La didattica a distanza è solo una delle sfide che sta affrontando la scuola

Viene da dire ci risiamo. La scuola italiana è ripartita dopo la sosta pasquale, ancora una volta caricando a testa bassa, in mezzo a difficoltà che non si erano mai viste (o forse sì?) nella storia dell’Istruzione in questo paese.

Erano anni, forse decenni, che la scuola italiana non aveva gli occhi puntati su di sé come in questo momento, nel quale – con tempi necessariamente diversi da un luogo all’altro – sta cercando di dare una risposta, di far sentire la sua presenza nella serrata generale. Essendo io stesso professore, lo dico con un poco d’orgoglio: ci siamo e ci siamo stati ben prima che la Ministra Azzolina rendesse la didattica a distanza un obbligo per ogni ordine e grado, ben prima che dalla stessa arrivassero notizie su come portare a termine l’anno scolastico o sul sempre più nebuloso destino dei precari e l’attesa senza fine di concorsi e graduatorie. La Scuola c’è stata fin dall’inizio, con tutti i suoi assurdi controsensi e le dissonanze che la caratterizzano (dalla storia, ormai mitologica, delle interrogazioni con gli alunni bendati, fino ai Collegi docenti, il più sacro tra i rituali da aula magna, in live streaming aperto su YouTube) in quest’epoca di classi virtuali. La natura di questa presenza digitale, più reale e carica di conseguenze di quanto non dicano le righe di un registro elettronico o le celle di un foglio Excel, ve la voglio raccontare attraverso i pensieri di quattro docenti ai quali ho chiesto di aprire una finestra su quello che fanno ogni giorno. Le loro voci testimoniano la pluralità di emozioni e punti di vista a fronte di una comunanza d’intenti fortissima. Ho già detto troppo, lascio ai colleghi la parola.

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Silvio Orlando in La Scuola (1995). Fonte MobyFlick.it

Mi chiamo Enrico, insegno italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I grado. Sono un insegnante di ruolo.

Mi chiamo S., insegnante di sostegno in una scuola secondaria superiore, precaria.

Mi chiamo C., insegno italiano, storia e geografia alle scuole medie e sono di ruolo.

Fabrizio, insegno italiano nella scuola secondaria di secondo grado. Sono di ruolo.

La prima domanda è quasi obbligata: cos’è cambiato nel tuo lavoro dal giorno della chiusura?

Fabrizio: È cambiato praticamente tutto, dagli orari alle modalità di lavoro, dal rapporto con gli alunni e le alunne alla preparazione delle lezioni. Soprattutto è stato necessario ripensare la didattica: di fronte a una situazione inedita e straordinaria come quella che stiamo vivendo non si può rispondere con misure ordinarie. Ma non è facile ripensare il proprio modo di lavorare e pertanto si procede per tentativi ed errori.

S.: Pensavo di scrivere che è cambiato tutto. In realtà, a pensarci bene, non è vero. Tra la disposizione di chiusura delle scuole e l’attivazione della didattica a distanza (DaD) per me non sono passati che un paio di giorni. Subito ci siamo organizzati per avviare la didattica a distanza e, utilizzando una piattaforma che permette di creare una vera e propria classe virtuale, continuiamo a vedere i nostri studenti tutte le mattine, praticamente rispettando l’orario che avevamo durante il normale svolgimento delle lezioni. Il contatto è mantenuto, così come la complicità, la voglia di scherzare insieme e molte delle dinamiche tipiche dell’ambiente classe. In questo, fondamentale è la collaborazione e la motivazione degli alunni. Certo, vedersi tutte le mattine a scuola è tutta un’altra storia.

Enrico: Il cambiamento più evidente è la totale scomparsa di ogni supporto fisico, materiale. Direi che sono scomparsi, prima di tutto, i fogli, le penne, i quaderni, gli astucci e i temperini, oltre che ovviamente i corpi dei ragazzi e dei colleghi e gli spazi fisici. È stato tutto sostituito da una riproduzione di questi in formato digitale.

C.: Una parte fondamentale del nostro lavoro, quella dei rapporti umani, di fiducia, di aiuto e soprattutto di vicinanza agli studenti più fragili è messa in crisi dalla didattica a distanza. La situazione è ovviamente migliore se si conosce già la classe e quindi si è già creato un legame con tutti gli studenti e una collaborazione con le famiglie. Gli studenti rispondono positivamente, hanno voglia di fare, di sperimentare, di esserci ed è importante che percepiscano la stessa voglia da parte dell’insegnante. Questa è una grande prova per tutti e senza il supporto delle famiglie risulterebbe impossibile poterla affrontare (trattandosi di scuole medie, dalla prima alla terza classe il livello di autonomia cambia notevolmente).

Pensi che la scuola fosse preparata ad affrontare questa situazione?

Fabrizio: La scuola, come la sanità, la politica e la società, non era pronta, in nessun senso; non poteva d’altronde esserlo e non potrà in un certo senso mai esserlo: la didattica è fondata sulla relazione e questa non può essere coltivata a distanza se non in forma superficiale.

S.: Se penso alla mia scuola non la considero del tutto impreparata. Se invece penso alla Scuola italiana ritengo che lo fosse del tutto. Dal mio punto di vista si è fatta evidente la spaccatura che c’è tra la realtà scolastica del nostro Paese e la bellissima teoria che ci presenta una scuola smart, digitale, inclusiva, aperta a innovativi metodi e ambienti di apprendimento e che appartiene alla nostra formazione grazie, tra l’altro, ai leggendari 24 cfu (crediti richiesti tra i requisiti di ammissione al concorso docenti, ndr). Questi cfu sono merce strana: necessari, indispensabili, tanto da spingerci a una corsa contro il tempo che ci ha portato solo a dilatare un’attesa senza conclusione. E poi non più così tanto importanti (ma sempre meglio averli che non si sa mai…).

Enrico: Non credo che nessuna scuola fosse preparata a gestire una situazione che risultava essere, fino a non più di due mesi fa, impensabile anche per le menti più fantasiose. Mi ha stupito la velocità con cui la scuola in cui lavoro si è riadattata alla nuova situazione utilizzando i mezzi digitali di cui disponeva. Ho considerato finora quest’aspetto come un aspetto positivo; scrivendo però mi domando: vuol dire forse che ci stavamo già avviando verso una strada di didattica a distanza, anche in tempi in cui quest’esigenza ancora non c’era? La polemica sul fatto che il nostro sistema pedagogico dimentica i corpi è lunga quanto la storia della scuola.

C.: Difficile rispondere a questa domanda perché in Italia la scuola sono LE scuole. È il contesto che fa la differenza: alcune scuole avevano già attivato modalità di didattica a distanza, altre no; in alcune zone del Paese la rete Internet è facilmente accessibile, in altre no; non ovunque le famiglie sono dotate di strumenti tecnologici; fino ad arrivare ad alcune periferie nelle quali il problema più grande è l’abbandono scolastico a prescindere dal mezzo con cui si fa lezione.
Il mio è un caso fortunato perché la mia scuola aveva già attivato strumenti come Google Classroom e la maggioranza degli alunni e dei docenti aveva già avuto modo di sperimentarne le potenzialità. La difficoltà iniziale nell’abituarsi ad una didattica completamente digitale c’è stata, ma siamo entrati a regime in poco tempo. Non sono mancati casi difficili in ogni classe, alunni non facilmente raggiungibili, problemi di strumenti tecnologici o connessione Internet, ma tutto sta rientrando con i fondi stanziati dal Governo e molte telefonate alle famiglie.

Che rapporto c’è con i ragazzi?

Fabrizio: Ho avuto esperienze più o meno positive, ma in generale il rapporto è rimasto sostanzialmente immutato. Certo, sarebbe stato peggio se il lockdown ci avesse colto a inizio anno scolastico, quando ancora la relazione con le classi (specie con le prime) non si era instaurata. Per questo sarebbe ancora più pernicioso se lo scenario dovesse ripetersi a settembre, e speriamo davvero di no. La principale difficoltà consiste nel dialogare con i ragazzi, nel suscitare il loro interesse, la loro partecipazione: dietro allo schermo si sentono in qualche modo sicuri, quindi perché rischiare? Dal nostro punto di vista è difficile anche sollecitarli, perché non conosciamo il loro stato emotivo, la condizione nella quale si trovano in casa, il livello della loro ansia, delle loro preoccupazioni. Di conseguenza risulta arduo avere da parte loro quei costanti feedback che in classe permettano di ricalibrare costantemente la lezione nel suo svolgersi.

S.: Il rapporto con i ragazzi passa attraverso canali nuovi. Ma c’è. In un mondo in cui amicizie e relazioni amorose sopravvivono a distanza, grazie ai social ad esempio, non vedo perché non possa farlo la condivisione del sapere e la motivazione per imparare insieme.

Enrico: Mi sento di dire che si sia instaurato un rapporto di maggiore solidarietà ed empatia con i colleghi e anche con gli studenti; soprattutto all’inizio, appena chiusa la scuola, abbiamo sentito tutti, almeno così sento di poter dire, la necessità di mantenere il contatto con colleghi e ragazzi, di non perdere il filo del discorso. Io ero disposto a correre il rischio di far cadere molte barriere che prima non avrei mai pensato di superare: ho contattato i ragazzi via WhatsApp, telefonato ai colleghi anche a tardi orari. Dopo quasi un mese e mezzo sembra tutto mescolato: abbiamo visto le camere dei nostri alunni, loro hanno visto le nostre case, abbiamo visto il salotto dei nostri colleghi; il tempo scuola non è più così distinto dal tempo privato. Penso che questi stravolgimenti abbiano degli aspetti negativi ma anche positivi. Certo alcuni spazi di non-scuola dovranno essere riconquistati, sia da parte nostra che degli alunni. Sono curioso di sapere come quest’esperienza cambierà i nostri rapporti al ritorno a scuola.

C.: Gli studenti stanno dimostrando grande senso di responsabilità, voglia di mettersi in gioco, entusiasmo nel partecipare alle video-lezioni, nel poter vedere i compagni e anche gli insegnanti. Entrano in queste classi virtuali salutando, augurano una buona giornata a fine lezione e ringraziano tantissimo, per ogni cosaun’insegnante sa quanto siano preziosi e rari questi gesti nella quotidianità dei giorni scolastici.

didattica a distanza
Foto pubblicata su Flickr

E con i colleghi?

Fabrizio: Ci siamo trovati sulla stessa barca e quindi sono stati necessari maggiori momenti di confronto (informale) per individuare buone pratiche e qualche strategia comune. Ma è difficile da questo punto di vista confrontarsi con chi tra loro fa finta che nulla sia cambiato e procede con le medesime dinamiche dell’insegnamento in presenza.

S.: Con i colleghi tante sorprese, alcune conferme. Prendiamo il positivo e scartiamo la pedanteria. Bisogna però ammettere che sta anche a noi in prima persona saper riconoscere punti di forza nel confronto con gli altri docenti e incanalarli per ottenere la giusta sinergia. Riconosco oggi negli insegnanti l’umiltà di mettersi in gioco in un campo quasi totalmente nuovo.

C.: Sento alcuni colleghi quotidianamente, anche più volte al giorno. Il confronto è diventato vitale e si è riscoperta anche una complicità e una vicinanza che forse prima si davano per scontate salutandosi velocemente nei corridoi. Monitoriamo le attività degli studenti e ci aggiorniamo sulle presenze alle video-lezioni. Le chat di WhatsApp dei gruppo docenti sono diventate pagine di un diario di viaggio aggiornato, più che giorno per giorno, minuto per minuto (con commenti come “Evviva lo studente X si è connesso alla mia video-lezione” oppure “Lo studente Y ha avuto improvvisamente un guasto al microfono quando ho chiesto l’analisi logica… tranquilli, il guasto si è risolto quando abbiamo fatto gli auguri tutti insieme alla compagna Z per il suo compleanno”).

Cosa ti preoccupa di più del fare scuola in questo momento?

Fabrizio: Il problema fondamentale di questa modalità didattica è a mio avviso che si muove in senso contrario rispetto a quella che dovrebbe essere una direttrice fondamentale del fare scuola, ovvero occuparsi di chi è in difficoltà, di chi fa fatica, di chi ha bisogno di maggiore cura, sul piano didattico e/o psicologico. Ad alcuni di questi alunni in questo periodo non riusciamo proprio ad arrivare, perché spesso non dispongono dei mezzi necessari per seguire le lezioni; ad altri arriviamo poco; ad altri ancora possiamo anche, tecnicamente parlando, arrivare, ma in maniera debole, inefficace, superficiale. Non dico che questo vanifichi tutti i nostri sforzi, ma è un enorme gap che andrebbe maggiormente messo in luce dai tanti “integrati” che pontificano in queste settimane sugli splendori della didattica a distanza.

S.: Quello che mi preoccupa di più al momento è che la didattica a distanza venga sottovalutata e che non se ne colga a pieno il potenziale. Che questa necessità presente non venga considerata un’opportunità ma una sorta di ripiego, non credo che lo sia. La reputo infatti una sfida, per certi versi necessaria. Per una categoria come la nostra, che vede la crescita e l’apprendere al centro della professione, questo è solo un ulteriore sviluppo. La vera criticità è in quelle realtà nelle quali i ragazzi non hanno a disposizione la strumentazione necessaria (e anche i docenti sì, perché molti di noi sono precari e con una disponibilità economica limitata e discontinua per varie ragioni). Mi preoccupa anche il non sentirmi umanamente affiancata e sostenuta da un Ministro saggio: se da una parte si spinge affinché la scuola italiana si dimostri adeguata nella DaD, al pari di altri paesi europei, dall’altra si continua a parlare di bandi di concorso quando la maggior parte di noi, anelanti una cattedra sicura, sono impegnati 10-12 ore al giorno tra computer e telefono per portare avanti il lavoro. E non mi lamento di questo impegno, anzi, mi piace. Ma vorrei poterlo portare avanti tranquillamente, senza ansia da prestazione e senza paura della frustrazione. Che i concorsi si facciano, ma che ora si rispetti chi lavora con sana responsabilità.

Enrico: Ciò che mi preoccupa di più è perdere per strada alcuni alunni. Ho anche il timore che qualche collega, tornati a scuola, possa dire: “Che bella la didattica a distanza!

C.: L’unica mia preoccupazione riguarda gli studenti fragili e in difficoltà, quelli che è difficile raggiungere. La conquista più grande è riuscire, tramite le famiglie, a farli parlare con i compagni, farli partecipare anche se per pochi minuti alle videolezioni, mandare anche dei semplici audio che loro possano ascoltare. Cerchiamo di rimanere in contatto anche con tutti gli specialisti che li seguono, siano essi psicologi, neuropsichiatri, logopedisti. Non ho altre preoccupazioni perché so che, se staremo tutti bene, questo momento ci insegnerà tanto, ci unirà molto e ci mostrerà che la scuola, anche con pochi mezzi o con mezzi non convenzionali, è una grande comunità fatta di persone, di affetti e di legami prima che di contenuti. 

Che prospettive ci sono per la scuola (e per il tuo lavoro)  quando la quarantena sarà finita?

Fabrizio: Credo che la scuola tornerà alla normalità in maniera graduale. L’esperienza della didattica a distanza ci ha in qualche modo segnato, anche se non saprei precisare in che modo. Certamente ci potrebbe essere un maggiore impulso all’utilizzo di tecnologie e dunque di metodologie innovative, come la “classe capovolta”. Si potrebbe pensare di riutilizzare i materiali audio-video e le schede che abbiamo prodotto in questo periodo per fare studiare i ragazzi a casa, prevedendo poi un momento in classe di discussione o lo svolgimento di test ed esercizi. Di sicuro insegnanti, alunni e genitori saranno tutti più avvezzi alla tecnologia. Inoltre se la distribuzione dei device sarà davvero avviata, anche gli alunni che non abbiamo potuto raggiungere in questa fase saranno inclusi in nuove forme di apprendimento. Qualunque prospettiva si realizzi, tireremo tutti un sospiro di sollievo quando rientreremo in classe.

S.: Come già accennavo, sono un’idealista e davvero spero che la crisi produca un cambiamento positivo. Forse sarà un’illusione, ma utile a farmi essere motivata. Dunque va bene così.
Intanto continuiamo a fare il nostro lavoro, a stare vicini ai nostri ragazzi. Con la speranza che questa nuova elasticità possa accompagnarci anche nel lavoro in classe, una volta tornati alla “vecchia normalità”.

Enrico: Non saprei. Come detto, penso che dovremmo guardarci bene dal celebrare la comodità e l’efficacia della didattica a distanza. Anzi, al contrario, mi piacerebbe che questa possa diventare l’occasione per una riconversione: potremmo vivere con rigetto l’abuso del mezzo informatico e riscoprire la bellezza della relazione interpersonale, dell’uso e del valore dei materiali veri e non surrogati. Quando ci rivedremo, immagino, anzi, mi auguro a questo punto, a settembre, ci saremo comportati per mesi “come se” fossimo stati a scuola. Il mio desiderio è che quando torneremo avremmo la lucidità di riconoscere il senso più autentico di fare scuola e spazzeremo via le tante sovrastrutture inutili e i tanti “come se” che abbiamo accumulato in decenni di attività scolastica ininterrotta. Spero riusciremo a resistere alla tentazione di riprendere in fretta le vecchie abitudini e, invece, saremo capaci di tentare strade nuove, felici e incoraggiati dalla vicinanza ritrovata del post-epidemia.

C.: Non so fare previsioni, perché purtroppo questo momento ci ha insegnato l’incertezza di ogni previsione. Posso dire che quando la quarantena sarà finita riprenderò il mio lavoro con lo stesso impegno e la stessa passione di prima; che conoscerò meglio i miei studenti e loro conosceranno meglio me; lo stesso vale per i colleghi. La scuola non si fermerà perché è un bene essenziale, anzi, forse è proprio in questo momento che ce ne stiamo accorgendo. Quanto vale stare con gli altri, conoscere nuove cose, imparare ad essere dei cittadini, condividere, ascoltare le parole di un insegnante che ci ispira, ascoltare quelle di un insegnante che non ci ispira, sentire la campanella dell’intervallo, andare in palestra, uscire in giardino, fare esperimenti scientifici, realizzare lavori di gruppo, andare in gita. La scuola resiste, perché in fondo alla sopravvivenza è abituata.

Immagine di copertina di Nenad Stojkovic

 

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