Conflitto in Etiopia: dove la tensione politica è sfociata in una crisi umanitaria

Tra il 3 e il 4 novembre il Primo Ministro etiope, Abiy Ahmed, ha ordinato  un’offensiva militare contro il Tigrai, regione nel nord del Paese, dopo il presunto attacco delle forze regionali leali al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (Tplf) contro l’esercito centrale dello Stato federale. Questo conflitto ha radici profonde, in quanto è figlio di un cambio degli equilibri di potere avvenuto nel 2018 con l’elezione di Abiy Ahmed, di origine oromo, uno dei gruppi etnici presenti in Etiopia. Fino a quel momento la coalizione di governo etiope aveva visto un ruolo egemonico del Tplf, organizzazione politica che di fatto ha controllato l’Etiopia dal 1991, dopo la caduta della dittatura militare del Governo militare provvisorio dell’Etiopia socialista (Derg). Il cambio radicale di potere avvenuto nel 2018 è l’avvio di una crisi che però ha ragioni più numerose e complesse.

Mappa Etiopia, regione Tigrai.
Nella mappa è indicata la regione del Tigrai, a nord dello Stato etiope. Fonte: Agenzia Habeshia

A seguito dell’offensiva militare del 3 e 4 novembre contro la regione del Tigrai, le stesse truppe federali hanno lanciato operazioni di terra e aeree contro Tplf, uccidendo migliaia di persone  e spingendone altrettante a fuggire nel vicino Sudan. La scorsa settimana il Abiy Ahmed ha dichiarato che le forze centrali hanno preso il controllo di Macallè, la capitale della regione del Tigrè, ma ora il pericolo è che il conflitto tra le due parti entri in una nuova fase: quella della guerriglia. Le ostilità durano da quasi un mese, e potrebbero avere delle conseguenze economiche, sociali e umanitarie disastrose per il Paese, ma non solo.

Le tappe della crisi militare attuale

  • 1974: Viene fondato il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (Tplf) da 7 studenti universitari tigrini appartenenti al movimento politico clandestino dell’Organizzazione Nazionale Tigrina, con l’intento di combattere il regime feudale dell’Imperatore Hailé Selassié.

    Inoltre scoppia guerra civile condotta dal Derg, giunta militare di stampo marxista-leninista, che depose l’imperatore Hailé Selassié.

  • 1991: Viene destituito il potere militare del Derg (nel frattempo confluito nella Repubblica Democratica Popolare d’Etiopia) e il TPLF giunto al potere forma un governo di transizione con gli altri due movimenti armati: il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF).

  • 1996: I tigrini instaurano un regime dittatoriale controllando il Paese. Gli alleati del EPRDF diventano delle semplici marionette.

  • 2018: Abiy Ahmed Ali, presidente dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo (ODPO), uno dei quattro partiti della coalizione di governo, è stato votato leader dell’EPRDF, assumendo il ruolo di primo ministro designato.

  • 2020: Ad aprile il Primo Ministro Abiy Ahmed rinvia le elezioni previste per agosto. Il partito tigrino (Tplf) si oppone a questo rinvio organizzando ugualmente una consultazione elettorale a settembre. Le relazioni tra tigrini e governo centrale diventano ancora più tese, fino all’attacco del 4 novembre.

    Abbiamo intervistato don Mussie Zerai, prete cattolico e attivista di nazionalità eritrea, fondatore dell’Agenzia Habeshia e da anni attivo come punto di riferimento per le persone che dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia e da altri Paesi del Corno d’Africa migrano verso l’Europa. Nel 2015 è stato candidato al Premio Nobel per la pace per il suo impegno in difesa dei diritti e della vita stessa di richiedenti asilo e migranti in fuga nel Mediterraneo.

    “E’ complicato spiegare le dinamiche in corso”, dichiara, “perché c’è una forte tensione tra una regione (il Tigrai n.d.r.) e lo Stato centrale che si trascinava da più di due anni ormai. Lo strappo finale è stato rappresentato dalle elezioni che si sono tenute nella regione nonostante il parere contrario dello Stato centrale.” Don Zerai si riferisce alla tornata elettorale che ha scatenato la violenta crisi tra la regione del Tigrai e il governo federale.

    Le elezioni generali erano previste in Etiopia per maggio, poi per il 16 agosto, rimandate ancora al 29 dello stesso mese e ora a data da destinarsi dal Primo Ministro Abiy Ahmed che ha attribuito le posticipazioni alle difficoltà poste dalla pandemia da Coronavirus in corso. Questi rimandi hanno scatenato forti lamentele da parte del governo della regione del Tigrai e di altre amministrazioni regionali, come lo Stato regionale dell’Oromia, che sostengono che la posticipazione elettorale rappresenti una modalità illegale per estendere il mandato del Primo Ministro Ahmed. Infatti, sempre secondo don Zerai, il regime federale etiope sta usando questa guerra “parlando ai ciechi per far udire i sordi”, cioè il regime federale sta usando la violenza per “dare una lezione” alle altre regioni dell’Etiopia che hanno minacciato di indire elezioni regionali nonostante la decisione federale di posticiparle, alimentando il clima separatista all’interno del Paese.

    Don Mussie Zerai spiega che ci sono molte ribellioni frazioniste tra le regioni che compongono l’Etiopia, in cui ognuna rivendica la propria indipendenza avvalendosi anche alla Costituzione che, all’Articolo 39, afferma il diritto incondizionato all’autodeterminazione, compreso il diritto di secessione, per ogni nazione, nazionalità e popolo in Etiopia. E in questo senso questo conflitto armato può rappresentare una dura presa di posizione e un ammonimento per le altre regioni verso l’unità del Paese e non la frammentazione.

    In questa manifestazione di violenza ci sono poi sicuramente anche interessi esterni: “oggi l’Etiopia è alleata con il regime eritreo, regime che ha a sua volta da rivendicare i territori non liberati, contesi nella guerra tra Eritrea ed Etiopia del ’98-2000, è una sorta di rivalsa per quello che è accaduto più di 20 anni fa”, riferendosi alla sanguinosa guerra combattuta tra i due Paesi per questioni di definizione dei confini.

    Le conseguenze umanitarie

    L’Etiopia si trova in una regione il cui equilibrio è molto delicato e il conflitto che si scaglia sul Paese da ormai circa un mese potrebbe avere delle conseguenze drammatiche a livello umanitario. “Io spero che si fermino al più presto con questa guerra”, afferma don Mussie Zerai, “perché abbiamo già superato gli oltre 50mila profughi rifugiatisi in Sudan. Se si prolunga il conflitto il rischio è che ci saranno migliaia e migliaia di persone che fuggiranno, tra cui anche gli eritrei che si erano rifugiati nel Tigrai cercando di raggiungere luoghi più sicuri”. Attualmente infatti nella regione ci sono circa 100mila profughi eritrei che vivono da anni in un totale di quattro campi profughi gestiti dall’UNHCR e situati a Adi Harush, Mai Aini, Hitsats e Shimelba. Queste persone non riescono a tornare in Eritrea perché sono fuggite dal regime attuale che sta al governo. Nonostante gli accordi di pace  firmati con l’Etiopia due anni fa, la questione interna rispetto ai diritti umani in Eritrea è ancora grave. “Le libertà fondamentali non sono rispettate e il servizio militare a tempo indeterminato obbliga le persone a scappare. Con l’accordo di pace (n.d.r.) non è cambiato nulla a livello di diritti, perciò le persone non tornano in Eritrea.”

     “Il Paese più vicino è il Sudan, ma una volta arrivate qui le persone che stanno migrando continueranno, probabilmente, il loro percorso verso la Libia o verso l’Egitto, per cercare di raggiungere l’Europa. Questo conflitto porterà ancora più disperati nelle mani dei trafficanti che ne approfitteranno e li caricheranno sui barconi, facendo loro rischiare la vita nel Mediterraneo. Se questa pressione non si ferma e, soprattutto, se una volta terminata la violenza non si accudiscono i profughi in Sudan riportandoli a casa e garantendo loro diritti e i necessari risarcimento, l’Europa vedrà di nuovo un enorme flusso migratorio”.

    Profughi provenienti dal Tigrai al confine tra Etiopia e Sudan. Fonte: Nariman el Mofty, Ap/LaPresse/ via Internazionale

    Don Zerai denuncia, ancora, le condizioni disumane che questo nuovo conflitto sta accentuando, infatti afferma che la comunicazione è scarsa e difficile, ma le notizie che arrivano dai profughi eritrei rifugiati in Etiopia sono aberranti. “Stanno facendo la fame, non arrivano aiuti perché molte zone sono bloccate” racconta, “aggiungo un appello per aprire corridoi umanitari che possano portare gli aiuti necessari per la sopravvivenza nei campi. L’acqua non arriva più e le strade sono chiuse e bloccate dai bombardamenti. Il conflitto è aperto e chi trasporta l’acqua e i viveri non vuole più rischiare la propria vita. Le persone che sono nei campi profughi nella regione del Tigrai stanno facendo la fame, bevono l’acqua dei ruscelli che passano in quella zona con il rischio di ammalarsi, perché si tratta di acque non controllate in cui viene buttato di tutto.”  Il 2 dicembre Addis Abeba ha dato un primo segno di apertura alle Nazioni Unite  di entrare nel Tigrai per portare aiuti umanitari a rifugiati e sfollati, questo è un primo passo, ma potrebbe non bastare.

    “Chi soffre e paga il presso più alto è sempre la gente comune, la gente più povera e più vulnerabile. Anche in questa guerra i disastri li vedremo nel lungo periodo. Quante persone avranno perso i propri cari, ci saranno stati molti morti e le zone colpite dai bombardamenti saranno distrutte, lasciando le persone senza casa e senza bestiame.”

    Covid-19: un elemento che rende la rotta migratoria ancora più pericolosa

    “La pandemia da Coronavirus in corso si aggiunge come difficoltà”, spiega don Zerai, “ma allo stesso tempo la difficile situazione sanitaria in cui versa il mondo non ha fermato la guerra. Le persone disperate e costrette a fuggire non staranno ferme, ma fronteggeranno più ostacoli. Questa si aggiunge come difficoltà ad un percorso migratorio già difficile di per sé. Le persone si ammaleranno e nessuno si prenderà cura di loro perché a nessuno interessa la salute di queste persone in viaggio.” Ogni paese di transito, per le persone che partono dall’Etiopia o dai Paesi del Corno d’Africa, possiede delle leggi per difendersi dal Covid e altre leggi per difendersi dall’immigrazione cosiddetta illegale, ma chi fugge non guarda le leggi, cerca un posto sicuro per sé e per la propria famiglia.

    Le rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo stanno cambiando e stanno diventando sempre più pericolose. Il flusso che prima arrivava dalla Libia è diminuito, perché questa è diventata un inferno a cielo aperto. Molte persone cercano altre vie, infatti è aumentato il flusso verso la Spagna, in particolare attraverso la nuova rotta delle Canarie.

    Una situazione complicata quella in cui si inserisce il conflitto etiope, figlio di tensioni più profonde e datate. Un conflitto che non complica solo le fragili dinamiche geopolitiche della regione, ma che rischia di essere, e ormai già è, un disastro umanitario per centinaia di migliaia di persone obbligate a fuggire e vivere in condizioni di disumanità.   

    Anna Toniolo

    Immagine di copertina via Africarivista.it

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