Dieci anni di solitudine: Tell the storm I’m new – cosa resterà di questi anni ’10?

È stato difficile portare questa trilogia di articoli alla sua conclusione: infatti, è marzo e c’è il coronavirus. Qui voglio raccontare quelli che, secondo me, sono i dischi che davvero hanno segnato il decennio terminato poco più di tre mesi fa. Alcuni più simbolicamente di altri: come accennavo nella prima parte, in questi anni ’10 la musica è cambiata, e soprattutto è cambiato il modo di ascoltarla e siamo cambiati noi.

5. Tool – Fear Inoculum

Tutto cambia per non cambiare mai davvero: il quinto disco in studio dei Tool è un pasticciaccio davvero brutto, privo di qualsivoglia coraggio o spinta creativa vera. Ne ho parlato in abbondanza nella mia recensione, quindi non mi ripeterò. Voglio però riflettere sul significato di questo album. Fear Inoculum è il seguito di quasi quindici anni di memizzazione, e il suo ascolto è inevitabilmente influenzato da questo. Volevamo davvero un disco dei Tool a tutti i costi? Perché il prezzo che abbiamo pagato – io e chi lo considera una ciofeca, ma sono convinto che il tempo ci darà ragione, nonostante il Grammy nel frattempo vinto da “7empest” – è davvero troppo alto. Fear Inoculum è il fandom tossico nell’era di internet, è l’ossessione dei fan per avere più materiale dei loro beniamini – e magari di questa ossessione ai Tool non è neanche fregato niente, beninteso! Ma nel quadro complessivo, l’album è una pietra miliare. Un disco che, nell’unica edizione annunciata all’uscita, offre dei parafernalia imbarazzanti a un prezzo assurdo e ingiustificato, eppure si esaurisce nel giro di poche ore (spoiler: nel frattempo è uscita una seconda edizione, decisamente più economica). Un disco contemporaneo – tanto quanto l’arte contemporanea sposta il centro del suo essere dall’azione alla reazione.

 

4. Foo Fighters – Wasting light

Fino a Wasting Light, i Foo Fighters erano un gruppo di successo, sì, ma era impossibile non considerarli come il progetto semi-adolescenziale dell’ex batterista dei Nirvana, nonostante avessero già pubblicato un disco eccezionale e adulto come il precedente Echoes, Silence, Patience & Grace. L’album ha sbancato i Grammy (ne ha vinti 4, e non si è portato a casa Album of the Year solo perché c’era Adele) e ha portato la band a fare il loro tour più imponente fino a quel momento. L’hanno registrato nel garage di Dave Grohl, con equipaggiamento analogico che ha fatto impazzire il povero Butch Vig (produttore di Nevermind), che ormai a malapena si ricordava come usarlo. Bollato da alcuni come un’operazione di marketing nostalgico, questo disco però è una paccata in faccia dall’inizio alla fine, che ha trasformato i Foo Fighters nel colosso dell’intrattenimento che sono ora, e l’ultimo vero baluardo del RUOCK duro e puro (una definizione che loro stessi ritengono ridicola – lo stesso Grohl autodefinisce la sua musica ormai “dad rock”). Wasting Light è un disco puro – un disco che riduce il rock and roll all’osso, ne estrae il senso più genuino e divertente, come pochissimi altri hanno saputo fare.

 

3. Lou Reed & Metallica – Lulu

Che cos’è l’arte? Da secoli, se non millenni, l’umanità si pone questo quesito. L’arte è raccontare qualcosa, in sostanza: sul mezzo utilizzato per raccontare, non ci è data alcuna indicazione specifica. A mio modo di vedere, l’artista puro ha il racconto come unico fine. Al giorno d’oggi, però (cioè: verso la fine del ‘900) molta arte, soprattutto musicale, è diventata un’industria, e sono davvero pochi quelli che riescono a sfuggire alle sue logiche. Lou Reed è da sempre stato uno di questi. È estremamente poetico che il suo ultimo album sia questa improbabile collaborazione con i Metallica, il gruppo metal che ha probabilmente accumulato più accuse di commercialità (spesso a ragion veduta) di tutti. Lulu è stato massacrato praticamente all’unanimità: dal pubblico (costituito, va detto, in larga parte da fan dei Metallica, che però come sappiamo non ci capiscono un granchè, un effetto collaterale dell’essere fan di una band con un batterista che non sa tenere il tempo E DIFENDERLO) e dalla critica. È però piaciuto molto, oltre che al sottoscritto, a David Bowie, che lo riteneva una delle cose migliori mai pubblicate da Lou. Lulu è assolutamente privo di compromessi, essendo volutamente sgradevole e rivoltante. I Metallica vengono lasciati completamente liberi di creare questa tappezzeria ringhiante che serve da sfondo ai lamenti stonati di Lou, ispirati da alcune opere teatrali proto-pornografiche tedesche di inizio novecento. Lulu ha dimostrato, per l’ennesima volta, che essere artisti vuol dire agire coraggiosamente, e raccontare la storia che si vuole nel modo che si vuole. Incluso trasformando James Hetfield in un tavolo (come ringhia lo stesso Hetfield in un pezzettino di canzone memizzato all’estremo – per quanto divertente, decisamente non rappresentativo). La morte di Lou è stata l’addio di un artista rivoluzionario: come disse Brian Eno, The Velvet Underground & Nico (l’album d’esordio di Lou) ha venduto solo 30.000 copie alla sua uscita, ma ciascuna delle persone che ha acquistato quel disco adesso è un critico rock o un musicista rock. Chissà cosa sarà di noi quattro che abbiamo comprato Lulu.

 

2. Beyoncé – Lemonade

Questo è uno dei rari momenti in cui mi vedo costretto ad accodarmi allo stuolo della critica mainstream – una cosa che mi costa parecchio, badate. All’uscita di Lemonade ero piuttosto scettico. Mi chiedevo come fosse possibile che un disco di Beyoncé – una delle Destiny’s Child, con alle spalle del pop un po’ R n’ B di maniera ma non particolarmente esaltante – potesse essere osannato praticamente all’unanimità. Me ne dimenticai in fretta, e solo un paio di anni dopo ci incappai di nuovo, e dopo l’ascolto capii. Lemonade è stato osannato perché è un grande disco (seguito straordinario del già ottimo Beyoncé di qualche anno prima, ho scoperto), oltre che il grande disco di un’artista donna – una categoria che, per quanto più presente nell’hip hop rispetto ad altri generi musicali, viene spesso relegata a macchietta per le ragioni patriarcali che conosciamo, spesso anche rese evidenti dalla misoginia che affiora spesso nei testi hip hop della vecchia scuola. Ammetto che quello che mi ha convinto a dare una possibilità a questo disco è il campionamento di “When The Levee Breaks” dei Led Zeppelin su “Don’t Hurt Yourself” con Jack White – ma gli altri ospiti non sono da meno, con il picco assoluto della devastante “Freedom” con Kendrick Lamar. Il disco racconta la crisi tra Beyoncé e il marito Jay-Z, dalla quale lei esce vittoriosa, nonostante la società giochi contro di lei – così come l’industria musicale, della quale Jay-Z è un colosso. Eppure, lei riesce non solo a rimettere in riga il marito, ma caccia anche fuori un disco epocale, ai limiti del rivoluzionario. Probabilmente l’Horses del decennio.

1. David Bowie – ★

Se qualcuno ha rivoluzionato radicalmente le regole di cosa volesse dire essere un artista – di cosa volesse dire essere una rockstar – più di Lou Reed, quello è stato David Bowie.
La sua morte è stata tanto sussurrata quanto assolutamente radicale è stato il suo ultimo disco, che ha reso arte lo stesso abbandono di questo piano della realtà.
Blackstar (che come titolo vero e proprio ha davvero la stella nera che vedete qui) è uscito due giorni prima della morte di Bowie, seguito del già eccellente The Next Day, apparso quasi magicamente dopo anni di sparizione dell’uomo dello spazio: Bowie ha fatto scelte musicalmente coraggiose in diversi momenti della sua carriera – su tutte, la famosa trilogia berlinese (Low, “Heroes” e Lodger), anticipata dall’epocale Station to Station – ma quelle fatte sul suo testamento spirituale sono semplicemente incredibili. Bowie crea un album progressivo nel senso più diretto possibile del termine, varca i confini della sua stessa musica e accoglie a braccia aperte influenze di una modernità sconvolgente, che fanno sì che il disco non sembri un semplice atto di nostalgia né nei confronti della sua stessa musica né nei confronti del rock and roll dei bei tempi andati (stai ascoltando, Maynard? Spero che tu stia ascoltando). È un disco crudele, di non facile ascolto, a mio parere, per il pubblico che ama “Space Oddity”, “Starman” o anche ““Heroes”” (già più lontana dall’acustica spensieratezza del Bowie più acerbo). È un disco volutamente profetico, che già dalla title track in apertura rivela il suo intento di commiato, reso ancor più chiaro dal video di “Lazarus” e definitivo dalla chiusura dolceamara di “I Can’t Give Everything Away”. L’addio di Bowie, orchestrato sapientemente da lui stesso, che della malattia che lo ha infine portato via ha taciuto fino all’ultimo, è forse lo spartiacque definitivo del ventunesimo secolo pop, l’addio dell’innocenza, la fine della prima grande età dell’oro del rock and roll.

 

Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus

 

[è passato un altro anno, sono successe molte cose. Torno a scrivere per The Bottom Up dopo qualche mese di pausa, più o meno voluta: grazie come sempre a Marta, a tutta la redazione presente e passata, e soprattutto a chi mi legge, vicino e lontano.]

[L’immagine di copertina è dal video di Hold Up di Beyoncé]

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