Tra i numerosi danni collaterali del Covid19 annoveriamo anche i due articoli scritti da Giorgio Agamben sul tema: uno sul quotidiano “il manifesto” e l’altro pubblicato sul sito della casa editrice maceratese Quodlibet. L’occasione era troppo ghiotta, ci è impossibile negarlo, affinché il noto paradigma dello “stato di eccezione” del filosofo romano non venisse applicato alla nostra attuale condizione: esseri umani quarantenati.
Nel primo articolo, il Nostro, non si esime da (affrettate) considerazioni sul “virus corona” (sic!), e con parole forse troppo poco ponderate liquida la questione definendola, prima, una epidemia inventata (“l’invenzione di un’epidemia…”) e, poi, facendosi forza del vaticinio oracoleggiante del CNR – aggiunge che “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”. Ma la vera leggerezza è il completely missing the point relativo alla situazione emergenziale: la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale, e non il timore per un virus che viene ancora considerato – sia da Agamben sia dalla realtà delle cose quando le acque saranno più chete – come un “semplice” (ma non banale) virus influenzale decisamente aggressivo. Ora, il fatto che Agamben non sia un epidemiologo pare abbastanza pacifico. Meno pacifico, invece, ci appare il perché occuparsene in questi termini perentori, scadendo nel pressapochismo e nella fallacia ad auctoritatem con il CNR, per tacere dell’accusa di complottismo sulla invenzione della epidemia… Ma ciò che stona maggiormente è la défaillance che sembra aver avuto l’autore di Homo Sacer nell’applicare il suo cavallo di battaglia – lo stato di eccezione, si diceva – al caso concreto e attuale. Prima di vedere perché, un agile riassunto di questo importante concetto, che per comodità sarà abbreviato con SDE.
Lo stato d’eccezione secondo Agamben
Il “vero” centro della teorizzazione (ma sarebbe meglio dire, con un funambolismo linguistico agghiacciante: la normativizzazione) agambeniana dello SDE risiede nei vulnera paradossali e aporetici che si generano tra la possibile legittimazione di questa condizione emergenziale e la sua intrinseca anomia giuridica illogica (su questo punto risultano più che decisivi i capitoli Gigantomachia intorno a un vuoto e Festa, lutto, anomia contenuti nel secondo capitolo dell’epopea dell’Homo Sacer: Iustitium. Stato di eccezione). Non è rilevante, qui, snocciolare tutti i nodi relativi alla questione, portati avanti con un dialogo teoretico sostenuto fra Agamben e i due fuochi principali della quaestio: Carl Schmitt e Walter Benjamin. Ci limitiamo a descrivere lo SDE in soldoni.
Lo SDE è, schmittianamente, la “forma legale di ciò che legale non è”. I governi, durante situazioni di emergenza assoluta (vera o presunta), sospendono in larga parte i propri diritti costituzionali di cui, paradossalmente, dovrebbero essere i garanti principali. Questa situazione porta ad una piena e totale legittimazione, per esempio, dell’uso della violenza o di metodi repressivi di contenimento e di limitazione della libertà altrui (come nel caso di una quarantena coercitiva) da parte dello stato stesso.
Per Agamben, lo SDE si presenta come il “paradigma di governo che domina la politica contemporanea”. Viene sistematicamente adoperato come autolegittimazione del potere costituito per perseverare i propri fini. Lo SDE attraversa col suo moto carsico tutta la storia dell’Occidente (“e dell’Oriente?” verrebbe da chiedersi in questi giorni) dal diritto romano alla Rivoluzione francese, sino al Nazismo e all’era Bush (figlio). Analizziamo brevemente questi ultimi due casi.
Nel Nazismo è abbastanza semplice riconoscere lo SDE. Semplice sì, ma fino a un certo punto. Chiosando rapidamente una questione che non ci riguarda, ma citata per sottolineare la complessità della materia analizzata, se lo SDE è questo costante flirt fra legge ed extra-legge, fra dittatura e democrazia, allora pare assai difficile notarne l’aspetto problematico – sul versante giuridico – quando si parla di una dittatura de facto. Ma, ripetiamo, non ci interessa ora. Come si concretizzata l’eccezionalità nel periodo nazista? La misura più eclatante verte su quel numero che conosciamo tutti molto bene: 6 milioni. Il lucido programma di “igiene” nazista rappresenta uno dei più drammatici ed esemplari casi di SDE: l’eliminazione fisica di avversari politici, motivata dalla personale Kampf del Führer e della ideologia hitleriana. Gli ebrei nei lager erano, detto con un termine cruciale, “nuda vita”.
I greci avevano due modi principali per riferirsi alla vita: bios (la vita “qualificata”, la vita dell’uomo come animale sociale e politico) e la zoé (la nuda vita stricto sensu – ma non nella accezione agambeniana – vale a dire la vita biologica, al suo stato meramente vegetativo, che accomuna uomini, animali bruti e piante). La “nuda vita” dell’homo sacer – che certamente parteggia più per la zoè seppur non identificandosi con essa, errore assai comune anche tra i lettori più attenti – è la vita “biopolitica” e “politicizzata” del corpo umano, fortemente passibile, in condizioni di eccezione, di sacrificio per scopi, per l’appunto, politici. Il lager è lo SDE per eccellenza: dove l’eccezione diventa norma, ma palesandosi sempre come vigile eccezione.
La nuda vita è il fondamento dello SDE, la possibilità dunque di fare dell’uomo carne da macello per perpetrare sordidi fini politici. Detto con parole sue: “Lo stato di eccezione, su cui il sovrano ogni volta decide, è appunto quello in cui la nuda vita, che, nella situazione normale, appare ricongiunta alle molteplici forme di vita sociale, è revocata esplicitamente in questione in quanto fondamento ultimo del potere politico” (Mezzi senza fine, p. 12).
Particolarmente interessante è anche il caso statunitense e lo SDE durante un’altra eccezionalità: il terrorismo. Certamente lo Stato può combattere la violenza ordinaria attraverso i metodi previsti e legittimati giuridicamente, ma un attacco terroristico – invece molto più simile ad una condizione di guerra imminente, seppur più subdola, pervasiva e paralizzante – si declina più facilmente con lo SDE. Il caso preso in questione è noto: i detenuti a Guantánamo, anch’essi privati della loro libertà e ridotti a nuda vita.
L’inferenza da questa peculiare visione del potere fino all’attuale condizione italiana è abbastanza facile. Le accuse e i rilievi di Agamben – la “vera e propria militarizzazione” e le “gravi limitazioni dei movimenti” con la “sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni” – rappresenterebbero il più scolastico ed evidente riconoscimento dello SDE ora in atto in Italia. Ma è davvero così?

Nei casi citati precedentemente quello che emerge – a patto di avere una concezione del potere machiavelliana – è la utilitas del potere dominante. Il Nazismo uccide e stermina gli ebrei poiché li considera inequivocabilmente degli avversari politici; Bush e il governo americano consideravano a pieno diritto i detenuti a Cuba come veri e propri “enemies of the United States”. Ciò che spicca, con la utilitas, è anche una indubbia strategia di perseguimento dei propri fini, una pro domo mea che se è discutibile per noi sudditi, non lo è certo per lo Stato che opera in tale direzione, e che la ritiene fondamentale soprattutto per la tenuta nazionale.
Ora, questo è veramente applicabile al caso italiano? Le cassandre a poco prezzo sono sempre esecrabili, ma viene da chiedersi: come ne uscirà l’Italia al termine di questa quarantena? La risposta è ovvia: distrutta economicamente e con le ossa rotte. Se nell’attuale nostra condizione politica – esseri umani del tardo capitalismo – l’unica stella polare è quella del (vile) danaro, allora come legittimare una scelta di questo tipo, così antitetica alla propria piramide assiologica?
Perché, ed è evidente, il contraccolpo economico dovuto all’immobilismo produttivo sarà senza pari. Ha quindi senso parlare di perseguimento dei propri fini? O forse chi ci sta perdendo è proprio quello Stato che avrebbe dichiarato un (presunto) SDE?
Non qui, ma altrove?
Negli anni che ho scialacquato a studiare filosofia ho imparato una cosa: la filosofia è un gioco. Certo, un gioco “per grandi”, ma proprio per questo con delle regole che è bello sovvertire. Proviamo a ragionare lateralmente con il paradigma agambeniano, osservando la situazione inglese.
Boris Johnson, in un discorso che è già diventato un pezzo di storia, ha detto apertis verbis: “many more families are going to lose loved ones”. La strategia britannica è chiara e spietata: lasciare tutto aperto, etsi morbus non daretur, continuare a “far girare l’economia” nella City e nella terra d’Albione, e far propagare il virus per tutta la popolazione, al fine di sviluppare una (presunta) immunità di gregge. Mentre tutto il mondo è imbrigliato nelle proprie reclusioni forzose draconiane, improduttivo e inoperoso con l’inevitabile contraccolpo economico attuale prossimo venturo, il Regno Unito, con i suoi uffici aperti, continua a fatturare e a produrre, allungandosi in un cruciale vantaggio competitivo. Il completo lassismo strategico suggerito dal Prime Minister nasconde una logica folle, ben riconducibile alla citazione di cui sopra: chi sono i cittadini più deboli ed esposti? I “vecchi” e i malati. Ma i “vecchi” e i malati, considerati sotto il punto di vista dell’economia sia statale sia globale, e cioè come dei meri numeri, sono soltanto un peso. Pure erbacce da estirpare, entità moleste che costano troppo e non producono nulla. Quello che ne uscirà fuori da questo piano – che ha da spartire un poco con il darwinismo sociale e un poco con il malthusianesimo drogato ma soprattutto, e non ho alcun imbarazzo a definirlo così, con un nichilistico disegno eugenetico – è quella di una nazione, ad epidemia superata o ridimensionata, più forte e prospera. Liberata da fardelli gravosi e sempre stata stato produttivo, più degli altri, che la guarderanno tagliare il nastro della maratona. L’unico consiglio di Johnson è quello di “lavarsi spesso le mani con il sapone”, ma più che un consiglio igienico preventivo e difensivo, riecheggia causticamente la ben più nota citazione pilatesca.
Ci troviamo di fronte, dopo questo gioco, ad una rivoluzione copernicana dove i piani sono completamente ribaltati: lo SDE è quello inglese, che si verifica non quando lo Stato interviene massicciamente come un Leviatano, ma là dove lo Stato applica il placet di un laissez-faire.
Forse Agamben ha scritto l’articolo su “il manifesto” un po’ troppo frettolosamente. Non si può non scusarlo, l’occasione era croccantissima e ghiottona per un qualsivoglia filosofo. Questo Covid19 presenta talmente tanti spunti da mettere in imbarazzo qualsiasi tesina tematica da maturità liceale (o da facoltà universitaria à la page, ma questo teniamocelo per noi…). Una assurda pletora di tòpoi: la malattia, la mutazione, la quarantena, la paura, la paranoia, la fobia da contatto, la sinofobia/xenofobia, lo spillover (la tracimazione dell’infezione da animale bruto ad essere umano), la colpa, la lettera scarlatta dell’essere infetti e via via sino a temi sempre più grotesque e weird: il complottismo (dal soldato americano “autoinfettato” con un complesso sistema di leve e specchi al virus uscito dal laboratorio del piccolo sino-chimico in guerra batteriologica con se stesso passando per il solito e mai usurato “il governo non ci dice la Verità”) sino alla soupe di pipistrello (delizioso tema macabro e grandguignolesco, che ecciterebbe molto gli amanti di quello che adesso pare essere l’unico degno filosofo della storia: H.P. Lovecraft). Ma, su tutti e su tutto: il tema del contagio.
Contagio, infatti, è il titolo del secondo intervento del filosofo romano sul tema. Qui, probabilmente imbeccato da qualche allievo, il Nostro opera ora una vistosa retromarcia, omettendo i lapsus e gli errori precedenti. Tutto quello detto finora, tutto quello contenuto nell’articolo giornalistico, è scomparso: nessuna epidemia inventata (anche se viene comunque definita “cosiddetta”), nessuno stato d’eccezione, nessun ridimensionamento del “virus corona”.
L’esergo è uno di quelli che ti fanno sentire male: una bignamesca e ginnasiale citazione manzoniana sulla peste meneghina, mentre sull’articolo – paradossalmente molto più caciarone e pressapochista del primo, seppur più ragionato e meno lasco – è meglio tacere e considerare altro. Mentre lo leggevo, vuoi per suggestione dovuta al sentir parlare in continuazione di virus, la mente è andata al film Parasite. In una scena che è il vero “attimo sfuggente” dell’intera pellicola – quel frame che sussume l’intero senso dei minuti appena trascorsi e dei minuti che verranno – il figlio, Ki-woo, esclama davanti alla nota pietra: “È così metaforico!”
Il problema di Agamben – ma possiamo dire che sia in ottima compagnia – è proprio questo: la fallacia metaforizzante. Moltissime cose sono certamente simbolo, sintomo, immagine e metafora di altro (lo SDE rappresenta bene questa dinamica), ma non tutto lo è; pena lo scadere nel pensiero magico. Le righe dedicate alla “metaforizzazione” di neutre caratteristiche biologiche del virus risultano, in questo, pienamente colpevoli e ridicole. Diciamo neutre proprio perché riguardano il “così vanno le cose”; e cioè la datità della natura delle cose che con grave pena e grandi errori si mette a concetto, come nel caso di Contagio. Insomma, se si parla di istituzioni, Stati e strutture partorite dall’uomo è un conto, se si incomincia ad attribuire significati “metafisicheggianti” alla datità del reale, è un altro. Il dramma che dovrebbe riguardare ogni filosofo è questo: il reato di hegelismo. Lo sciocco hegelismo sotteso nell’articolo quodlibetale trasforma la natura in Geist, rendendo sempre più vivo il motto “tanto peggio per i fatti, se non si accordano col sistema” dello jenese.
Orazio diceva: talvolta anche il buon Omero sonnecchia. E se vale per Omero, figuriamoci per Giorgio Agamben.
Sarà mica un caso che uno degli effetti collaterali di questa quarantena forzata sia proprio la sonnolenza?
Marco Storoni Mazzolani
Copertina: grab da Sincero, di Bugo e Morgan, in cui Cristian Bugatti – per qualche motivo – legge La potenza del pensiero, di G. Agamben (Neri Pozza).