Lo scorso settembre testate nazionali e internazionali avevano concesso notevole spazio alla notizia delle fiamme che avevano distrutto il campo governativo di Moria e l’accampamento informale che lo circondava, l’Uliveto. Come spesso accade, passata qualche settimana è passato anche l’interesse per l’isola di Lesvos e per le migliaia di persone che vi sono bloccate in condizioni di vita degradanti, senza la garanzia di accesso a servizi e infrastrutture. La crisi umanitaria provocata dalle scelte dell’Unione Europea in materia di migrazione e controllo delle frontiere, a partire dall’accordo con la Turchia del 2016 fino alla proposta per il Nuovo Patto sull’Asilo e l’Immigrazione, è ancora in atto. Essa si consuma negli hotspot, centri di identificazione e registrazione nei quali chi arriva è trattenuto per mesi, se non anni, a causa del meccanismo della procedura di frontiera e della conseguente restrizione geografica.
Il campo temporaneo di Mavrovouni, conosciuto come Moria 2.0, ospita attualmente circa 6mila persone. Costruito nell’area di un ex poligono di tiro, è stato allestito in tutta fretta dopo l’incendio di Moria, con il pretesto di evitare che le persone sfollate si riversassero nella vicina città di Mitilene e per scongiurare ulteriori tensioni con la popolazione locale, anche se in realtà, la costruzione di un nuovo campo completamente controllato era in programma da anni.
Gli altri centri presenti sull’isola, dall’esperienza autogestita di Pikpa al campo per persone vulnerabili di Kara Tepe I, sono stati progressivamente smantellati, concentrando di fatto la popolazione migrante all’interno di Mavrovouni, in cui sono stati dirottati fondi europei e personale, tra cui spicca la presenza di forze dell’ordine.

Il controllo sulla vita delle persone che transitano per le isole dell’Egeo è totale e facilitato dal sistema che impedisce de facto di vivere fuori dal campo. Anche se si presenta ufficialmente come open facility, il RIC (Reception and Identification Centre) è nella pratica un luogo chiuso: le norme di prevenzione Covid-19 sono state utilizzate per controllare e regolare le entrate e le uscite dal campo, ora ridotte a 4 ore a settimana per un componente familiare. Inoltre, durante lo svolgimento della procedura per richiedere la protezione internazionale non è data a livello legale la possibilità di lavorare né di prendere una casa in affitto sull’isola: l’accesso ad AMKA (social security number) e AFM (tax identification number) è praticamente impossibile. Ed essendo le persone costrette dalla restrizione geografica a non lasciare Lesvos, si crea un sistema di ricatto e dipendenza dai pochi servizi presenti nel campo (un sussidio mensile di 70€, un pasto assicurato al giorno, una tenda in cui dormire, una clinica d’emergenza e poco più). La privazione della libertà di movimento è privazione di capacità di scelta e autodeterminazione, in ogni fase del percorso migratorio.
La situazione nel nuovo campo rimane estremamente problematica: sovraffollamento, allagamenti, assenza di acqua corrente, servizi igienico-sanitari insufficienti, cibo scadente. Il tutto aggravato dalla pandemia, con un’area quarantena con una capienza massima di 200 persone, che è stata dotata solo nell’ultimo mese di allacci elettrici.

Campo di Mavrovouni dall’alto. Fonte: Ministero dell’Immigrazione greco
Donne migranti e salute materno-infantile: i soggetti vulnerabili nella nuova legge greca sull’asilo
Dall’entrata in vigore della nuova legge greca 4636/2019 sull’asilo, i soggetti vulnerabili non hanno più diritto ad accedere alla procedura di asilo regolare, che permetteva loro di raggiungere Atene. Questo comporta lo svolgimento della cosiddetta procedura di frontiera (fast-track procedure) e quindi l’obbligo di restare sull’isola fino al termine dell’esame della domanda d’asilo. Anche per loro quindi i tempi di permanenza sull’isola di Lesvos e quindi nel RIC di Mavrovouni vanno da alcuni mesi ad anni. La definizione dei gruppi vulnerabili fino al 2020 includeva minori non accompagnati, persone con una disabilità o affette da una malattia incurabile o grave, persone anziane, donne incinte o puerpere, genitori single con figli e figlie minori, vittime di tortura, di stupro o altre forme di violenza o sfruttamento psicologico, fisico o sessuale, persone con disturbo da stress post-traumatico, in particolare sopravvissuti o familiari di vittime di naufragi e vittime di traffico di esseri umani.
Attualmente nel campo vivono 130 donne gravide, alcune delle quali con gravidanze a rischio. Le condizioni di vita nel campo per loro sono particolarmente dure, a causa della scarsità di servizi igienici e di cibo adeguato. Nonostante ciò, queste donne, devono attendere mesi perchè la loro domanda di protezione internazionale venga accolta o respinta, con il solo sostegno di alcune ONG che forniscono aiuto psicologico e alcuni servizi di accompagnamento al parto e supporto all’allattamento al seno.
La Coordinatrice di uno di questi progetti ha raccontato a The Bottom Up quali sono le condizioni di vita nel campo, con un focus particolare sulla salute materno-infantile e sul preoccupante approccio emergenziale alla questione migratoria di istituzioni locali ed europee.
Da quasi un anno siete presenti a Lesvos con il vostro progetto di accompagnamento al parto e supporto all’allattamento al seno. Quali sono le persone che incontrate nel campo di Mavrovouni?
Il nostro progetto è rivolto a donne gravide e neo mamme, con le quali il nostro team di ostetriche costruisce un percorso a partire circa dal quinto mese di gravidanza, fino ad arrivare alla nascita, supportando le pratiche di alimentazione infantile suggerite dalle linee guida dell’OMS. Grazie all’aiuto di mediatrici culturali, raggiungiamo tutte le comunità presenti nel campo, in particolare quella afghana, la più numerosa, la somala, la siriana e la congolese. Organizziamo incontri di accompagnamento al parto che ci permettono di conoscere le varie tradizioni legate alla maternità e di creare un rapporto di fiducia con le donne che si consolida nei percorsi individuali successivi alla nascita. Ci confrontiamo sia con donne supportate dalla presenza della famiglia nel campo sia con donne che affrontano il percorso migratorio da sole, spesso segnato da abusi, violenze e sfruttamento.
Quali sono le loro condizioni di vita nel campo, dal punto di vista sia materiale che psicologico?
Nel RIC è stato creato un sistema per cui ogni semplice gesto risulta complicato da portare a termine: dal lavarsi e lavare i propri vestiti, cucinare, dormire, mangiare, leggere, prendersi cura di sé e degli altri. Le condizioni igienico-sanitarie continuano a restare inevitabilmente scarse nonostante i continui lavori di manutenzione. Ad esempio, iniziano ad esserci container in cui fare docce calde – bisogno per cui la popolazione si è fortemente battuta durante l’inverno – sufficienti unicamenti a permettere una doccia alla settimana. Inoltre la condizione di eterna attesa, senza nessuna aspettativa o progetto per il futuro, ha un peso psicologico indelebile, specie per le persone che passano anni e anni della loro vita dentro il sistema di carceri a cielo aperto. A maggior ragione la fase del post-parto è particolarmente delicata dal punto di vista della salute psico-fisica delle neo-mamme: molte di loro si trovano a combattere con depressione e amnesie.
Le infrastrutture e i servizi messi a disposizione, pensati nell’emergenza, si sono rivelati sufficienti ad accogliere le quasi 13mila persone presenti sull’isola dopo l’incendio di Moria?
Il campo, così come allestito nei mesi invernali, era completamente inadeguato per affrontare le intemperie delle isole dell’Egeo. Il vento, le forti piogge, il freddo hanno reso impossibile la vita delle persone che abitavano in tende non attrezzate per queste condizione atmosferiche. Il processo di winterization [preparazione del campo alle condizioni atmosferiche invernali, tramite lavori di canalizzazione e drenaggio delle acque piovane] del RIC è ancora in corso, quando ormai il caldo inizia già ad essere insopportabile e la necessità di zone ombreggiate diventa sempre più pressante. Mi è capitato durante l’inverno di dover attraversare gigantesche pozze che si formavano per allagamenti dopo le piogge e dividevano zone diverse del campo, quindi i residenti da servizi essenziali. Adesso che si avvicina l’estate, le pozzanghere si sono trasformate in rigagnoli stagnanti in cui proliferano mosche e insetti, impossibili da evitare.

Foto dell’autrice
Parlando di persone vulnerabili, nell’ultimo mese è stato chiuso il campo di Kara Tepe I, che garantiva condizioni di vita generalmente più dignitose. Le persone sono state poi spostate a Mavrovouni. Vengono loro forniti maggiori garanzie e servizi?
Il tema delle persone vulnerabili è particolarmente attuale: avrebbero per legge diritto a garanzie e servizi ad hoc, a seconda della loro vulnerabilità. Purtroppo però il governo greco continua a ridurre le categorie definite vulnerabili – ad esempio le donne gravide non fanno parte di queste – ed è inoltre complicato accedere al riconoscimento di questo status, che viene conferito dall’UNHCR, cioè L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
La privazione della libertà di movimento determina l’impossibilità per le persone che si trovano bloccate nelle isole dell’Egeo di decidere sulla propria vita, a partire dal soddisfacimento dei bisogni primari. Quali sono le maggiori difficoltà di chi in questi mesi avete incontrato e conosciuto?
Parlando di bisogni all’interno di questo contesto mi piace differenziare due livelli e ricordarli sempre entrambi, soprattutto in quanto sento la mia partecipazione attiva a questo sistema. Il primo bisogno è quello di un sistema di accoglienza diverso, che garantisca i diritti di richiedenti asilo e di rifugiatə, dal viaggio stesso alla possibilità di creare percorsi di autonomia e autodeterminazione, completamente inesistente in Grecia. In questo contesto, bisogna sempre tenere a mente che è da queste assenze che derivano effettivamente tutti i bisogni delle persone che sono costrette a vivere o sopravvivere per anni dentro gli hotspot.
Detto questo, i bisogni tangibili delle persone sono innumerevoli, a partire dall’assistenza legale, psicologica e medica, per arrivare alle attività educative. Credo che a partire dal 2015 si sia creato un sistema molto sviluppato e talvolta competitivo da parte dalle ONG sull’isola che riesce a rispondere nel concreto ai bisogni primari. Tuttavia, il meccanismo assistenzialista crea una one-way offer da parte di volontariə internazionali e conseguenti relazioni asimmetriche con chi beneficia dei progetti, dato che la possibilità di organizzare attività in maniera autonoma da parte di Rifugiatə e Richiedenti Asilo nel campo è molto limitata. Nonostante ciò, resistono alcune forme di autorganizzazione nel campo, da barbieri improvvisati a canali di controinformazione autogestiti, come la pagina instagram @moriamememachine e quella @nowyouseememoria.
Cos’è cambiato con l’avanzare della pandemia da Coronavirus? Come ha influito sul vostro lavoro e sul lavoro delle ONG che operano a Lesvos?
Il Covid-19 è stato il pretesto per permettere la definitiva transizione ad un campo di detenzione, continuamente controllato dalle forze dell’ordine e da cui è impossibile uscire senza particolari necessità, come ad esempio una visita medica. La contraddizione è particolarmente evidente in questo periodo perchè per i turisti le regole sanitarie sono allentate e permettono l’affollamento di spiagge e ristoranti, mentre per chi vive nel campo sono ancora in vigore regole sanitarie volte alla prevenzione pandemica molto rigide, che hanno come conseguenza la segregazione dei e delle migranti nel campo.
Lavorare in questo contesto è diventato ancora più complicato: da un lato, vi è una forte responsabilizzazione da parte di volontariə che seguono pedissequamente le disposizioni anti-Covid, per non essere vettori di contagio. Questo per noi significa non poter entrare nelle tende o farlo di rado, con problemi nel garantire spazi e momenti di privacy per le donne che incontriamo. Dall’altro, il processo di criminalizzazione delle ONG che lavorano con migranti e le forti limitazioni al diritto di associazione, alimentati in questi anni da tutte le forze politiche, sono stati facilitati dalla narrazione dei volontari internazionali come irresponsabili vettori della pandemia.
Sono molte le ONG e le associazioni presenti a Lesvos, che da anni operano in quel contesto e ne conoscono le dinamiche più profonde. Non credi che, oltre il lavoro che quotidianamente svolgono nel campo per provare a migliorare le condizioni di vita di chi vi è trattenuto, sarebbe loro compito denunciare le politiche sull’immigrazione dell’Unione Europea, che colpevolmente hanno creato e alimentano questo sistema?
A seguito dei processi di criminalizzazione e delle leggi create ad hoc per impedire a chi opera all’interno dei campi governativi di far uscire informazioni su quanto accade, è diventato sempre più rischioso sensibilizzare sulle condizione delle persone che vivono al loro interno e sul sistema che le causa. Chi decide di denunciare le politiche governative ed europee che alimentano la crisi umanitaria in atto nelle frontiere viene ostacolato in tutti i modi, anche attraverso il fomento delle ostilità da parte della popolazione locale, che sfociano spesso in veri e propri attacchi alle persone rifugiate e ai volontari. Decidere di esporsi diventa una scelta personale di volontari e operatrici, a seguito di periodi sul campo. In questo c’è una netta differenza tra le grandi e le piccole ONG, in quanto per queste ultime molto spesso non vi è alcuna possibilità di sostenere le spese legali derivanti da attività di advocacy. Personalmente, lo ritengo un dovere, limitato unicamente dalla tutela della sicurezza in primis delle persone con cui lavoro e con cui mi relaziono. Ciononostante, sensibilizzare cittadini europei sui nostri privilegi, a partire dalla libertà di movimento, e sulla possibilità di fare pressione e impattare sulle politiche europee resta assolutamente necessario.
Nuove mura nella fortezza Europa
Come abbiamo visto, l’inasprimento della legge sull’asilo greca da parte del governo a direzione Nuova Democrazia complica ulteriormente il sistema di riconoscimento della protezione internazionale, obbligando migliaia di persone, tra cui soggetti vulnerabili, a vivere per anni in condizioni degradanti. Quello in atto nelle isole dell’Egeo è un modello di gestione dei flussi migratori che mira a velocizzare le procedure tramite la creazione di carceri a cielo aperto in cui vige in regime di detenzione e controllo totale sulla vita delle persone. La tutela della salute materno-infantile, così come altri servizi primari, vengono delegati alle ONG presenti sull’isola, costantemente ostacolate nel loro lavoro e con risorse limitate. L’innalzamento di nuove mura nella fortezza Europa è funzionale a un sistema di sfruttamento, violenze e privazione delle libertà, prima fra tutte quella di movimento. Il sistema hotspot, che nella proposta per la Nuova legge europea sull’Asilo e l’Immigrazione è esteso a tutti i luoghi di frontiera, produce violazioni dei diritti umani e un costante stato di crisi ed emergenza, senza fornire risposte strutturali a un processo articolato come quello migratorio.
Caterina Del Bello
Foto di copertina: AP Photo/Panagiotis Balaskas via Il Manifesto