Fast Fashion

“Fast Fashion”: cosa si cela dietro la moda low cost?

Fast fashion brands don’t want you to look beyond the fabric.

Con questa affermazione si apre “Fast Fashion: The Real Price of Low-Cost Fashion”, documentario diretto dal regista Gilles Bovon e dal giornalista investigativo Edouard Perrin. Parte della programmazione online del Terra di Tutti Film Festival, in proiezione mercoledì 6 ottobre 2021, il documentario si impegna invece a fare proprio questo: guardare oltre i singoli capi d’abbigliamento, svelando le complicate e spesso perverse dinamiche che ne governano la produzione.

Una definizione di fast fashion (in italiano “moda veloce”) è data all’inizio del cortometraggio da Nikolay Anguelov, professore di economia alla University of Massachussets Dartmouth: “Fast fashion is the commerce of very inexpensive clothing that you are expected – or you are ready – to replace very rapidly”. Secondo i dati citati, la quantità di capi di abbigliamento prodotta ogni anno si aggira attualmente intorno alle 56 milioni di tonnellate e in Europa gli acquisti, già duplicati rispetto agli inizi degli anni 2000, si stima cresceranno ulteriormente, e in maniera ancor più pronunciata, nel corso del decennio corrente. Su queste dinamiche il fast fashion esercita una pressione determinante: immettendo continuamente sul mercato prodotti nuovi a prezzi estremamente bassi, i brand low cost alimentano il desiderio delle persone di rinnovare con sempre maggior frequenza il proprio guardaroba; la qualità, peraltro scarsa, concorre poi a rendere di fatto necessario sostituire i capi acquistati dopo pochi utilizzi, generando un circolo vizioso divenuto ormai insostenibile da un punto di vista ambientale.

Il documentario scava negli angoli più profondi della macchina che sostiene questa industria, in un viaggio che parte da La Coruña, nel nord della Spagna, dove il concetto stesso di fast fashion ha preso forma sul finire degli anni ’60, grazie all’intuizione dell’imprenditore Amancio Ortega, fondatore di Zara. In un piccolo garage della cittadina galiziana, Ortega iniziò a disegnare e produrre capi d’abbigliamento che si ispiravano ai modelli dei marchi di lusso che la gente tanto sognava, vendendoli tuttavia a un prezzo significativamente inferiore. Iniziò così la missione di Zara di “democratizzare la moda”, rendendola accessibile a una fetta ben più ampia di potenziali consumatori di quanto non sarebbe altrimenti possibile; una missione che ha portato il brand spagnolo, oggi leader a livello mondiale, a dar vita a un sistema che gli permette di ideare nuovi modelli (65.000 all’anno, secondo il ricercatore in economia Christophe Alliot) a velocità irraggiungibili anche a gran parte della concorrenza.

La strategia di Zara si è rivelata vincente ed è stata copiata da un sempre crescente numero di brand: prezzi bassi, prodotti sempre nuovi, vetrine che si rinnovano di mese in mese (se non addirittura di settimana in settimana) invogliano consumatori e consumatrici a entrare nei negozi e comprare più di quanto realmente necessario.

Parlare di fast fashion ricorda immagini come quelle del crollo del Rana Plaza, l’edificio alla periferia di Dhaka, in Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento che producevano per rinomati marchi occidentali e dove migliaia di operai persero la vita il 24 aprile 2013. L’evento, che all’epoca sollevò le proteste dell’opinione pubblica internazionale, ispirò, tra l’altro, il movimento “Fashion Revolution“, che ogni anno in occasione dell’anniversario della tragedia promuove eventi in tutto il mondo nel nome di una moda più etica, sostenibile e umana.

Una scena del film “Fast Fashion: The Real Price of Low-Cost Fashion”

Ma condizioni di lavoro molto simili si trovano anche in Europa: il documentario fa tappa a Leicester, nel cuore dell’Inghilterra, ed entra nelle fabbriche del vecchio distretto tessile che, dopo la crisi del settore, è ritornato a produrre a pieno ritmo grazie alle commesse di marchi low cost come Boohoo e PrettyLittleThing. Anche qui uomini e donne lavorano fino a 10 ore al giorno, a 3 sterline all’ora (meno della metà del salario minimo stabilito dalla legge inglese), in edifici fatiscenti, senza riscaldamento, con le finestre oscurate, seguendo ritmi serrati per rispettare le rigide tabelle di marcia che stabiliscono che un capo debba essere confezionato e spedito al committente in una manciata di giorni.

Messi di fronte alle proprie condotte abusive, i grandi marchi spesso negano, o cercano vie d’uscita che salvaguardino la loro immagine. Lanciano collezioni “green”, affermano di usare materiali di riciclo, accordano piccoli aumenti salariali ai loro lavoratori: azioni che possono essere ritenute, nel migliore dei casi, un discreto punto di partenza, ma che non modificano la sostanza del loro pratiche commerciali.  

Una scena del film “Fast Fashion: The Real Price of Low-Cost Fashion”

The fashion industry wants us to believe that it will become sustainable, but in reality the opposite is happening”, ricorda il documentario. E per rompere il circolo vizioso che si è innescato non basteranno le richieste delle sempre più numerose voci a sostegno di un ritorno allo “slow fashion”, a una moda più lenta. I meccanismi da riformare sono molti, sia commerciali che psicologici. La presa di coscienza che il documentario “Fast Fashion” incoraggia è tuttavia un primo passo necessario nella direzione di una moda più consapevole del proprio impatto e di un consumo da parte nostra più attento.

Alessia Biondi

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