Oltre lo stigma della prostituzione: per una corretta narrazione della comunità transgender

Elena D’Epiro è un’attivista e su Instagram gestisce la pagina trans.fakenews. In esclusiva per The Bottom Up ha scritto questa riflessione su cosa vuol dire essere una persona transgender e sugli errori e le cattive rappresentazioni che stampa, media e opinione pubblica continuano a perpetuare, rinforzando stereotipi sbagliati e nocivi.

Chi siamo: la nostra identità di genere

Nella mia università si fanno molti lavori di gruppo. In una di queste occasioni, ci rimasi male quando vidi che le altre ragazze si cercavano, facevano squadra. Ancora non potevano sapere di me: mi vestivo ancora al maschile, non avevo fatto coming out e non avevano pertanto modo di riconoscermi come una donna, come una di loro. 

Flash forward: anno nuovo, altro lavoro di gruppo. Questa volta, dopo aver iniziato a presentarmi pubblicamente come donna, ho lavorato con altre ragazze ricevendo quel riconoscimento sociale di donna che tanto bramavo. È stata una delle esperienze più belle che ho vissuto in quel periodo. Esprimevo quel che ero, sentivo l’affinità con le ragazze, l’intesa e la complicità femminile. Le pause pranzo con loro, lo studio assieme, le classiche chiacchierate tra ragazze. Ero nel mio mondo: io, una donna, riconosciuta come tale dalle altre

Questo è, nella sostanza, il percorso di transizione di genere e il suo obiettivo finale. Ed è questa l’idea che vorremmo trasmettere alle altre persone. Eppure, quando ho conosciuto il mio ragazzo, faceva moltissima fatica ad usare la parola “trans”, perché la società, la cultura, il mondo della comunicazione e tutto ciò che fino a quel momento aveva incontrato gli suggerivano solamente l’equazione “trans = prostituzione”, “trans = maschio travestito”. Soltanto a contatto con me ha avuto l’opportunità di scoprire la realtà dei fatti, di scoprire che siamo persone come tutte le altre, di conoscere una ragazza che vuole amare, fare dei progetti di vita di coppia, pensare al matrimonio, ai figli e a tutte le cose che farebbe una qualsiasi altra donna. Tutto il contrario dell’idea comune, che continuamente rimbalza da un media ad un altro, da una persona all’altra, che ci vede invece come persone dedite alle feste, alla promiscuità, alla sessualità e alla prostituzione.

Lo stigma della prostituzione 

L’accostamento con la prostituzione è lo stigma per eccellenza. Così forte che quando si incontra una ragazza trans spesso si dà per scontato che si prostituisca, o che sia comunque pronta ad una prestazione. Tant’è che davanti al rifiuto, con espressione incredula, alcuni rispondono “Ma non sei una trans?”. Vero è che la prostituzione, come ci ricorda Porpora Marcasciano, storica protagonista del transfemminismo italiano, ha avuto un ruolo chiave per la sopravvivenza di intere generazioni di donne trans, e lo conserva tutt’ora. Quello che non funziona nell’equazione è che, mentre le persone ci vedono tutte come ricche escort, appassionate del lavoro e dedite ad uno stile di vita, quasi una religione, la realtà è piuttosto diversa. La prostituzione si esercita per le strade o negli appartamenti per sbarcare il lunario, lontana dai salotti o da ambienti altolocati che si sentono nominare quando il politico di turno, o il rampollo di una nota famiglia di industriali, viene coinvolto in qualche scandalo a luci rosse. Questa narrazione porta le persone ad associazioni sbagliate e dannose. Sbagliate perché, raccontando solo episodi di questo tipo, sembra che il mondo trans finisca lì: una comunità di prostitute ricche e privilegiate. Anche in questo caso la rappresentazione capovolge i fatti. Nella realtà, la ragazza trans che si prostituisce magari è una persona immigrata senza documenti, non ha particolari titoli di studio e si vede respinta dal mercato del lavoro. Allora, come ultima soluzione, batte la strada o si prostituisce negli appartamenti, esponendosi anche a rischi sanitari e ad aggressioni. Si parla di persone che non hanno il supporto della famiglia, dello Stato, ma solo, a volte, di qualche associazione. Le ragazze che si prostituiscono, spesso, non hanno altra scelta. Sono persone che avrebbero bisogno di progetti per l’inserimento nel mercato del lavoro tramite canali protetti, progetti integrati e coordinati (associazioni, datori di lavoro, istituzioni pubbliche). Servirebbero politiche ad hoc, così come avviene per altre categorie simili.

Le idee, gli esempi, i percorsi delle cooperative sociali e dell’impresa sociale ci sono e sono lì per chi ha problemi simili legati alla rappresentazione e allo svantaggio sociale. Quello che voglio dire è che determinate associazioni mentali sono dannose perché quale politico o ente pubblico si impegnerebbe se il suo elettorato considera le persone trans come escort privilegiate e se chi va nei salotti televisivi o sui giornali non fa altro che alimentare questa retorica? Trovo incredibile come certe rappresentazioni non siano solo sbagliate, ma così scontate, involontarie e interiorizzate che, quasi quasi, nemmeno si può rimproverare una persona che, senza riflettere, si esprime in questi termini. Questo ci fa capire una grande verità: siamo di fronte a problemi sistemici la cui risoluzione deve andare alla loro base, e non dirigersi solo nei confronti di un terminale finale, di una loro conseguenza.

E chi non si prostituisce? 

La comunità trans non è solo prostituzione. C’è chi ha la fortuna di avere l’appoggio della famiglia, o magari è giovane e studia all’università, o ha già un lavoro stabile. Allora, seppur competitivo nel mercato del lavoro, deve affrontare un’altra serie di dinamiche. A tal proposito, mi è capitato di ascoltare una persona che si occupa di diversity nelle aziende e ha proprio sottolineato come il linguaggio e la rappresentazione stereotipata di una categoria abbiano un impatto molto forte, amplificato dai social media che fungono da cassa di risonanza.

Insomma, chi lavora alle risorse umane, ad esempio, trovandosi di fronte una persona trans, tende a tirare fuori tutta una serie di bias dannosi, anche se a volte inconsci. Chi ti fa il colloquio è una persona che, come una spugna, ha assorbito negli anni una serie di messaggi negativi, anche quelli veicolati dal più insignificante degli sketch comici – e vi assicuro che ve n’è almeno uno per ogni serie tv vecchia almeno dieci anni. “Two And A Half Men”, “Doctor House”,“How I Met Your Mother“, “The Big Bang Theory”, tutte serie che accompagnano la vita di generazioni. E allo stesso modo, nel cinema, la transfobia è ampiamente usata per far ridere (per approfondire vi suggerisco il documentario “Disclosure”). 

Le persone di certo non sono macchine: assorbono messaggi sbagliati, rappresentazioni fuorvianti e se le portano dietro nella vita di tutti i giorni. E tra quelle persone c’è il controllore del tuo l’abbonamento del bus, l’impiegato di un ufficio a cui dovrai mostrare il documento non rettificato, i tuoi genitori, i passanti che incontri girando in città e la persona che vorrebbe una relazione con te, ma ancora non sa che sei trans. Tutto questo provoca grandi difficoltà. Non è un caso, come ci dice il report “Io sono Io lavoro” di Arcigay, che il 45% delle persone trans si vedono discriminate a causa della propria identità di genere sul luogo di lavoro. Stigma, mancanza di opportunità, mancanza di piena partecipazione alla società sono i maggiori fattori di rischio. Non potrebbe essere diversamente. Ci sono ricerche che mostrano come alcuni parametri (tendenza al suicidio, alla depressione) sarebbero di molto ridotti se soltanto la persona venisse chiamata con i pronomi conformi alla sua identità di genere o se fosse possibile una minore esposizione a media che veicolano messaggi transfobici. Ma la società non va in questa direzione. Viene proprio da dire che esiste una sorta di segregazionismo strisciante, non visibile agli occhi, ai quattro sensi: perché, intendiamoci, non esistono cartelli con scritto “vietato l’ingresso alle persone trans”, ma chi indossa le giuste lenti può percepire che questa società non è inclusiva, non ci rende pari e che, anzi, pare voglia barricare le persone dentro le rispettive comunità di appartenenza, dentro ghetti sociali ed intellettuali. Cosa è emerso dall’atteggiamento dell’opposizione nel recente dibattito sul Ddl Zan? O esisti come dicono loro, nell’anormalità e nel bizzarro, o non devi esistere affatto

Dobbiamo agire secondo un metodo inclusivo

Si sa che le convinzioni di gruppo si autoalimentano, e che ciò vale anche a livello individuale. Il pensiero di gruppo si rafforza e diventa quasi impermeabile a quello che accadde nella realtà dei fatti. Le persone tendono a valutare il cambiamento soltanto in base a come inciderà su di loro, senza guardare all’orizzonte più ampio. 

Allora, il primo passo necessario è l’empatia, ovvero quel sentimento per cui si è portati a chiedersi “cosa hanno fatto di male queste persone per meritarsi questo?” Ma da solo non basta. Bisogna anche sviluppare una consapevolezza per cui si matura e si prende coscienza di tutte le problematiche sottostanti. Infine, serve la volontà di superare per davvero tutti quei preconcetti che spesso sono interiorizzati ma che continuiamo ad esprimere. La volontà di ascoltare, di informarsi, di dibattere e di essere intellettualmente onesti. Fidarsi, dare credito ad approcci diversi: perché se una persona trans ti dice che una cosa non va bene e la fa star male, vuol dire che quella cosa non è per niente bella da leggere e da sentire. Chiunque voglia raccontare un tema o si trovi a prendere decisioni che influiranno su una minoranza (una legge, un provvedimento economico, qualsiasi altra politica che la riguardi) deve fare un percorso. Soltanto una sensibilità di base non basta: rischia di rendere la narrazione autoreferenziale, di intendere le cose secondo il proprio punto di vista. Si finisce, a fronte di errori anche gravi, per premiare eccessivamente lo sforzo di chi comunque non ha ancora acquisito il giusto focus. E bisogna anche tenere conto di tutta una serie di reazioni di un sistema che ti vuole concedere un dito, ma non il braccio. Per affrontare tutte queste dinamiche intrecciate, che in parte ho provato ad esporvi, è pertanto fondamentale un metodo inclusivo. Il che non significa conoscere ogni cosa riguardo a tutte le minoranze, bensì essere disposti a ragionare secondo definizioni aperte, capire che non viviamo in un mondo dove uno più uno fa necessariamente due, dove tutto è bianco o nero, immobile, immutabile, predefinito. Non possiamo sapere tutto, ma è importante imparare a muoversi tra orientamenti vari, districarsi tra una quantità incredibile di grigi e capire, caso per caso, quale grigio è più efficace o più corretto in quella particolare situazione. Dobbiamo cogliere che le persone si autodefiniscono in modo dinamico nel tempo e, perciò, bisogna includere nuovi e diversi modi di elaborare concetti e idee, man mano che si scoprono. La persona inclusiva la riconosci perché ti aprirà le porte, cercherà di semplificarti la vita e di capirti, anche se non ha mai provato sulla propria pelle cosa voglia dire vivere nella tua. 

Elena D’Epiro

Fonte immagine di copertina: nanopress.it

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