Settimana scorsa è morto un ragazzo albanese. Aveva 28 anni.
E non riuscivo a capire perché la cosa mi toccasse tanto.
È morto in mano allo stato. Una settimana fa stava bene, una settimana fa aveva 28 anni.
E adesso avrà 28 anni per sempre.
(da “Morti di stato”. Un contributo da Bolzano, sull’ennesima morte in un Cpr).
Gradisca, una storia che si ripete
Lo scorso 14 luglio, un uomo di 28 anni di origini albanesi, Orgest Turia, è stato ritrovato senza vita nella sua cella di isolamento nel Cpr di Gradisca d’Isonzo (GO), mentre vi trascorreva la quarantena. Un suo compagno di “stanza”, in stato di semi-incoscienza, ha dovuto essere trasferito d’urgenza in ospedale per essere ricoverato in terapia intensiva.
L’ipotesi, dopo una prima, affrettata versione in cui si è parlato di omicidio seguito da un tentativo di suicidio, è abuso di psicofarmaci, ma la realtà è che le cause del decesso rimangono “da accertare”, come puntualmente annotato nel Dossier “Morire di carcere” curato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti, aggiornato al 28 luglio 2020. Soprattutto, rimangono da chiarire le responsabilità dell’eventuale overdose. All’interno dei Cpr, la somministrazione di psicofarmaci non è una novità, una pratica denunciata da molta letteratura specialistica, come ad esempio nella ricerca “Uscita di emergenza. La tutela della salute dei trattenuti nel C.P.R. di Torino”, condotta dalla Human Rights and Migration Law Clinic (HRMLC) di Torino.
Nelle ore successive al decesso, in varie zone del Cpr sono stati appiccati incendi di protesta, come attesta il video diffuso dalla rete “No Cpr e no frontiere – FVG”, che contribuisce a raccogliere e diffondere le testimonianze dei trattenuti. Testimonianze preziose, frammenti di luce nel cono d’ombra che caratterizza questi luoghi, dove agli “ospiti”, locuzione impropria quanto abusata, viene spesso requisito il telefono cellulare, soprattutto se fornito di fotocamera, per impedire la comunicazione con l’esterno. Secondo quanto riportato dalle e dai solidali dell’Assemblea “No Cpr”, la situazione all’interno della struttura è molto tesa: la rabbia per la morte di Orgest Turia e la paura per la propria incolumità hanno portato a rivolte, atti di autolesionismo e nuovi scioperi della fame, puntualmente sedati con la forza:
“In generale, i detenuti ci parlano di condizioni esasperanti e di trattamenti mai subiti, nemmeno in carcere, per chi di loro ci è stato. Molti di loro non riescono a dormire, né a mangiare. Gli incendi per protesta sono all’ordine del giorno e molti di loro finiscono per respirare molto fumo e stare male anche per questa ragione. Stando a quanto ci raccontano, le conseguenze per gli atti di protesta sono quasi sempre pestaggi da parte delle guardie del centro e vari atti intimidatori, tra cui denunce per resistenza a pubblico ufficiale o danneggiamento.”
Dai racconti arrivati dall’interno del Centro, tra venerdì 24 luglio e domenica 26 le proteste sarebbero state represse in maniera particolarmente violenta. In seguito ai pestaggi delle forze dell’ordine, quattordici persone sarebbero state deportate, tutti cittadini tunisini. La volontà di riprendere ad effettuare rimpatri, dopo il lungo stop imposto dall’emergenza pandemica, è stata confermata in una recente intervista dalla Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, con particolare riferimento proprio all’aumento di sbarchi autonomi di migranti tunisini a Lampedusa, dove l’hotspot di contrada Imbriacola, che potrebbe ospitare al massimo duecento persone, è arrivato a contenerne quasi mille. Purtroppo, nulla di nuovo. Tuttavia, è impossibile non notare l’inquietante risonanza con quanto successo dopo la morte di Vakhtang Enukidze, quando alcuni cittadini egiziani, ascoltati come testimoni dal deputato di +Europa Riccardo Magi durante alcune visite ispettive, furono rimpatriati in tutta fretta nell’Egitto di al-Sisi.

Due morti in sette mesi. Il Cpr di Gradisca, gestito dalla cooperativa padovana Edeco – la stessa del centro di accoglienza di Conetta, dove morì Sandrine Bakayoko, già indagata per truffa, falso e maltrattamenti –, strategicamente collocato in un luogo di transito, quello del confine orientale, ha riaperto a dicembre 2019, dopo un periodo di inattività determinato dalle rivolte scoppiate nell’allora Cie nel 2013. Anche in quell’occasione, una persona perse la vita, Majid El Kodra.
I Cpr, una breve ricostruzione
La riapertura dell’ex caserma Polonio di Gradisca, riconvertita in Cpr, si inserisce nel progetto di estensione della rete dei centri per il rimpatrio voluta dal decreto-legge 13/2017, meglio conosciuto come decreto Minniti-Orlando, che ne cambiò la denominazione. Non più Cie – Centro di identificazione ed espulsione -, ma Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio. Ai centri allora attivi sul territorio nazionale (nel 2017, Torino, Roma – l’unico ad avere una sezione femminile -, Caltanissetta, Brindisi Restinco) si aggiungono così Trapani, Bari e Palazzo San Gervasio a Potenza. Nel 2019, poi, Gradisca, Macomer (NU) e la sezione maschile di Ponte Galeria a Roma, rimasta a lungo chiusa per danneggiamenti. Ad oggi, i Cpr sono nove in totale, sebbene il loro numero, così come il termine massimo di detenzione, siano variati in maniera considerevole nel tempo.
Nati nel 1998 con la Legge Turco-Napolitano, quando l’Italia si preparava ad entrare nell’area Schengen, i Cpr allora si chiamavano Ctp (Centri di permanenza temporanea) e prevedevano un termine massimo di detenzione fissato a 30 giorni. Successivamente, il termine viene esteso a 60 giorni con la Legge Bossi-Fini, per poi diventare di 180 giorni con il decreto sicurezza del 2009, che introdusse il reato di clandestinità e sostituì i Cpt con i Cie. La disciplina normativa di tali strutture, piuttosto opaca, è stata continuamente rimaneggiata (per un approfondimento, si rimanda qui e qui), in una fisarmonica di espansioni e contrazioni che ci portano al decreto-legge 113/2018, con il quale si è tornati ad estendere i termini di trattenimento a 180 giorni. Un anno, nel caso – eccezionale – del trattenimento di richiedente asilo considerato pericoloso o a rischio fuga.
Al decreto Salvini, tra l’altro, va la responsabilità dell’aver ulteriormente favorito i colossi dell’accoglienza, come la cooperativa Edeco. I tagli alla spesa previsti dal capitolato di gara connesso al decreto, infatti, favoriscono i big del settore, in grado di realizzare economie di scala e di aggiudicarsi gli appalti. La gestione dei Cpr, in particolare, finisce spesso per essere affidata a grandi compagnie private, come a Torino, dove il Cpr di corso Brunelleschi è gestito da GESPA, società di capitali francese specializzata nei servizi per le strutture carcerarie (private), insieme all’Associazione culturale Acuarinto, altro pesce grosso dell’accoglienza. Questo, nonché la carenza di riferimenti normativi sulle modalità del trattenimento, lascia ampio spazio alla discrezionalità e rende particolarmente difficile monitorare questi luoghi e ottenere informazioni.
La detenzione migrante
La detenzione “senza reato”, com’è il caso di quella amministrativa, può essere disposta per tutte quelle persone sprovviste dei documenti necessari alla permanenza sul territorio e destinatarie di un decreto di espulsione o respingimento. Secondo la Direttiva Rimpatri, tuttavia, il trattenimento dovrebbe essere extrema ratio, giustificato solo se finalizzato a preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, nell’impossibilità di ricorrere ad altre misure meno coercitive. Il ricorso alla privazione della libertà personale degli stranieri irregolari è invece diventato uno strumento ampiamente utilizzato per il controllo dei flussi migratori, ben prima dell’approvazione del decreto Salvini. La sua efficacia, però, è sempre stata minima: meno della metà delle persone raggiunte da un decreto di espulsione viene effettivamente rimpatriata. Il dato rimane sostanzialmente costante, anche negli anni di massima espansione del sistema (2010-2011), quando si contavano 15 centri operativi, per un totale di 2.000 posti disponibili. Delle 6.172 persone transitate nei Cpr nel 2019, per esempio, solo 2.992 (il 49% del totale) sono state effettivamente rimpatriate.

Di fronte all’attuale emergenza sanitaria, che non ha risparmiato i luoghi di detenzione (migrante) e reso ancor più impraticabile effettuare espulsioni, è necessario quindi interrogarsi sul senso di questa misura: su quali basi legali i trattenimenti vengano convalidati dai giudici di pace? Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio, durante un incontro organizzato lo scorso maggio dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, ha parlato di “semplice misura contenitiva”, finalizzata non più a rispondere ad una presunta domanda di sicurezza e ordine, quanto piuttosto al contenimento del problema virus. Teoricamente illegittima, quindi. In quel momento, nei Cpr si contavano 204 presenze (a fronte di una capienza totale di 525, al 29 maggio 2020), poi diminuite ulteriormente. Tuttavia, secondo i dati riportati nel dossier “Detenzione migrante ai tempi del Covid”, curato dalla CILD, già a giugno le presenze sono tornate a crescere, per i trasferimenti di persone da hotspot (altro “mostro” normativo) e carceri.

In alcuni casi, i Tribunali non hanno effettivamente convalidato il trattenimento. Inoltre, durante la pandemia sono stati chiusi i centri di Trapani, Caltanissetta e Palazzo San Gervasio. Ma siamo ben lontani dalla possibilità di svuotare completamente i centri, sull’esempio di quanto fatto in Spagna.
“Non possiamo tollerare che si entri in Italia in maniera irregolare”, “non possiamo permettere che i risultati (in termini di gestione del virus, n.d.r.) siano vanificati”, e ancora “dobbiamo intensificare i rimpatri”. Premier Conte, punto stampa da Cerignola, 4 agosto 2020. Il paradigma della detenzione amministrativa è salvo. La sua funzione deterrente e criminalizzante, inutilmente afflittiva, pure. Nel frattempo, nei Cpr si continua a morire.
Martina Facincani