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Nato da uno spillover, veicolato dall’inquinamento. Fin da subito ricercatori e ricercatrici hanno messo in guardia riguardo le numerose connessioni che intercorrono tra Covid-19, clima, atmosfera e habitat. L’ultima in ordine di tempo è arrivata dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e riguarda proprio l’aria che respiriamo ogni giorno: le particelle di SARS-CoV-2 sono state ritrovate sul particolato atmosferico (particulate matter, PM), insieme di corpuscoli responsabili dell’inquinamento. Quindi è possibile essere contagiati tramite i PM? Ancora presto per dirlo, ma di certo sarà necessario tenerne conto nella famigerata “Fase 2”.
Quel che è certo invece è che il “salto di specie” del virus da animale a uomo (spillover, appunto), sia un meccanismo sempre più frequente. Aveva già portato alla diffusione dell’H1N1 (influenza suina) nel 2009, della Sars nel 2002 o dell’H5N1 (aviaria) nel 2003. E si stima che oggi gli outbreak (espansione epidemica di un patogeno) di origine zoonotica – quindi animale – abbiano un’incidenza sul totale pari al 70%, come spiegato dal ricercatore di Biologia e Biotecnologie dell’Università La Sapienza di Roma Moreno Di Marco. C’è il rischio, quindi, che ci attendano altre pandemie simili a quella attuale, se non verranno prese adeguate misure a contrasto dell’emergenza climatica e della distruzione degli ecosistemi, entrambe di origine antropica.

Misure che vanno dalla regolamentazione dei mercati neri alimentari, allo sviluppo di produzioni agricole e allevamenti sempre più sostenibili e non intensivi. Sia per rispettare gli obiettivi di contenimento della temperatura media globale, come previsto dagli Accordi di Parigi sul Clima, sia perché il “salto” è facilitato laddove il contatto tra esseri umani e animali sia ravvicinato, in particolare quando si tratta di animali selvatici. Si prenda l’affollato mercato alimentare di Wuhan, dove tutto ha avuto origine: qui gli animali – vivi o morti – venivano stipati in dubbie condizioni igieniche, costituendo un terreno fertile per la trasmissione del virus. Allo stesso tempo, la tendenza ad ampliare sempre più le coltivazioni e gli allevamenti in zone tropicali, proprio in prossimità di aree naturali, non fa che aumentare la possibilità di zoonosi.
Come dicevamo, se noi siamo stati presi alla sprovvista dal coronavirus, scienziati e scienziate, accademici e accademiche, non ne sono rimasti sorpresi allo stesso modo. Come sintetizzato da Thomas Gillespie, professore associato nel dipartimento ambientale della Emory University e specializzato nello studio del restringimento degli habitat, al Guardian: “La maggior parte degli agenti patogeni deve ancora essere scoperta. Questa è solo la punta dell’iceberg.” Cosa ha significato dunque questa pandemia per chi ha fatto o sta cercando di fare della tutela ambientale il proprio mestiere? Lo abbiamo chiesto a Giulio Pagnacco, scienziato ambientale all’ultimo semestre di magistrale in Cambiamento Climatico presso l’Università di Copenhagen; Marco Sensi, biologo della conservazione, neolaureato; Dario Caro, professore associato dell’Università di Aarhus in Danimarca presso il dipartimento di Environmental Science, che si è occupato proprio della correlazione tra inquinamento atmosferico e letalità del coronavirus.
Di che cosa ti stavi occupando prima della pandemia? Se ti definisci ambientalista, raccontaci il tuo percorso.
Dopo una triennale in Scienze forestali in Italia e in attesa della laurea magistrale prevista per dicembre, Giulio sta svolgendo un tirocinio in uno studio d’arte di Copenhagen, il Superflex. “Lo so – scherza -, uno scienziato ambientale in uno studio d’arte è inusuale. Di fatto sto facendo una consulenza di sostenibilità: il progetto prevede di calcolare le emissioni dello studio e di sviluppare e implementare strategie per diminuirle. Poi mi sto occupando di ricerca, perché sull’onda dell’interesse per le relazioni intraspecie, Superflex sta cercando di indagare la relazione tra essere umano e altre specie naturali, innescando uno spostamento da antropocentrismo ad ecocentrismo. Ovviamente al mondo dell’arte mancano alcune conoscenze e proprio qui sta la potenzialità dell’incontro.”
Dopo la triennale in Biologia all’Università di Padova, Marco ha invece frequentato una magistrale in Biodiversità e Salute ambientale, con un focus sulla Biologia della conservazione. “Significa – spiega – lavorare con le specie protette, gestirne la popolazione, conservarle”. Per dimostrare la connessione con la tutela dell’ambiente, spiega: “Prima di fare gestione del territorio o di attuare politiche per la tutela dell’ambiente servono dati; ad esempio, uno studio delle abitudini alimentari di un carnivoro. Si prenda il lupo in Maremma, il suo ritorno ci racconta di un equilibrio che noi esseri umani abbiamo distrutto, perseverando nei nostri valori capitalistici.” In questo settore gli sbocchi principali sono la ricerca e la consulenza ambientale, a cavallo tra biologia, agraria e veterinaria. “Sia pre che post pandemia, sono e sarò un neolaureato che cerca lavoro”.
Dario è invece già avviato alla ricerca. “Ho appena pubblicato, insieme a Edoardo Conticini e Bruno Frediani, un articolo scientifico sulla correlazione tra inquinamento atmosferico nel Nord Italia e letalità del coronavirus, che mette in luce come le persone che vivono in aree più esposte all’inquinamento abbiano una maggiore predisposizione a sviluppare patologie respiratorie croniche. Quelle stesse che con l’arrivo del virus possono portare più facilmente alla morte”. Dario fa però una distinzione importante tra agenti inquinanti atmosferici e gas serra: “Con il lockdown, entrambi sono fortemente diminuiti, ma gli effetti dei primi – quelli nocivi se respirati, per intenderci – hanno delle conseguenze immediate sulla qualità dell’aria. La riduzione dei secondi per un periodo così limitato non ha invece un impatto su larga scala, perché i gas serra si sono stratificati nell’atmosfera in lassi temporali molto più distesi”.
Quali erano le prospettive lavorative terminato il percorso accademico? Come sono cambiate con questa pandemia?
Quello in cui lavora Giulio, il settore della consulenza ambientale per privati, è un ambito ancora in divenire. “L’Italia è un territorio ancora inesplorato, per cui sono certo che ad un certo punto tornerò a casa, dove penso che le mie conoscenze siano più spendibili. In Danimarca la cultura ambientale è invece diffusa, Copenhagen punta ad essere entro il 2025 la prima capitale europea a zero emissioni. Chiariamoci, le consulenze ambientali esistono da sempre: prima c’era il perito a valutare la chimica del tuo suolo, ad esempio, consigliando trattamenti o fertilizzanti. Ora il cambiamento climatico in corso innesca una molteplicità tale di livelli da rendere insufficiente il semplice approccio tecnico. È necessario un discorso di più ampio respiro. Sono convinto che presto arriverà anche in Italia.”
L’opinione di Marco è invece più pessimistica se si tratta del mondo del lavoro. “Per quanto appaia romantico, la conservazione viene presa poco sul serio. Per cercare lavoro mi sono approcciato ad oltre una decina di portali, ma il paradosso – anche in questo mercato – è che di fronte alla richiesta di lunga esperienza, lo stipendio offerto si aggira intorno ai 200 euro al mese. La vera piaga sono poi le proposte di volontariato o addirittura di lavori su proprio pagamento: ce ne sono così tante da far pensare che non sia un vero mestiere. Le conseguenze a livello psicologico sono che, continuando a offrirti zero, ad un certo punto ti ritrovi a pensare di valere zero”.
E come sono cambiate ora le aspettative con questa pandemia? Che impatto pensi abbia avuto e avrà il Covid-19 nel settore della tutela dell’ambiente?
Al momento “i lavori di campo nell’ambito ecologico sono interrotti, in stallo”, continua Marco. “Già prima di questa pandemia cercare lavoro era difficile”, ora la sensazione è che le offerte di lavoro siano calate drasticamente; in molti hanno posticipato le scadenze, mentre solo alcuni hanno mantenuto invariate le deadline. A questa emergenza si aggiungerebbero poi due problemi o pregiudizi di fondo: “Stiamo tornando alla “gentlemen of science” dell’800, quando solo persone agiate potevano permettersi di diventare naturaliste. La scienza sta diventando inaccessibile: posso essere la punta di diamante della conservazione, ma devo pur sempre mantenermi”. Inoltre, secondo Marco il sapere scientifico viene troppo spesso svalutato, addirittura dalla politica.
Il settore della ricerca invece non è stato particolarmente impattato, dice Dario, docente. “Si possono aprire nuovi filoni di ricerca, principalmente a livello economico – dove si sono ridotte le emissioni, dove sono aumentate, come si sono spostati i consumi dalle industrie alle abitazioni. Se parliamo di cambiamento climatico, questa pandemia non aggiunge molto alla narrazione. I fatti e i dati esistevano prima e continuano ad esistere ora. Quello che può cambiare è come si ascolta la scienza. Questo momento dovrebbe essere quello in cui mettere in campo una seria azione politica, armonizzando gli approcci top-down e bottom-up per creare un circolo virtuoso. Serve più educazione ambientale, anche nelle scuole, perché se le persone non conoscono e non sono sensibili a una tematica, non pretenderanno che sia trattata con cura. Non si tratta di destra o di sinistra: se non hai a cuore la questione ambientale è semplicemente perché non ne conosci la gravità. L’educazione ambientale è il vero motore per la tutela dell’ambiente.”

Per Giulio è più difficile parlare di ciò che sta accadendo. “Il Covid-19 è uno dei tanti ‘iperoggetti’ (così come inteso da Timothy Morton, ndr) della contemporaneità, che sono socialmente giganteschi ma ti toccano anche intimamente. Come il cambiamento climatico. Non penso che la questione ambientale passerà in secondo piano, ma solo nel momento in cui faremo capire come le due questioni sono correlate. Il Covid-19 è un prodotto, il risultato di una società che ha qualcosa che non funziona: antropocentrismo e capitalismo. A livello pratico, temo che i privati faranno scivolare la questione ambientale e la sostenibilità tra gli ultimi posti nella scala delle proprie priorità, mentre fino a un mese e mezzo fa stavano finalmente iniziando a ingranare. Si dovrebbe capire che affrontando la questione ambientale si potrebbero risolvere anche pandemie e virus, causati dalla distruzione degli ecosistemi.”
La domanda che sorge spontanea è: quale sarà l’eredità di questa pandemia?
Giulio è speranzoso. “Come professionista continuerò a espormi, a parlare di cambiamento climatico e a sostenere l’incertezza che comporta parlarne. Una cosa è leggere di spugnette usa e getta e un’altra è parlare di capitalismo e di antropocentrismo. Mi sforzerò di utilizzare meno termini in inglese, per creare un vocabolario condiviso e accessibile. E cercherò di contribuire alla sedimentazione di questo periodo storico nella memoria collettiva. Lo scopo è quello di evitare che immagini forti come ad esempio quelle dei recenti incendi in Australia (di cui abbiamo bisogno per prendere davvero azione) possano essere dimenticate, che non si finisca per donare oggi 5€ per salvare i koala e poi dimenticarsene domani, terminata l’emergenza”.
Marco invece è scettico. “I media parlano di ritorno delle specie. Da questa assenza umana alcuni gruppi possono essere favoriti, è vero, si prendano gli anfibi che migrano e vengono puntualmente investiti dalle auto. Ma il punto non è che le specie stanno tornando, piuttosto che non se ne sono mai andate. La natura non si sta riappropriando degli spazi, siamo noi che abbiamo ripreso a osservarla perché stiamo vivendo a un’altra velocità. Fuori da Porta Camollia a Siena i caprioli ci sono sempre stati quando andavo di notte a fare i rilevamenti. È un cambio di prospettiva, che tuttavia non sono sicuro basterà per attuare il cambiamento di cui c’è bisogno. Soprattutto fintanto che negazionismo e nazionalismo mineranno il percorso verso quella presa di coscienza collettiva che riconoscerà definitivamente l’essere umano come responsabile della crisi attuale. Perché tutte le epidemie e le zoonosi sono correlate alla frammentazione e alla distruzione degli habitat, al commercio di specie esotiche (addirittura più lucrativo di quello della droga), che pongono i patogeni a stretto contatto con l’essere umano. Fintanto non si comincerà a fare più attenzione all’ecosistema, a prendersene cura per davvero, oltre le battaglie contro la plastica usa e getta, il problema non si risolverà. Fintanto che Paesi come il Giappone riapriranno la caccia alle balene, che la conservazione rimarrà relegata ai volontari, continueremo a distruggerci e distruggere il nostro stesso pianeta.”
Dario è in ascolto, presta attenzione alla voce della scienza. “Per chi è già inserito nel mondo della ricerca, come me, non penso che questa pandemia cambierà troppo le carte in tavola. Ci aspetta un mondo del lavoro sempre più competitivo, in cui la domanda supera l’offerta e l’innovazione tecnologica viene troppo spesso confusa con il progresso. Indipendentemente dal Covid-19. Questo virus può però portare a una presa di coscienza collettiva, riguardo lo sviluppo di cui abbiamo bisogno davvero, che è sostenibile e sociale e non si può calcolare meramente in Pil. E se c’è qualcosa che dovremmo ereditare da questa situazione, è la capacità di prioritizzare e la prontezza all’azione.”
Interviste a cura di Marta Silvia Viganò
Testi di Marta Silvia Viganò e Roberta Cristofori
Dobbiamo seriamente pensare a un modo per proteggere l’ambiente ed evitare altri stravolgimenti. Negli ultimi tempi abbiamo visto troppo spesso tutto ciò e spero che dopo aver sconfitto questo virus, i governi mondiali prendano delle serie decisioni a riguardo.
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