Durante i lunghi mesi di lockdown, le attività dei centri antiviolenza e dei collettivi che si occupano di contrasto alla violenza di genere non si sono mai fermate. Pur dovendo rimodulare i propri interventi, hanno continuato a garantire la loro presenza e la loro professionalità. Il lavoro che svolgono è fondamentale, perché la violenza maschile contro le donne è un fenomeno esteso e strutturale, che la pandemia, l’incertezza sul futuro e la convivenza forzata hanno contribuito ad aggravare. Secondo i dati diffusi dalla rete nazionale D.i.Re, che riunisce 80 centri antiviolenza, dopo un primo, iniziale calo delle richieste, i contatti hanno registrato un aumento complessivo, anche nel numero di donne che si sono rivolte per la prima volta ad un centro antiviolenza per chiedere supporto: dal 6 aprile al 3 maggio, sono state 979, il 33% del totale (2.956). La percentuale era di poco inferiore nel periodo di rilevazione precedente (2 marzo – 5 aprile 2020), quando i “nuovi” contatti sono stati 836, il 28% del totale (qui, i dati sulle chiamate arrivate tramite il numero nazionale 1522 raccolti dall’Istat).
“Solo noi del centro di Milano dal 3 di marzo a oggi abbiamo sentito 355 donne, cioè affiancate, tieni conto che noi in un anno ne sentiamo circa 800 e poi ne seguiamo nei loro percorsi di uscita dalla violenza mediamente 500 all’anno. Ora siamo già a 355, con 88 nuovi accessi, con 88 donne che prima non si erano mai rivolte al centro” mi ha raccontato qualche settimana fa Cristina Carelli, consigliera di D.i.Re e coordinatrice generale del CADMI (Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano), il primo centro antiviolenza fondato in Italia nel 1986 all’interno dell’UDI. “Secondo noi ha contribuito molto la comunicazione che abbiamo diffuso: noi del CADMI – ma in generale come rete D.i.Re – siamo partite da subito con una nostra campagna di informazione, autonoma rispetto a quella istituzionale, diretta a tutti e tutte ovviamente, sia alle donne ma anche a chi sta attorno alle donne e all’opinione pubblica, dicendo sostanzialmente ‘noi ci siamo’”, prosegue Cristina. Era e rimane fondamentale far sapere alle donne che non sono sole, che i percorsi intrapresi insieme non si interrompono.
Certo, è stato necessario ripensare le modalità di intervento, trasferendo molto del lavoro online: colloqui telefonici, via WhatsApp, Skype o tramite Zoom sono entrati a far parte della routine quotidiana, diventando uno strumento importante per mantenere relazioni e contatti, anche se a distanza. In caso di necessità, le operatrici del CADMI hanno continuato a garantire accoglienze fisiche. Il lavoro, dunque, non solo non si è arrestato, ma è incrementato: per questo, il CADMI ha lanciato una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi, #laviolenzanonsiferma, “perché le risorse istituzionali, che vengono dal nazionale e passano poi alle Regioni (in base alle disposizioni della L. 119/2013 n.d.r.), sono poche, vengono mal distribuite, sono sempre in ritardo. In particolare, noi di Milano abbiamo fatto una scelta politica forte: la Regione Lombardia distribuisce fondi soltanto ai centri che forniscono il codice fiscale delle donne che affiancano. Poiché noi siamo assolutamente fedeli ai valori fondanti la nostra metodologia, che hanno come presupposto il rispetto dell’anonimato e della segretezza, ovviamente ci rifiutiamo di fornire il codice fiscale e siamo state in qualche modo punite, è da giugno 2019 che siamo fuori dai finanziamenti.”
La richiesta di Regione Lombardia, giustificata a fini di raccolta dati, contrasta con quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul, come sottolineato nel Rapporto Ombra pubblicato lo scorso gennaio dal gruppo di esperte (GREVIO) che monitora lo stato d’applicazione della Convenzione, dove si raccomanda che i dati siano raccolti in modo disaggregato e che si rispettino le metodologie di intervento con le donne basate sul rispetto della privacy e dell’anonimato.
La Convenzione di Istanbul prevede anche che “una città grande come Roma dovrebbe poter garantire più di 300 posti di accoglienza per donne che escono dalla violenza, mentre Roma, faccio riferimento alla situazione pre lockdown e pre coronavirus, ne aveva 22, 23. Noi ne aggiungevamo 14”, mi racconta invece Mara, attivista di Lucha y Siesta. Nei suoi 12 anni di attività, la Casa delle Donne Lucha y Siesta ha ospitato circa 250 donne, con o senza figli, per periodi più o meno lunghi, sopperendo alle mancanze istituzionali. Lucha è un luogo di emancipazione, condivisione e sperimentazione culturale, mi spiega Mara, ma è anche un collettivo politico, che da più di un decennio occupa una palazzina di proprietà dell’Atac sulla Tuscolana, in uno dei quartieri più popolosi d’Europa, in via Lucio Sestio, da cui prende il nome.
Nonostante gli innumerevoli tentativi di interlocuzione con la Giunta comunale, Lucha y Siesta rischia lo sgombero, da quando l’Atac ha deciso, nel settembre dello scorso anno, di mettere in vendita l’immobile per risanare il buco nel proprio bilancio, dopo averlo abbandonato per anni all’incuria. Paradossale, se si pensa che “in questi 12 anni noi non abbiamo lavorato così, come si dice, da cani sciolti, ma abbiamo lavorato con le forze dell’ordine, con i servizi sociali del Comune. La situazione è sempre stata abbastanza assurda, per cui il Comune ci utilizza perché non ha posti di accoglienza, quindi le donne che vanno ai CAV (centri antiviolenza) poi da qualche parte devono andare a dormire, o comunque da qualche parte devono andare a stare, perché devono uscire dalle loro case, non hanno letteralmente posti dove andare.”
Dopo aver sospeso momentaneamente le attività a febbraio, in seguito alla minaccia di distacco delle utenze e per il diffondersi del Covid- 19, “ci siamo sentite in dovere di riaprire Lucha y Siesta, ma l’abbiamo aperta, ovviamente dopo averla sanificata, cercando di garantire le condizioni di sicurezza sia a noi che alle donne che abbiamo accolto. Invece di accogliere 14 donne ne accogliamo 4, una per piano. Ogni piano è autonomo, ha la sua cucina, il suo bagno”, prosegue Mara.
“Ci ritroviamo anche noi nei dati di D.i.Re: dopo le prime settimane di lockdown c’è stato un incremento delle chiamate, non solo da donne che seguivamo anche prima ma anche da nuove situazioni, nuove richieste di supporto. Tra l’altro questi dati sono in linea con quanto ci dicono altre associazioni compagne, altre case, i Castelli Romani, o Be Free, che è la Cooperativa con cui lavoriamo spesso e volentieri. Anche in questo momento, alcune delle donne che accogliamo vengono dai loro centri antiviolenza”.
I centri antiviolenza, lo ribadiamo, non si sono mai fermati, continuando ad assicurare, nei limiti imposti dalla Fase 1 dell’emergenza Covid-19, presenza, supporto e pratica. Prima ancora che partissero gli interventi promossi a livello centrale, come la divulgazione del numero 1522, la campagna “Libera Puoi” o le Circolari ministeriali rivolte a Prefetture, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato, le realtà femministe si erano spese perché l’informazione fosse capillare. Per esempio, Lucha y Siesta ha creato una guida multilingue alla sicurezza informatica finalizzata ad un utilizzo sicuro del telefono.
Il lockdown non ha fatto esplodere la violenza, l’ha solo esasperata. La violenza maschile contro le donne è un fenomeno pervasivo, che coinvolge donne di tutte le età e di tutte le provenienze geografiche. “Anche molte italiane”, mi puntualizza Mara, ed è bene ricordarlo, per dare battaglia alla strumentalizzazione della violenza sui corpi delle donne in chiave razzista, securitaria e sovranista. Evitando etichette, stereotipizzazioni, semplificazioni, “mai standardizzare e mai etichettare, mai pensare di avere un identikit della donna, non è così. La donna è chiunque, perché può essere chiunque, perché è un fenomeno trasversale, così come il maltrattante. Anzi, noi diciamo spesso che sono gli insospettabili, e quindi è molto importante avere questo tipo di approccio, questa postura, non pensare che le donne maltrattate siano una categoria speciale che riusciamo a identificare e in qualche modo a incasellare, come dire, anche a distanziare da chi siamo noi”, mi spiega Cristina.
In alcuni casi, le donne sono molto giovani. Questo potrebbe voler significare che l’impegno nel sensibilizzare e informare sta dando dei risultati, che le donne sono in grado di riconoscere presto le spie di atteggiamenti aggressivi, violenti e intimidatori. “Il lavoro da fare è innanzitutto culturale”, mi ricorda Mara, di decostruzione della cultura machista, sessista e patriarcale in cui siamo tutti e tutte immersi, come pesci in un acquario, per riprendere una metafora che ho sempre trovato calzante.
Sarebbe tempo che venisse riconosciuta l’importanza del lavoro svolto dai centri antiviolenza e dai collettivi femministi, investendo in interventi di sistema che siano pensati sul lungo periodo. A maggior ragione davanti alle contraddizioni sociali che questa pandemia ha contribuito a esplodere, e che si preannunciano, nonostante l’avvio di una lunga Fase 2, di non facile risoluzione.
Martina Facincani
L’immagine di copertina è stata disegnata da Giuditta Furlan.
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