Come raccontavo qualche giorno fa, questi giorni di quarantena sono per me una grande occasione di ascoltare, o riascoltare, un sacco di musica: alcune cose nuove, moltissime vecchie, alcune già nella mia rotazione regolare, altre riscoperte. Qui ne scelgo cinque, sperando che anche voi scegliate di allietare la vostra alienazione con le mie musichine strane.
Colonel Les Claypool’s Fearless Flying Frog Brigade, Live Frogs – Set 2
Les Claypool è principalmente noto per essere il capo dei Primus: una band assolutamente assurda, testualmente e sonoramente, le cui fondamenta sono basate sul basso virtuoso e inventivo e sulla voce da cartone animato dello stesso Les. Tra la fine degli anni 90 e il ritorno dei Primus verso metà degli anni 2000, Les ha variato le sue collaborazioni producendo anche qualche disco più o meno solista. La Flying Frog Brigade, che includeva batterista e chitarrista originali dei Primus, Jay Lane (che poi ci è brevemente tornato nel 2011 per Green Naugahyde e il rispettivo tour, che fece tappa a Pordenone, dove proprio Lane mi autografò il disco – ma sto divagando) e Todd Huth, era funzionale a suonare ad alcuni festival estivi, ma generò anche tre dischi, o meglio, due mezzi dischi dal vivo e uno intero in studio, Purple Onion. Il primo disco dal vivo, Live Frogs – Set 1, si apre con una cover dei King Crimson e si chiude con una divertentissima versione di Shine On, You Crazy Diamond dei Pink Floyd. Prima di lasciare il palco, Les annuncia che torneranno con “più Pink Floyd di quanto sarebbe lecito tollerare per qualunque umano”. Questo è Live Frogs – Set 2, ovvero una cover integrale, fedele il giusto, di Animals dei Pink Floyd. Se conoscete i Primus potreste avere dei legittimi timori sul risultato sonoro di questa avventura, eppure è meraviglioso. Lane valorizza all’estremo le semplici linee ritmiche di Nick Mason, e Claypool trasforma gli ipnotici giri di basso Watersiani in qualcosa di ancora più potente – dimostrando inoltre una vocalità sorprendentemente simile all’originale e a tratti quasi irriconoscibile rispetto alla sua solita impostazione paperinesca. Un ascolto coinvolgente e divertente!
Fabrizio De André, Le Nuvole
Gli ultimi tre dischi di De André sono dischi di viaggio per chi ascolta, e sebbene l’unico esplicitamente dedicato a una terra, a una città, Genova, sia Creuza De Mä, è questo Le Nuvole, curioso pastiche di generi e umori, a trasportare l’ascoltatore più del predecessore e del successore (Anime Salve, molto più spirituale, e il disco che scelsi per attraversare l’aeroporto di Rio De Janeiro, tornando a casa dopo cinque mesi in nave, ormai più di due anni fa). Si comincia con la malinconica introduzione che descrive le nuvole titolari, per poi venire trasportati su un palco di commedia con Ottocento e Don Raffaé (entrambi brani arrangiati e suonati alle tastiere da Sergio Conforti – bravi, avete indovinato: Rocco Tanica di Elio e le Storie Tese). Il lato A si conclude con la struggente e potentissima La Domenica delle Salme, sorta di elegia a descrizione dell’Italia degli anni ’80 appena conclusi. Il lato B è forse meno politico, ma si apre con la coinvolgente Mégu Mégun (Medico Medicone) che ci riporta a Genova (e ha un testo scritto con l’amico Ivano Fossati, che collaborerà poi a Anime Salve scrivendone quasi tutte le musiche), così come la successiva ‘A Çimma – in mezzo c’è la tutto sommato dimenticabile La Nova Gelosia, che però da’ un po’ di necessario respiro. Il disco si conclude con Monti di Mola, canzone che racconta, in dialetto gallurese, una storiella ambientata nell’odierna Costa Smeralda: un uomo si innamora di un’asina bianca, con la quale non riesce però a sposarsi, nonostante tutto il paese abbia già organizzato il matrimonio. Dallo scartabellare nella burocrazia, viene fuori che i due sono parenti stretti. La canzone, raccontata così, pare essere poco più che una burla, eppure è la conclusione quasi epica del disco, e più di ogni altra melodia qui riesce a trasportare l’ascoltatore sui Monti di Mola, a guardare il mare, con le nuvole che si specchiano sull’acqua.
Elio e le Storie Tese, Studentessi
Bisogna pur tirarselo su, il morale! Dopo i classici degli esordi (Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu e Rum Casusu Cykti), uno dei migliori dischi di Elio e le Storie Tese, arrivato dopo una prova non entusiasmante (Criccraccriccrecr) e una più convincente (Cicciput), è stato il disco che me li ha fatti conoscere (grazie a Vincenzo che all’epoca me lo presentò). Quasi tutte le idee del disco sono geniali: l’omaggio al prog di Plafone, la cover al contrario di Suspicious Minds di Elvis Presley, Ignudi Fra i Nudisti, capostipite di tutti i video di misheard lyrics, il leitmotiv di Effetto Memoria, l’assurda Gargaroz, sull’asporto delle tonsille, la checklist di gruppi metal estremi Suicidio a Sorpresa (che è anche una mini suite cantata in larga parte con lo stile del Trio Lescano), Supermassiccio, la canzone adatta a questi tempi (che racconta di un buco nero che ha ingoiato l’umanità ed è governato dalle “pulci gigantesche provenienti dal futuro”), Parco Sempione, diventata uno degli inni dal vivo della band, e la spettacolare Il Congresso delle Parti Molli – vi sfido a non agitare almeno un po’ il culo! Un tour de force di comicità volgare e dissennata, che ogni tanto ne abbiamo proprio bisogno.
Opeth, Watershed
Non commettete l’errore di denigrare la Tristezza, dice Elio sotto effetto di vocoder proprio su Studentessi (seppure in uno dei pochi brani sotto la media del disco): di certo non lo fanno gli Opeth, che su questo loro album dividono in egual misura l’output sonoro tra la cattiveria e l’infelicità. L’effetto catartico è assicurato, e ce n’è per tutti i gusti. Il disco si apre con la dolce e malinconica Coil, cantata dalla fidanzata del nuovo batterista Martin Axenrot, che però sfocia dopo un paio di minuti nella devastante Heir Apparent, ben più affine agli stilemi prog death. Segue la funkeggiante The Lotus Eater, con un break di clavicembalo che Led Zeppelin levatevi, ma non temete, fan della mestizia, perché sta per arrivare la ballatona Burden con dei mellotron estremamente lacrimevoli e un Åkerfeldt espressivo come non mai. Porcelain Heart, se non è la miglior performance vocale di Mikael fino a qui, ci si avvicina decisamente: e accompagna un groove di chitarra e tastiera ipnotico. Hessian Peel vi tira la badilata in faccia che vi mancava, se siete sopravvissuti fino a qui, mentre Hex Omega assicura una chiusura di album moderatamente serena. Ed ecco che siete stati mondati dalla tristezza, immergendovici totalmente (anche se sono convinto che un gran lavoro l’abbia fatto il death metal). Una curiosità: sul retro del disco c’è una faccia che ancora oggi turba il mio sonno: sono le facce dei cinque membri della band mischiate a formarne una sola, ed assomigliano a Pippo Franco!
Rush, Grace Under Pressure
Non che avessi bisogno di una pandemia mondiale per essere ossessionato dai Rush: ma questo disco l’ho ascoltato un numero di volte, diciamo elevato, da quando è cominciata la pandemia mondiale. A questo punto i Rush avevano rotto il muro dei sintetizzatori: c’era della tensione tra Geddy e Alex sulla quantità dei medesimi. Il chitarrista era legittimamente preoccupato che le infernali apparecchiature gli rubassero il posto sulla scena, mentre il bassista voleva ampliare i suoi orizzonti il più possibile. Nel registrare il seguito di Signals, però, il trio riesce a ottenere un ibrido delle due visioni assolutamente eccezionale. Le tastiere sono chiaramente più esposte, eppure il disco funziona così bene solo ed esclusivamente grazie alle chitarre graffianti di Lerxst. Il titolo del disco viene da una citazione semi-apocrifa di Ernest Hemingway, che durante un’intervista aveva affermato che il coraggio fosse nient’altro che grazia sotto pressione: Neil ne restò impressionato e propose l’idea ai compagni, che la approvarono. Il tema dell’album è proprio quello, mantenere il coraggio in tempi bui, che fossero quelli degli ultimi anni di guerra fredda, raccontati nell’opener Distant Early Warning o nella bizzarra Red Lenses (un brano che invecchia meglio di quanto si possa pensare a un primo ascolto: sentite la coda di basso e batteria finale!), o quello della madre di Geddy, sopravvissuta dell’olocausto, durante la prigionia nel campo di Bergen-Belsen, raccontato in Red Sector A. Afterimage è un omaggio a un tecnico dello studio, amico di Neil, dove i Rush hanno registrato l’album, scomparso in un incidente d’auto pochi mesi prima delle registrazioni. The Enemy Within è la prima parte della trilogia Fear, le cui parti seconda e terza sono rispettivamente su Signals (The Weapon) e Moving Pictures (Witch Hunt). Peart scelse di scrivere i tre brani partendo dall’ideale conclusione affrontando prima i temi meno complessi: The Enemy Within parla della paura di ciò che abbiamo dentro (no, non il dirigibile marrone di Elio) e Peart volle dedicarci più tempo possibile. The Body Electric, con un titolo ispirato da una poesia di Whitman, ha un testo che rimanda invece a Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, di ispirazione anche a Ridley Scott per il suo Blade Runner. Kid Gloves sembra quasi essere stata messa in piedi per dar modo ad Alex di sbizzarrirsi con un riff divertentissimo e giocoso, ed è uno dei brani meno in contesto del disco, ma non per questo meno coinvolgente. L’album si conclude con la potentissima Between the Wheels, uno sguardo cupo ma speranzoso sulle ruote del tempo, tra le quali spesso ci ritroviamo schiacciati, in eventi più grandi di noi: il giro di tastiere è uno dei più memorabili di tutta la carriera della band, ma è la performance vocale di Geddy che si porta via tutto er cucuzzaro:
You know how that rabbit feels
Going under your speeding wheels
Bright images flashing by
Like windshields towards a fly
Frozen in the fatal climb —
But the wheels of time —
Just pass you by…
Immagine di copertina da storiadellamusica.it