In presentazione al Terra di Tutti i Film Festival compare, tra le proposte, il documentario My body, their choice, di Lucy D’Cruz, il quale è stato inserito nella programmazione online del 4 ottobre. Lungometraggio che racconta storie di lotta delle donne in Argentina.
Da gennaio 2021 in Argentina è possibile abortire fino alla 14esima settimana di gestazione, ma la sua legalizzazione è frutto di un susseguirsi di battaglie politiche e ideologiche. La regista Lucy D’Cruz, insieme a Andrew Gold, giornalista della BBC, nel documentario My body, their choice, approfondiscono le posizioni pro life, contrarie al diritto all’aborto, e quelle pro choice, favorevoli, in Argentina.
Il documentario si apre con video e immagini delle manifestazioni del 2018, quando il parlamento fu chiamato per la prima volta a votare sulla legge a favore della legalizzazione dell’aborto, che non passò al Senato: i voti favorevoli furono 31, quelli contrari 38. Il Paese, soprattutto nelle settimane antecedenti al voto, era distrutto, diviso in due fazioni: da una parte i fazzoletti blu, un’elite cattolica tradizionalista che considera l’aborto un omicidio; dall’altra, i fazzoletti verdi, un crescente movimento di donne che combattono per il diritto a un aborto sicuro e legale.
Una delle figure ricorrenti è Mariana Varela, attivista anti-abortista, conosciuta nel paese con il nome di Crazy Baby Lady a causa dei suoi feti di plastica che porta con sé nelle manifestazioni pro life per dimostrare l’idea secondo cui un feto è un bambino, dunque l’aborto è omicidio, e la vita non è una scelta.
Dal dialogo con il giornalista Gold si può certamente notare la passione di Varela e l’attaccamento alle sue idee e posizioni; persino in caso di stupro, persino se la ragazza fosse sua figlia, Varela rimane convinta e “non ucciderebbe mai suo nipote”.
Varela, però, è un personaggio fortemente contestato dal movimento pro choice non soltanto per le sue idee anti-abortiste, ma anche perché le sue posizioni confliggono con alcuni aspetti controversi relativi all’operato della sua famiglia durante la dittatura degli anni 70’ in Argentina: suo padre, Alberto Rodriguez Varela, infatti, è pubblicamente accusato di essere complice della tortura e delle sparizioni, nonostante Mariana Varela precisi che non ci siano state alcune accuse penali.
Nonostante il forte impatto del movimento pro life, e nonostante l’aborto non fosse legale se non fino a pochi mesi fa, le interruzioni di gravidanza clandestine in Argentina sono numerorissime, effettuate in costose cliniche private oppure in strutture che non rispettano le norme di sicurezza, mettendo a repentaglio la salute delle donne.
La seconda intervistata, infatti, è proprio un’espatriata irlandese che ha subito un aborto illegale; per evitare che venga arrestata o espulsa dal paese, la sua identità resta anonima. Dopo aver scoperto di essere incinta, ha chiesto in ospedale quali fossero le sue opzioni, ma in Argentina, come le ha risposto il medico, “non ci sono opzioni”. E’ stata quindi costretta a recarsi in una clinica privata per avere una pillola abortiva, ma l’unica cosa che ha ricevuto è stato un video in cui la si voleva convincere che stava uccidendo il suo bambino, e stava compiendo l’errore più grande della sua vita. Alla fine, tramite contatti di famiglia, ha potuto effettuare l’aborto solamente pagando 1000 dollari e rischiando la propria vita a causa della non professionalità della struttura.
Per indagare sul ruolo di queste strutture, gli autori si recano in una finta clinica per aborti il cui fine non è di aiutare le donne che vogliono abortire, ma di scoraggiarle, perchè dopotutto “sono le madri del bambino, e c’è sempre un’altra via oltre l’aborto”.
Secondo la dottoressa Gabriela Luchetti, medico abortista, “il motivo è prettamente religioso, non c’è una razionalità, ma non si può imporre questa scelta a tutta l’Argentina. Se una donna vuole abortire, allora lo fa, ma non è possibile che ciò avvenga in condizioni inadeguate, e non è compito di una persona al senato decidere se può abortire o meno”. Molto spesso, infatti, secondo la dottoressa, viene dimenticata la facoltà e il diritto di scelta della donna, essendo la sua vita ciò di cui si sta decidendo; ci si concentra molto sul feto e sul bambino, dimenticandosi ciò che prova e vuole la donna.
Verso la fine del documentario, le immagini mostrano come, arrivati al giorno della votazione, fuori dal Senato la tensione tra i due movimenti è sempre più forte e in alcuni casi persino pericolosa, tanto che è intervenuta la polizia a sparare cannoni ad acqua e gas lacrimogeni sulla folla. Il verdetto del 2018 vede vincitori il movimento pro life, con il movimento dei fazzoletti verdi che non si dà per vinto ed è convinto di continuare a lottare, speranzoso.
Il lavoro combinato del giornalista Gold e della regista D’Cruz funziona armoniosamente: Gold ci insegna che, a prescindere delle proprie idee, rimane fondamentale il rispetto e il confronto con il proprio interlocutore. D’Cruz riesce invece, nonostante un tema così delicato, a raccogliere e raccontare tutte le voci e i protagonisti della storia, farli dialogare tra di loro creando un dibattito e un confronto, evitando così un racconto di parte e una presa di posizione troppo netta, lasciando spazio allo spettatore per decidere se e come posizionarsi.
Francesca Capoccia