L’emergenza richiede soluzioni straordinarie, soprattutto quando il “nemico” è minuscolo, impossibile da vedere e così arduo da “sconfiggere”. Di fronte a qualcosa di così grave e a cui siamo così impreparati, come nel caso del Covid-19, viene a mancare anche il linguaggio che diventa, come in questi giorni, improvvisamente bellico e declina tutto ciò che accade in termini di battaglia, guerra, trincea, nemico, eroe. Dalla caccia al runner fino all’invocazione dell’esercito per le strade, è forte oggi in Italia la domanda di controllo e sorveglianza, anche tecnologica.
La Regione Lombardia in collaborazione con le compagnie telefoniche ha monitorato, per esempio, gli spostamenti della popolazione tramite l’allacciamento a celle telefoniche differenti. In diverse Regioni, le polizie hanno iniziato ad utilizzare i droni per monitorare i comportamenti dei cittadini e il rispetto delle ordinanze, una pratica autorizzata dall’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile. Si stanno cercando anche nuove soluzioni: il Ministero per l’Innovazione ha promosso, infatti, l’iniziativa “Innova per l’Italia”, una sorta di open call rivolta ad aziende, università e altri enti che possano fornire un contributo a livello di nuove tecnologie per l’emergenza in corso.
Contemporaneamente crescono i promotori dell’adozione di quello che viene definito il “modello” della Corea del Sud per limitare il virus. Nel Paese asiatico, come spiega Il Post, è stata messa in atto una strategia che prevede una combinazione di azioni tra cui test su una percentuale ampia della popolazione e un sistema di sorveglianza che che prevede la raccolta di dati da reti cellulari, GPS, transazioni con carte di credito e telecamere di videosorveglianza. Gli incoraggianti dati sudcoreani, a maggior ragione mentre la situazione in Italia è grave, fanno sì che in molti chiedano un maggior controllo degli spostamenti della popolazione – pensando più al vicino di casa ipoteticamente negligente che alla reale necessità di chi ha bisogno di spostarsi e lo fa in sicurezza. “È ovvio che in un momento come questo il diritto alla salute abbia la priorità”, riflette Philip Di Salvo, giornalista e ricercatore (si occupa di whistleblowing, giornalismo investigativo, sorveglianza di Internet e relazioni tra giornalismo e hacking), “ma ciò non significa che il diritto alla privacy non sia fondamentale.” In periodi di emergenza è fisiologica una compressione dei diritti civili, tuttavia la modalità attraverso cui certe iniziative, anche invasive, sono prese può fare la differenza, in democrazia.
“Siamo in guerra, niente privacy” titola, invece, un articolo comparso su La Stampa lunedì 23 marzo, a cui fa eco un sondaggio pubblicato su La Repubblica (condiviso su Twitter dal giornalista Fabio Chiusi) che mette in contrapposizione “Libertà” e “Sicurezza”. La vulgata sembra suggerire che l’una e l’altra possano convivere, ma – fermo restando la gravità straordinaria della pandemia da Coronavirus – sembra che con troppa leggerezza si stiano cedendo pezzi dei propri diritti fondamentali senza esserne quasi consapevoli. “Sembra che la privacy sia un lusso, un vezzo e non un diritto di ciascuno di noi, e c’è bisogno di capire che limitarla è rischioso. L’esperienza suggerisce che quando si apre la porta a sperimentazioni di questo genere, senza definire cosa si andrà a fare, diventa poi molto difficile chiuderla.”
La questione è delicata e intreccia differenti piani: quello legale (per cui ci si domanda se è lecito utilizzare un determinato strumento per raccogliere i dati personali e a cui risponde bene questo articolo pubblicato su Valigia Blu), quello tecnico (per cui ci si chiede se esiste la tecnologia adeguata per ottenere un certo obiettivo), ma anche quello che possiamo chiamare democratico. “Prima di pensare alla cessione dei dati personali” riflette ancora Di Salvo “dovremmo chiederci che importanza diamo ad essi. Il processo di dataficazione della società è stato subito più che condotto. È avvenuto, non è stato negoziato e, in momenti come questo, si sente forte l’assenza di una visione condivisa sul ruolo della tecnologia.” Appare palese, in questa situazione, il deficit di una cultura della Rete che si manifesta nell’inconsapevolezza di cosa si condivide online, di quali sono i dati che già cediamo alle media company da Facebook in poi. Una situazione su cui, forse, oggi non c’è modo di agire, ma che potrebbe diventare problematica allargando la prospettiva e guardando al futuro, anche prossimo.
Come sottolinea il professor Scott Radnitz, politologo della Washington University, “nessuno discute sulla forza maggiore. Il punto è che quando un governo sviluppa nuove forme di controllo sociale, non gli è sempre facile tornare indietro.” Un rischio confermato anche da una riflessione comparata con quanto accaduto negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, l’unica esperienza che si può accostare, in termini di impatto sulla società a livello globale in termini di sorveglianza e tecnologia, all’emergenza dettata dal Coronavirus. Philip, che da anni si occupa dell’argomento, ci spiega come “l’emergenza sia durata due decenni dopo l’attacco alle Torri gemelle. Pensiamo al caso Snowden, ma in generale si è assistito ad una progressiva erosione dei diritti civili e ad un rafforzamento della sorveglianza nel nome della guerra contro il terrore.”
È cruciale, dunque, sviluppare dei dispositivi di “resistenza”, una forma di controllo e verifica che monitori la compressione dei diritti civili. “Ciò non significa che il ricorso a sistemi di sorveglianza tecnologica (a partire da quelle già disponibili in Italia, analizzati da Wired, ndr) sia necessariamente sbagliato in ogni caso, ma che in un clima fortemente polarizzato e caratterizzato da un linguaggio di guerra è facile portare l’esercito in strada e attuare misure di controllo totale, e farle passare come normali. Penso che questo non renda giustizia all’intelligenza del Paese. Non escludiamo l’impiego di soluzioni innovative per arginare il contagio, ma ciò deve avvenire entro paletti tecnici e giuridici. Non è sufficiente dire ‘Siamo il Governo, fidatevi di noi’, ci vuole un libretto di istruzioni per i cittadini.” L’obiettivo è che ciascuno sia consapevole di che trattamento viene fatto dei propri dati, quali vengono utilizzati, per che periodo di tempo, a che scopo. “Non illudiamoci, finendo in quello che viene chiamato determinismo tecnologico, che attivare una soluzione tecnologica sia sufficiente a risolvere un problema. Così come” aggiunge Philip “non cadiamo nel tranello, come scrive Yuval Noah Harari sul Financial Times, che oggi non stiamo facendo qualcosa per via della privacy.”
Qualcosa si sta facendo è, molto probabilmente, verrà fatto. Certo, come precisa la Ministra Paola Pisano a Radio24, sarà necessaria l’approvazione dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali che, attraverso il garante stesso Antonello Soro, ha specificato che “vanno studiate però molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologia solo perché apparentemente più comoda, ma valutando attentamente benefici attesi e ‘costi’, anche in termini di sacrifici imposti alle nostre libertà”. Senza dimenticare che, come ribadisce Philip, “il rischio è che ci sia un’invasione eccessiva che può portare ad abusi e a punti di non ritorno.”
Angela Caporale con la collaborazione di Roberto Tubaldi
Un pensiero su “Di sorveglianza, privacy e (quel che resta dei) diritti civili”