra, di cui la maggior parte sono civili, ma anche ad attuare campagne terapeutiche e preventive contro le malattie endemiche in quelle regioni e alla formazione di livello intermedio del personale, così da creare nuovi soldati per la pace che lavorano per il proprio popolo”.

Joana Gomes faceva parte di quei soldati per la pace. Dopo aver svolto un corso da infermiera a Kiev, Gomestorna in Africa occidentale alla fine degli anni ’60. Viene subito mandata all’ospedale gestito dal PAIGC nella vicina Boke, oltre il confine con la Guinea-Conakry, un importante base della retroguardia che riceveva sia soldati feriti,siafunzionari di alto rango per vaccini, terapie e trattamenti di routine.

“In quel momento a Boke eravamo dei patrioti”, afferma Gomes. “Non avevamo denaro, ma avevamo tutto. Avevamo cibo, avevamo il sapone, avevamo il latte. Mangiavamo, facevamo tutto”.

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Joana Gomes. Fonte: Ricci Shryock

Per legge, il personale sanitario non poteva prendere denaro per i propri servizi. “Ma quando la gente (funzionari dalla Guinea Conakry) veniva in ospedale portava dei sacchi, grandi sacchi pieni di soldi. Un diplomatico, molto ricco, arrivò e iniziò a dare soldi alle infermiere e a tutti quanti, ma ci era proibito prenderli. Dovevamo aiutarli, ma non potevamo prendere i soldi”.

Nel 1972, Gomesviene mandata al fronte sud in Guinea-Bissau. Nella città di Cubacare, aiuta alla cura non solo dei soldati, ma anche della popolazione nelle zone liberate. Un giorno del 1973, all’ospedale Guerra Mendes, ci fu un attacco aereo portoghese. “Era mattina. L’attacco non era stato in un villaggio vicino all’ospedale”.

All’esplosione della bomba, afferma, volarono schegge dappertutto. “Avevamo sentito il bombardamento, ma all’inizio non capivamo dove fosse”. Circa un’ora più tardi, i residenti le portarono una donna incinta di nove mesi, colpita gravemente dalle schegge. Un grosso pezzo di metallo le si era conficcato nello sterno.

“La donna disse che aveva sentito gli aerei e che aveva iniziato a correre. Poi il lancio della bomba. Quando la scheggia la colpì,rimase lì ferma perché, quando bombardano, non c’è altro che puoi fare. Non puoi correre. Tutti cercano un posto per ripararsi”, dice Gomes.

“Solo dopo, delle persone andarono a prenderla con la barella per portarla in ospedale. Grazie a Dio siamo riusciti a estrarre la scheggia, a curarla e a fare tutto il necessario. L’abbiamo fatta rimanere lì per qualche giorno e questo è quanto. All’epoca, non potevamo far rimanere un paziente in ospedale troppo a lungo. Non appena si sentivano meglio, camminavano, mangiavano bene e non c’era alcun rischio, dovevano andarsene”.

CobaSambu [rappresentante politica]

Coba Sambu ricorda il giorno in cui un pezzo di carta le è quasi costato la vita.

Durante la lotta, le persone residenti nelle zone liberate erano rappresentate da comitati politici di cinque membri per ciascun villaggio,tra le cui responsabilità c’era quella di comunicare i bisogni della comunità al partito, e viceversa.

Cabral insisteva sul fatto che due dei cinque rappresentanti di ogni comitato dovessero essere donne. Sambu prestò servizio come rappresentante politica a Tite, un piccolo villaggio situato a breve distanza dalla capitale portoghese Bissau.

Il suo lavoro prevedeva essenzialmente la mediazione tra la popolazione e i leader del PAIGC, afferma Sambu. Aiutava i leader della liberazione a capire i servizi necessari alla comunità e, viceversa, informava i residenti su ciò che i combattenti richiedevano loro per aiutarli a vincere la guerra.

“Ero un messaggero. Consegnavo informazioni”, dice Coba. “Quando c’era bisogno di fare qualcosa o quando volevano dare delle informazioni alla popolazione, io ero quella che riportava le informazioni alla comunità. Ciò che la comunità rispondeva, lo comunicavo al PAIGC”.

Il rappresentante a capo del suo comitato era un uomo di nome Vasco, che viaggiava con lei nelle comunità della zona. Ascoltavano le preoccupazioni dei residenti e Vasco le scriveva. Spesso però era Sambu a consegnare il messaggio ai leader.

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Coba Sambu. Fonte: Ricci Shryock

“Una volta andai a Bissau per consegnare il nostro messaggio al PAIGC e loro mi diedero una lettera da portare indietro”, dice. “Non sapevo se sarei stata catturata dai Portoghesi. Una volta mentre tornavo a Tite con un messaggio, vidi un Tuga (Portoghese) e iniziai a correre. Mi inseguirono. Mi avrebbero uccisa se mi avessero presa con il messaggio che avevo in tasca, così iniziai a correre, saltai nel fiume e nascosi il messaggio nel fango sul letto del fiume. Quando mi trovarono mi portarono in prigione, rimasi lì per mesi. Non trovarono mai il messaggio però”.

“Siamo stati noi a mandar via i Portoghesi, ma per farlo abbiamo dovuto lavorare insieme”, aggiunge Sambu. “Alcune persone volevano abbandonare la lotta, ma io consigliai loro di non farlo”. In battaglia, dice, le differenze etniche sparivano. “Non c’erano Bifata, non c’erano Manjac, né Bijagos. Nella foresta eravamo tutti fratelli”.

Ricci Shryock


Fonte foto di copertina: Ricci Shryock

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