Il racconto di un gruppo di varie nazionalità, in fuga dall’Ucraina. Il gruppo si divide, e le varie persone passano frontiere diverse (Polonia, Romania, Ungheria, Slovacchia).
Un diario di viaggio per capire la geografia della fuga.
Mahmut non si sente libero in Turchia
Ho conosciuto Mahmut nel 2015, a Istanbul, in uno degli incontri open-mic organizzati da Spoken Word nel famoso Arsen Lüpen, locale a pochi passi da piazza Taksim. Uno spazio libero in cui esprimersi in un Paese, la Turchia, dove diventava sempre più complesso non fare attenzione alle proprie opinioni, specie se dette ad alta voce. Mahmut si sentiva già stretto, l’obbligo del servizio militare incombeva come una spada di Damocle e pianificava un suo trasferimento altrove. Infatti, di lì a breve si sarebbe trasferito prima in Repubblica Dominicana per poi approdare in Ucraina, a Kyiv, meno di un anno fa.
L’Ucraina sembrava il posto giusto per investire nella sua carriera di programmatore web, tanto che in brevissimo tempo è riuscito ad avviare la sua start-up e, soprattutto, si è sentito a casa. Una nuova casa che aveva già visitato più volte e in cui si era sentito più accolto che in Europa, mi racconta in videochiamata, ora che è arrivato a Bruxelles scappando da una guerra inaspettata.
“No, nessuno se l’aspettava”, mi conferma. “Certo, l’aggressività in Donbas cresceva ma, da turco, questi conflitti a ridosso dei confini non mi fanno paura perché ci sono abituato. La guerra in Siria alla nostra porta è stato uno dei motivi per cui ho scelto di andar via: non avrei mai potuto infilarmi l’uniforme e servire il mio Paese, magari in quelle zone, anche se solo per qualche mese”. Il servizio militare in Turchia, infatti, è obbligatorio per tutti i maschi maggiorenni e dura 6 mesi. L’obbligo può essere posticipato fino al compimento dei 30 anni in caso di permanenza all’estero o per motivi di studio. Non c’è possibilità di obiezione di coscienza, ma solo quella del pagamento di una sorta di multa di 31 mila lire turche – circa 8 volte il salario di un mese, una strada percorribile solo da pochi ricchi. “Pur convivendo con questo conflitto e con milioni di rifugiati, non ho mai smesso di pensare che Ankara ed Istanbul fossero sicure, e lo stesso pensavo di Kyiv”.
La lunga fuga da Kyiv
Da qui inizia il lungo racconto della sua fuga, da quel 24 Febbraio in cui è stato svegliato dai messaggi e dalle chiamate degli amici ucraini che lo spingevano a recarsi al supermercato per fare scorte di cibo e al benzinaio per fare il pieno all’auto che da lì a poco l’avrebbe portato fuori dalla capitale. Una Grande Punto grigio-azzurra, la sua prima auto di proprietà, di cui mi parla come fosse un animale domestico o un parente.
“Non potevo credere ai miei occhi e la mia confusione era agevolata dalle informazioni contrastanti che io e il mio amico Mert, anche lui turco, ricevevamo dall’ambasciata turca. Inizialmente ci hanno detto di restare in città, perché Kyiv sarebbe stata sicura, ma il mio istinto mi diceva l’opposto.”
“Sin dal primo momento ho cercato di convincere i miei amici più stretti a elaborare uno o più piani di fuga insieme. Oltre a Mert, c’erano Johan, sudafricano, Zakir, originario dell’Azerbaigian, Murtaza, inglese di origini pachistane e Diana, ucraina. In primis, siamo andati verso la stazione centrale di Kyiv, ma la situazione era già fuori controllo: non ricordo di aver mai visto tanta gente tutta insieme in vita mia.”
“Abbiamo preso due auto, la mia Grande Punto e una macchina a noleggio guidata da Zakir, che vive a Kyiv da 11 anni e di professione fa il tassista. Proprio in quel momento abbiamo avvistato il primo carro armato russo, e dopo qualche minuto ci hanno inoltrato il video di uno di questi carri armati che distruggeva deliberatamente il mezzo di un civile in strada. Per fortuna la copertura di rete era ancora molto buona, riuscivamo ad utilizzare Telegram per ottenere informazioni vitali su dove fosse il caso di andare. Nel giro di poche ore mi dissero di non tornare più a casa, perché il mio quartiere era già assediato dai russi.”.
Mahmut continua a raccontarmi ogni singola tappa senza prendere fiato, con una lucidità che sembra allontanare questi eventi dalla sua stessa esperienza. Mi spiega quanto sia stato cruciale per il suo gruppo di amici restare uniti. Uno di loro, Murtaza, ha documentato il loro viaggio con lunghi post quotidiani sul suo profilo Facebook.
“Sono in macchina con due amici e una delle loro fidanzate [Diana, ndr] e stiamo cercando di uscire da Kyiv”, scrive Murtaza il 25 Febbraio, “stiamo guidando da circa 4 ore, eppure siamo ancora in città, ma abbiamo tutto quello che ci serve, anche il rifornimento che, invece, manca ormai in tutte le stazioni di benzina. Il suono delle bombe sembra farsi più rado perché le forze ucraine stanno cercando di difendere la loro terra con le unghie e con i denti”.
Mahmut mi spiega che l’unica direzione possibile per loro fu quella scelta da molti, ovvero la città di Lviv, Leopoli, a Ovest del Paese, tuttora libera dall’occupazione russa, sebbene le sirene dei bombardamenti suonassero e suonino anche lì.

Verso Lviv, sollevati, ma tristi
“Quando siamo riusciti ad oltrepassare Kyiv ci siamo sentiti sollevati, ma anche indescrivibilmente tristi. Avevamo lasciato indietro le nostre vite, i nostri amici ucraini, i nostri averi, la nostra città. E proprio io che scappavo dal mio servizio militare obbligatorio, sarei stato in grado di arruolarmi e combattere per l’Ucraina”, continua Mahmut. “Certo, in qualità di turco non me l’avrebbero mai lasciato fare, perché sappiamo che l’accordo tra la Turchia e l’Ucraina è stato chiaro: noi vi diamo gli incredibili droni Bayraktar Tb2, voi rifiutate eventuali foreign fighters provenienti dal nostro Paese, perché dei turchi che combattono contro i russi sarebbero troppo pericolosi per le nostre relazioni con Putin” aggiunge. In realtà, una volta arrivati a Leopoli, Mahmut mi racconta che il carburante era sufficiente per tentare un ulteriore passo in avanti, ovvero il confine di Medyka/Szeginie con la Polonia, il più affollato di questo esodo. La fila, però, era troppo lunga, e mi ricorda che una delle macchine che avevano preso per scappare da Kiev era a noleggio. “Non potevo crederci, ma a un certo punto il proprietario della macchina che avevamo noleggiato ci ha chiamati da Kyiv perché, tracciando la nostra rotta, si è accorto che stavamo per attraversare il confine. Ci ha minacciati, così Zakir, il mio amico azero che la guidava, gli ha promesso di tornare a Leopoli, dove avrebbe lasciato l’auto. A quel punto dovevo scegliere: potevo tornare con Zakir a Leopoli guidando per quasi 80 chilometri oppure camminare per la metà, 39 chilometri, fino alla frontiera, Non c’era modo di procedere con la mia Grande Punto perché la fila era lunga quanto la distanza: 39 chilometri di donne e bambini a cui non volevo togliere il posto. Ho scelto di andare con Zakir, mentre gli altri, incluso Murtaza, hanno iniziato a camminare”.

“Sono sano e salvo, in gruppo, e sono a 10 chilometri dal confine” scrive a quel punto Murtaza su Facebook il 26 febbraio. “Siamo a piedi e viaggiamo leggeri, la mia batteria è al 18%, ma sono certo che qualcuno mi permetterà di ricaricarlo. Gli ucraini ci stanno aiutando dandoci riparo e cibo. Non so per quanto mancherò, ma il prossimo aggiornamento spero sia dalla Polonia!”.

L’impossibile attraversamento del confine di Medyka/Szeginie
Purtroppo no. Murtaza, Mert e Johan sono costretti a passare la notte tra il 26 e il 27 febbraio nella foresta dopo essere stati respinti dalla polizia polacca. Solo Diana in quanto ucraina e donna riesce ad essere accolta in Polonia.
“Un breve aggiornamento – scrive Murtaza su Facebook in quelle ore – non c’è modo di attraversare il confine di Medyka. Un caos assoluto nel buio pesto. Le persone che, come me, sono arrivate a piedi dopo 40 chilometri di cammino sono state accolte da un posto di blocco della polizia e dai soldati che ci urlavano ‘STATE INDIETRO!’ Ci siamo seduti a pochi metri dalla folla e abbiamo sentito alcuni spari. Suppongo siano solo colpi a salve per allontanare la gente, ma nessuno sa davvero cosa stia succedendo. Non c’è modo di ripararci, ma siamo esausti, quindi contempliamo di passare la notte nella foresta accendendo un fuoco”.
“La crisi umanitaria è una guerra dentro la guerra. Ho visto coi miei occhi la discriminazione nei confronti degli stranieri di pelle diversa, per non parlare della condizione delle donne che attraversano il confine da sole o con i bambini. Non so cosa sarà di loro dove arriveranno, ma so che non tutti hanno intenzione di proteggerle”, prosegue Mahmut. Mahmut che, nel frattempo, ha raggiunto Zakir a Lviv trovando un alloggio di fortuna grazie a Irina, una conoscente della famiglia di Murtaza. “A Lviv qualunque appartamento e qualunque stanza d’albergo è tuttora occupata o prenotata per i parenti degli ucraini che viaggiano da altre città verso Ovest” mi spiega. Mahmut e Zakir decidono di riprendere la Grande Punto e tornare al confine con la Polonia per recuperare Murtaza, Mert e Johan bloccati lì. Johan, in realtà, sceglie di dividersi dal gruppo e tentare la sorte con altre 3 ragazze sudafricane appena conosciute, rimettendosi in viaggio per raggiungere il confine con l’Ungheria. Contemporaneamente, Mahmut riesce a mettersi in contatto con l’ambasciata turca e prenota due posti, uno per lui, uno per il suo amico Mert, su un pullman che li avrebbe portati al confine con la Romania.
“Continuavo ad essere sconvolto dalla confusione delle informazioni che mi venivano riferite. Mi dissero che il punto di raccolta sarebbe stato di fronte a un ipermercato di Lviv, e quando gli feci presente che non conoscevo la città e non sapevo come orientarmi, mi ribadirono che dovevo essere lì per le 7 di quella sera o sarebbero partiti senza di me. La mobilità all’interno di una città piena di sfollati non è semplice e siamo arrivati al pullman con 45 minuti di ritardo. Fortunatamente, il mezzo era ancora lì, ma c’era un solo posto disponibile. Ho lasciato andare Mert, che era molto più impaurito di me. Di lì a poco avrebbe iniziato a nevicare: faceva sempre più freddo, io, Zakir e Murtaza abbiamo fatto due passi nella città vecchia che desideravo visitare sin da quando mi ero trasferito in Ucraina e ho pensato a tutte le persone, tutti i bambini al confine, al freddo e al gelo, e mi sono sentito in colpa per avere da mangiare e un posto dove dormire”.

L’ultimo sforzo verso la Slovacchia
Il giorno dopo, il 28 febbraio, Zakir prende una decisione inaspettata: sarebbe rimasto in Ucraina a fare il suo lavoro di sempre, il tassista. “Voleva trovare un mezzo più capiente per continuare a trasportare le persone che vogliono scappare. Adesso si trova ancora in Ucraina”, mi spiega Mahmut. A quel punto, Mahmut e Murtaza pensano al loro ultimo piano di evacuazione: prendere un treno verso la Slovacchia seguendo il consiglio di un’amica di Murtaza che abita a Čop, una città di confine piena di studenti di origine pakistana e indiana, quella che sarebbe stata la loro destinazione finale per poi attraversare il confine a piedi. “Ho abbandonato la mia fidatissima Grande Punto di fronte all’appartamento di Irina, la ragazza ucraina che ci aveva aiutati durante il nostro soggiorno a Lviv. Ho lasciato lì dentro la maggior parte della mia roba, compreso il computer che ho dimenticato nella valigia più grande che ancora mi portavo dietro. Ero in panico, e non sapevo più cosa avevo messo dove, ho preso il trolley più piccolo e lo zaino per non essere troppo appesantito e ingombrante. Ho consegnato le chiavi ad Irina e le ho detto che avrebbe potuto usare sia l’auto che la mia roba come voleva per aiutare chi aveva bisogno e siamo andati alla stazione con un biglietto per Užhorod. Viaggiavamo con Sveta (un’amica di Irina), sua mamma e Pundyk, il loro gatto”.

Dopo 6 ore di attesa, il treno per Užhorod non si vede. Decidono di prenderne uno per Čop, altrettanto vicino al confine.
“In quel momento mi sono davvero sentito in un libro di storia, i miei occhi osservavano cose che avevo immaginato solo per la Seconda Guerra Mondiale”, mi dice Mahmut. “Il treno viaggiava con il quadruplo della capienza prevista, noi uomini in piedi, donne e bambini seduti uno sull’altro, tutti insonni nonostante la stanchezza”.
La mattina del 1 marzo, gli ultimi incredibili sforzi: arrivati a Užhorod grazie all’ulteriore passaggio di un conoscente, Mahmut e Murtaza riescono a prendere un taxi che pagano profumatamente per caricare il loro gruppo e altre persone e portarle al confine con la Slovacchia.
“La situazione che abbiamo trovato lì era completamente diversa da quella al confine con la Polonia: abbiamo passato i controlli in 15 minuti e ci hanno accolti con cibo, acqua e una sim card del nostro Paese di provenienza così che potessimo metterci in contatto con le nostre famiglie e avere un pacchetto dati”.

Il viaggio di Mahmut continua
Il viaggio di Mahmut è continuato prima verso Bratislava, fino a Bruxelles da dove mi parla, ospite di alcuni suoi amici palestinesi. “Li ho aiutati quando erano ad Istanbul, adesso, per quanto mi sembri assurdo, è il loro turno di ricambiare il favore”, commenta. Impossibile pensare al futuro, e soprattutto a dove avverrà.
“Sto cercando il modo di ottenere la protezione temporanea per i cittadini ucraini, ma forse per farlo dovrò spostarmi in Germania. Posseggo regolare permesso di soggiorno, e sebbene il loro dolore non sia paragonabile al mio, anche io ho perso casa, anzi, ho perso tutto. Mi spezza il cuore sapere che i miei amici, quella che era la mia famiglia in Ucraina, siano sparsi in diverse città e alcuni siano ancora sotto le bombe, specie ad Irpin. Prego per la loro incolumità. Siamo tutti ucraini, anche se abbiamo passaporti diversi”.
E sebbene si porti dietro il fardello di ciò che ha perso, la storia di Mahmut ha un lieto fine: negli ultimi giorni è arrivato in Germania, prima a Berlino, poi ad Amburgo, dove ha finalmente ottenuto il permesso di soggiorno tedesco. “Ringrazio tutte le persone che ho incontrato e che mi hanno aiutato, ma devo ammettere che l’assistenza in Belgio non sia stata delle migliori” mi scrive su Telegram. “Arrivato ad Amburgo non mi hanno chiesto altro che il permesso di soggiorno ucraino: solo adesso mi sento finalmente al sicuro dopo quasi 20 giorni di viaggio”.

Eleonora Masi
Fonte foto di copertina: Mahmut Kahrimanoğlu