Il Consiglio europeo ha approvato il Next Generation Eu (NGEu), precedentemente conosciuto come Recovery Fund. In estrema sintesi, il bilancio europeo verrà usato per ottenere fondi sui mercati, per poi distribuirli agli Stati membri per stimolare la crescita economica e la ripresa post-pandemia.
Cos’è un bilancio? (clicca qui per espandere)
Un bilancio è un documento in cui da una parte ci sono i soldi a disposizione (entrate), e dall’altra come questi soldi vengono usati (uscite). Questo avviene quando si è bambini, dove le entrate sono la paghetta e le spese il gelato; avviene in azienda (spese e ricavi), e nel settore pubblico: Comuni, Regioni e Stato, che hanno come entrate le tasse, e come uscite, per esempio, gli stipendi di medici ed infermieri.
La stessa cosa avviene a livello di Unione europea, ma con qualche peculiarità in più.
Entrate | Uscite | ||
---|---|---|---|
Stipendio | 1500€ | Affitto | 500€ |
Spesa | 350€ | ||
Bollette | 150€ |
Da dove arrivano i soldi del bilancio europeo? Le entrate
L’Ue raccoglie una gran quantità di denaro (per la verità non molto, circa 1050 miliardi di euro, il 2% del PIL dell’intera Ue a 28 stati), costituito per la maggior parte dai trasferimenti dei singoli Stati in base alla loro quota di PIL (o meglio, reddito nazionale lordo, RNL) sul totale. Con questa logica chi produce di più contribuisce maggiormente al bilancio Ue (Germania, Francia, Italia) e, viceversa, chi produce meno ne fornisce meno (Malta, Cipro, Estonia).

Il rimanente 25% circa delle entrate è invece composto dalle “risorse proprie tradizionali“, chiamate così perché derivano dalla storia commerciale dell’Unione Europea. Per esempio, i dazi sulle merci provenienti da fuori Ue i quali sono raccolti a livello comunitario e da nomenclature che appaiono bizzarre, come la tassa sulla produzione dello zucchero; altre entrate sono costituite dal prelievo di 0,30% sull’IVA.

Come vengono spesi i soldi? Le uscite
Le spese del bilancio sono di due tipi: dirette, se gestite direttamente dalle istituzioni europee, o indirette.
Nel primo caso è la Commissione stessa (o Agenzie delegate) a emanare dei bandi per selezionare i progetti da finanziare in diversi settori (reti di trasporto e comunicazione, ricerca, istruzione, ecc.), li valuta e li finanzia direttamente. A tali bandi possono partecipare sia Autorità pubbliche (es. enti di ricerca) sia soggetti privati (imprese, associazioni) a patto che si consorzino e provengano da almeno due diversi Stati membri. Fra i più famosi possiamo citare il fondo HORIZON 2020 per la ricerca scientifica, l’Erasmus Plus e i fondi per gli aiuti umanitari e la gestione dell’immigrazione. Se vi piace il salame o siete amanti dei parchi e delle passeggiate ecco alcuni esempi di progetti cofinanziati dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) in Emilia-Romagna. Se siete interessati alla ricerca scientifica ecco qualche esempio del fondo diretto HORIZON2020 all’Università di Parma.
Le risorse indirette, quelle che ci interessano di più per i Partnership Agreement, sono invece organizzate per macro obiettivi politici. Ogni politica comunitaria ha le sue regole che determinano i parametri di allocazione delle risorse, e quindi indirettamente quale Paese beneficia degli interventi.
Spetta infatti alle Amministrazioni nazionali selezionare i progetti da ammettere al finanziamento. La Commissione europea non entra nel merito di tali scelte, ma valuta la coerenza dei progetti ai programmi e agli obiettivi strategici e rimborsa agli Stati membri le spese sostenute e rendicontate periodicamente. In linguaggio tecnico, si parla di gestione concorrente. Come dire, non dico che gusti scegliere né in che gelateria andare ma l’importante è che sia gelato e non caramelle gommose.

Il principio ispiratore che accomuna le due modalità è quello di favorire le regioni meno ricche (o quelle più colpite da un evento dannoso, come nell’attuale pandemia) al fine di ridurre le disparità all’interno del mercato unico. Per esempio, il principale fra gli obiettivi, ossia la politica di coesione, si realizza attraverso l’utilizzo di 5 fondi Strutturali e di Investimento Europei (SIE). I fondi sono vincolati a diverse tematiche, ad esempio vi è quello per lo sviluppo rurale, quello per l’occupazione o per le risorse marittime.
Chi decide?
Ogni 7 anni viene deciso (o meglio, duramente negoziato, come si è visto in questi giorni) il quadro generale in cui si inserisce ogni bilancio annuale: da un lato il totale delle entrate e quanto ogni Paese dovrà contribuire, dall’altro come spenderlo, in quali ambiti (sviluppo rurale, Piccole Medie Imprese, l’Erasmus, ad esempio) nonchè i massimi di spesa annuali. Si chiama Quadro Finanziario Pluriennale (MMF in inglese) e serve a dare l’indirizzo politico ed economico dell’intera Unione.
La proposta iniziale è fatta dalla Commissione europea la quale viene poi discussa e decisa all’unanimità a livello di Consiglio europeo ossia dai capi di Stato e di Governo dei 27 Paesi (e ovviamente da “chi lo fa di mestiere” ossia le Rappresentanze Permanenti dei vari Paesi, una sorta di ambasciata per le questioni europee). Non solo i grandi capi però, quando il Consiglio giunge a una decisione – anche a distanza di mesi – il Parlamento europeo, organo votato direttamente dai cittadini, in qualità di autorità di bilancio ha il potere di approvare il pacchetto di bilancio nella sua interezza.
Gli Accordi di Partenariato o Partnership Agreement
Quando il quadro dei finanziamenti proposto dalla Commissione europea viene approvato, la palla passa ai singoli Stati che devono elaborare un piano operativo di spesa che interessi tutti i Fondi europei, nel periodo di sette anni interessato dal MMF. E qui veniamo al nocciolo della questione.
- Si tratta di un vero e proprio accordo, definito Partnership Agreement, fra il singolo Stato e la Commissione europea e consiste in una procedura formale, definita da un regolamento ad hoc. Tramite la stipula del partenariato, lo Stato mette “nero su bianco” come intendere spendere tali fondi, ossia in quali settori chiave (ad esempio occupazione, piccola industria, energie rinnovabili, inclusione sociale, ricerca e innovazione) e con quale proporzione verranno spesi all’interno delle varie Regioni. Nel redigere l’accordo gioca un ruolo chiave la fase di consultazione del Governo con le amministrazioni regionali e locali, i gruppi di interesse, i rappresentanti delle categorie produttive e del terzo settore. A questo link è possibile consultare una sintesi dell’ultimo accordo di partenariato stipulato dall’Italia nel 2014.
- Una volta approvato l’accordo da parte della Commissione, lo Stato coinvolto nel partenariato deve sviluppare dei Programmi operativi più specifici in cui si definiscono chiaramente gli obiettivi, i progetti da finanziare e il fondo europeo specifico da utilizzare. Questo avviene all’interno di documenti programmatori (Programmi operativi regionali – POR, e Programmi operativi Nazionali – PON) con cui le Amministrazioni regionali e centrali destinatarie di tali risorse pianificano gli interventi da realizzare e gli obiettivi da raggiungere in coerenza con la strategia di sviluppo definita nel più ampio Accordo di partenariato. Le risorse trasferite ai singoli Stati devono essere usate coerentemente ed efficacemente con gli obiettivi individuati a monte e per i quali i fondi sono pensati.
Se, ad esempio, si opera nel contesto del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale si dovranno finanziare progetti atti a raggiungere gli obiettivi per il quale il fondo è nato, dal promuovere l’utilizzo di tecnologie innovative in agricoltura al preservare particolari ecosistemi o sostenere l’occupazione nelle aree rurali.
L’accordo di partenariato contiene anche i criteri per la valutazione del raggiungimento degli obiettivi prefissati dal Paese in modo da verificare l’efficacia delle misure finanziate, e controllare le spese e le tempistiche di pagamento ai soggetti privati (a tal proposito, lo Stato deve designare un’autorità di gestione per ogni programma operativo – in capo alle singole amministrazioni regionali – e un’autorità di audit). Giusto per aggiungere altre fantastiche e immancabili sigle, l’Autorità di controllo centrale (IGRUE) è istituita presso la ragioneria generale dello Stato.
Perché i Partnership Agreement sono importanti nell’ottica del Recovery Fund/NGEu
Per tornare alla cronaca di questi giorni, come si accennava in avvio, dopo notti insonni di negoziati il Consiglio europeo ha approvato il bilancio pluriennale Ue 2021-2027 (pari a 1074 miliardi di euro) a cui è collegato – in via straordinaria e per la prima volta nella storia europea– il Fondo comune per la ripresa economica post pandemia da 750 miliardi (Recovery Fund, formalmente Next generation EU) da erogare ai Paesi membri (attraverso prestiti e trasferimenti diretti) nel periodo 2021-2024.
Anche in questo caso, per accedere a questi fondi i governi devono inviare alla Commissione il Piano nazionale di riforma entro ottobre che dovranno essere in linea con le priorità indicate dall’esecutivo Ue e con le sue raccomandazioni annuali rivolte ad ogni Paese. Attualmente il Piano italiano è stato varato dal Governo ma aspetta di essere discusso in Parlamento.
Insomma, gli Stati devono impegnarsi a presentare una serie di progetti per ammodernare l’economia: infrastrutture, tecnologie, potenziamento della ricerca. Si tratta di un passaggio non di poco conto, poiché il Piano nazionale indica un impegno del governo a realizzare le opere e le idee per cui i fondi sono erogati così che alla fine del periodo di finanziamento l’opinione pubblica può valutare quanto e come sono state spese risorse pubbliche.
Questo mescolarsi di obiettivi comunitari, nazionali e regionali, che si uniscono in modo non sempre lineare, complica la già difficile verifica dell’allocazione delle risorse, visto che non sempre vengono distribuite con una seria pianificazione economica in modo da poterne ottenere l’effetto causale (il PIL regionale è aumentato a causa dei fondi europei, o per altro? Se è per altro, allora quei fondi sono inutili, o spesi male). Il rischio è quello di spendere miliardi senza sapere che effetti hanno.
Il problema italiano dei soldi non spesi
Tradizionalmente il nostro Paese non riesce a spendere tutto l’ammontare dei fondi che gli sono destinati, al netto dell’efficacia o meno della spesa stessa. Se prendiamo, ad esempio, il periodo 2014-2020 la storia sembra ripetersi: dei fondi annui assegnati all’Italia, 44 miliardi di euro in totale, a cui si aggiungono altri 30.5 mld € messi a cofinanziamento, la Corte dei Conti sottolinea come “quasi al termine del sesto anno del periodo, una percentuale media di impegni pari a poco più del 54% e di pagamenti al di sotto del 27% non appare pienamente soddisfacente.” (Relazione Annuale 2019 – I rapporti finanziari con l’Unione europea e l’utilizzazione dei Fondi europei, pagina 12).

Infatti, per realizzare un progetto, oltre che ad attivarlo (metterlo sulla carta) è necessario che seguano le fasi dell’impegno (il progetto viene avviato, in pratica) e del pagamento (si concretizza e finalizza).
Quello evidenziato dalla Corte dei Conti è senza dubbio un segnale di mancanza di capacità di pianificazione e finalizzazione.

A cosa è dovuto questo? Sicuramente a un sistema di competenze fra Stato e Regioni troppo complicato e caratterizzato da un forte contenzioso, nonché da una certa dose di fardello burocratico che immancabilmente accompagna i lavori pubblici in Italia. A questo occorre aggiungere che forse nella nostra Pubblica Amministrazione mancano le competenze giuste per la scrittura dei progetti e la ricerca dei finanziamenti europei appropriati.
Per superare la situazione straordinaria imposta dalla pandemia di Covid-19, la Commissione europea ha inteso aiutare i Paesi più in difficoltà e che, come l’Italia, non spendono tutti i fondi a loro destinati. Nello specifico, lo scorso marzo è stato approvato un emendamento per l’uso dei Fondi strutturali che permette di utilizzare i soldi impegnati ma non ancora spesi, invece che doverli restituire come d’obbligo.
Tuttavia, anche in virtù delle risorse destinate al nostro Paese tramite il Recovery Fund, si rende necessaria una riflessione sulla gestione delle risorse Ue e su come renderle efficacemente fruibili per cittadini e sistema produttivo, sia attraverso un migliore controllo e coordinamento delle amministrazioni, sia attraverso una rinnovata cultura della programmazione da rinnovare.
Giacomo Campanini