Khadega Mohammed è la prima ad essere inquadrata dalla telecamera: in ginocchio, in mezzo ad una stanza, legge dal suo cellulare una delle poesie che ha scritto con passione. È la storia di una ragazza, come tante, che è nata e cresciuta nella terra dove tutto è possibile: l’America. Ma le sue origini vanno ben oltre l’essere americana; la sua famiglia è originaria del Sudan, da dove è dovuta scappare durante la guerra civile. Lo stesso vale per il giovane rapper Ramey, nato da genitori sudanesi in Egitto, ma cresciuto a Brooklyn.
In Revolution from Afar, in proiezione al Terra di Tutti Film Festival domenica 11 ottobre 2020, una ventina di ragazzi e ragazze si interrogano sulla loro identità multiculturale e il regista americano Bentley Brown dietro la telecamera riprende le loro vite e le loro discussioni. Cosa significa essere sudanese in America? Che cosa possono testimoniare questi giovani delle nuove generazioni, nati e cresciuti in un limbo, lontani dalla loro terra d’origine ma non totalmente accettati dalla cultura acquisita?
Il 30 giugno del 1989, con un colpo di stato Omar al-Bashir impose il suo regime militare. Il conflitto contro il SPLA (Sudan People’s Liberation Army) non si arrestò, la Sharia (legge sacra dell’islamismo basata su norme e obblighi da rispettare) fu estesa anche alle regioni meridionali e il Paese crollò nel caos per l’ennesima volta. Il popolo sudanese è purtroppo abituato alla guerra, alla repressione e alla morte, ma è anche sempre stato capace di ribellarsi alle dittature: le settimane fra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 ha segnato l’inizio della fine di Omar al-Bashir.
Una rivolta pacifica ma potente, carica di significati e capace di attraversare i confini sudanesi e risuonare in America, dove tanti altri giovani come Khadega e Ramey stanno aspettando da tempo la fine di questo regime e da tempo parlano dei conflitti nella loro terra a chiunque è disposto ad ascoltare. Revolution from Afar è il grido di lotta pacifico di queste persone, che, pur non potendo fisicamente partecipare alla rivoluzione in atto in Sudan, sentono la necessità di dare il proprio contributo, attraverso poesie e canzoni, interrogandosi su quale possa essere il proprio ruolo nella vicenda.
Grazie alle parole della poetessa Bayadir Osman, della musica di Sinkane e del rapper G-Salih, lo spettatore comprende il senso di colpa per non poter essere presenti durante la rivoluzione e, allo stesso tempo, la necessità di essere un’ispirazione per altri giovani, la responsabilità e l’importanza di parlare del Sudan.
Nel corso del docufilm, i ragazzi raccontano che cosa hanno provato quando hanno ricevuto la notizia che, dopo 30 anni al potere, al-Bashir era finalmente stato destituito. Tutti questi giovani testimoniano la multiculturalità del Sudan, una terra ospitale ed eterogenea che nell’ultimo secolo è caduta sotto il controllo di dittature e regimi repressivi. Si alternano scene delle proteste in strada a Khartoum, capitale del Sudan, e incontri, feste e spettacoli dei ragazzi sudanesi in America.
The Martyr’s Song del rapper Ramey Dawoud viene riproposta spesso nel corso di questi spettacoli e racchiude quante più emozioni possibile legate alla perdita di un membro della famiglia a causa di pallottole volanti e alla rabbia di non poter cantare nelle strade con la sua gente. L’utilizzo della lingua sudanese nella canzone vuole scandire un senso di appartenenza della quale il cantautore si è spesso sentito privato. Quando in cerchio i ragazzi si interrogano a vicenda sul significato della loro identità, ognuno ha il suo parere personale, ma il filo conduttore che li collega è il sentirsi frammentati.
Il tema ricorrente nella letteratura e nella musica degli esiliati è il concetto di eredità. Si parla spesso di eredità verticale, quella proveniente dagli antenati e legata alle tradizioni familiari, e orizzontale, che indica invece il contatto con la contemporaneità. Il regista cerca di mostrare questo compromesso ed equilibrio di più eredità diverse personificate nei giovani delle nuove generazioni. Il bianco e nero sottolinea la carica emotiva sottesa alle azioni di ognuno di loro e la musica si alterna, fra canti popolari di rivolta a canzoni rap di oggi.
Il testo della canzone del musicista Sinkane, Ya Sudan, è emblematico nel mostrare questo continuo interrogarsi sul proprio passato e sul proprio futuro cercando di stabilire una connessione e di ritrovare quei pezzi frammentati di identità attraverso la musica e l’incontro con l’altro. Questo ci invita a fare il regista: aprirci al diverso, imparare dalle esperienze degli altri e ascoltare cosa loro hanno da dirci.
Lucrezia Quadri
Fonte immagine di copertina: Aboudigin Films