Dieci anni di solitudine: Zero hour 9 AM –2019

Eccoci arrivati alla fine dell’ultimo anno del decennio.

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“Oh Gesù” cit. La Direttrice

Gli anni ’10 che, per me come per una generosa porzione della redazione di TBU (soprattutto i fondatori, miei coetanei o quasi), sono stati l’arrivo a un’età che dovrebbe essere quella adulta. Dieci anni durante i quali un mondo già cambiato radicalmente negli anni precedenti è cambiato ancora di più. Cosa è successo alla musica in questi dieci anni?

Non cercherò di dare una risposta a questa domanda: non amo particolarmente la musica pop contemporanea per davvero, dunque non credo che potrei capirne veramente il significato. Non si sfugge, però, da questa domanda. La mia risposta arriverà nella terza parte di questa piccola retrospettiva, intitolata “Dieci anni di solitudine” non in rappresentanza di un mio stato d’animo ma a significare una socialità musicale sempre più frammentata e, ahimè, spesso poco significativa, perché, guardiamoci in faccia, la musica è cambiata come sono cambiati il pubblico e l’industria discografica e concertistica.

Detto questo, tuffiamoci a capofitto nei miei 5 dischi preferiti di quest’anno: ho detto i miei preferiti, non i migliori, perché per i motivi di cui sopra non ho ascoltato abbastanza dischi usciti quest’anno per poter offrire un’opinione in quei termini. Volendo, alcune delle mie scelte possono rientrare nella categoria dei migliori dischi metal, ma sta al lettore interpretare. Il punto fermo è che questi sono i dischi che, secondo me, ogni appassionato di musica avrebbe dovuto ascoltare quest’anno. Cominciamo!

5. King Crimson – Heaven & Earth

OK, già dal basso della classifica comincio a barare. Tecnicamente, Heaven & Earth non contiene materiale registrato dopo il 2008. Ma siccome il critico sono io e me ne frego, e soprattutto siccome questo cofanetto mastodontico è uscito nel 2019, merita un posto nella classifica. Il cofanone contiene quasi tutte le registrazioni effettuate da formazioni Fripp-centriche tra il 1997 e il 2008: soprattutto King Crimson, ma anche i vari Projekcts, formazioni devote alla sperimentazione e all’improvvisazione esclusivamente strumentale che l’hanno fatta da padrone tra un LP dei Crims e l’altro. Heaven & Earth contiene ventiquattro dischi (18 CD, 4 Blu-Ray che contengono da soli svariati giorni di materiale audio, e 2 DVD), di materiale in parte edito e in parte inedito o di difficile reperibilità: i due LP in studio The Construcktion of Light (nella versione rielaborata The ReConstrukction of Light, con le batterie riregistrate  causa nastri originali non trovati nell’ambito di una rimasterizzazione) e lo splendido The Power to Believe, a oggi ultimo uscito in studio della band, un disco anni luce in anticipo sui tempi, dal cui ascolto prolungato i Tool di Fear Inoculum avrebbero avuto moltissimo da imparare. In ogni caso, i due CD con le registrazioni del brevissimo tour del 2008, fino ad ora completamente inediti, varrebbero da soli il prezzo del cofanone. Heaven & Earth è l’ultimo di una serie pubblicata da Fripp e soci, adatto ai completisti, inevitabilmente, ma anche a chi vuole conoscere i King Crimson. La totale libertà nella ricerca di sperimentazione da parte di Fripp rende qualunque periodo della band il punto ideale per iniziare.

 

4. Taron Egerton – Rocketman: Music from the Motion Picture

Va bene, va bene: anche qui devo fare una precisazione. Un disco di cover di Elton John non dovrebbe stare su una classifica dei migliori dischi dell’ anno (a meno che non fosse un disco di cover di Elton John fatte dai Primus o dai Behemoth, così, per speziare un po’). Il caso vuole, però, che quel disco sia la colonna sonora di un film assolutamente grandioso, interpretata da un performer grandioso. Rocketman è il biopic su una tormentata rockstar gay che si merita di vincere tutti gli Oscar che quella cosa ignobile che è Bohemian Rhapsody ha vinto. Taron Egerton è un Elton John assolutamente immenso e intenso – e si è anche preso il disturbo di cantare tutte la canzoni del film, con una passione che a stento si è vista nel Freddie Mercury di Rami Malek. Ciò che rende Rocketman un capolavoro è che, per quanto la storia della vita di Elton John sia il perno attorno al quale ruota, non ha pretese di veridicità storica assoluta. È un musical, non una biografia. E anche per questo la scena finale, con Egerton che canta quella “I’m Still Standing” già fatta sua in Sing, sebbene il pezzo fosse stato scritto in un momento diverso della vita di Elton, appare la catarsi naturale della pellicola.

 

3. Rammstein – Senza titolo

Ora cominciamo a fare sul serio. Quando è uscito, avevo pochi dubbi sul fatto che il settimo album dei Rammstein sarebbe stato pericolosamente vicino alla vetta dei miei dischi preferiti dell’anno (ma doveva ancora uscire il nuovo degli Opeth – mentre avevo pochi dubbi sul fato del nuovo dei Tool). Il sestetto tedesco non ha lasciato insoddisfatte le mie aspettative, sfornando l’ennesimo capolavoro, a dieci anni dal precedente Liebe Ist Für Alle Da (visto, Maynard? Se si vuole si può). L’album, senza titolo, non aggiunge moltissimo a quanto già detto, musicalmente, dalla band: eppure aggiunge la maestria di un gruppo che ha ancora abbastanza fantasia ed entusiasmo da cacciar fuori singoloni strappamutande in abbondanza, non avendo mai cambiato formazione e senza aver mai pubblicato un album veramente deludente (tecnicamente Rosenrot è l’unico sotto il livello standard – ma lo ammettono anche loro, che all’epoca non andarono nemmeno in tour per promuoverlo). Se vogliamo, l’unico difetto del disco è che la prima metà e nettamente superiore alla seconda per potenza, cattiveria e divertimento. Pezzi come “Deutschland”, splendida critica storica alla Germania nazista, separata e riunita, “Radio”, ode al potere liberatorio e rivoluzionario della musica, e l’immenso trash di “Ausländer”, seguito spirituale di “Pussy”, entrano direttamente nel repertorio dei grandi classici sfornati dalla band. Ciao ragazza, take a chance on me!

 

2. Opeth – In Cauda Venenum

Dell’ultima osservazione degli Opeth ho già riferito ampiamente qui su TBU, e non vi tedierò ulteriormente. Dopo averli anche visti dal vivo, devo però ancora una volta sottolineare l’importanza di una band come Mikael Åkerfeldt e i suoi sodali nel panorama prog e metal. Devo anche lasciare un avvertimento: diffidate di chi recensisce il disco nella sua versione inglese, trattando la versione originale – quella svedese – come un capriccio da prog nerd. Chi lo fa è un critico scadente e si dovrebbe vergognare per la sua pigrizia e ignavia (“ugh non capisco le parole che schifo meglio restare nella mia bambagia anglofona”), perché non si è neanche preso la briga di fare una rapida ricerca su Google che gli avrebbe permesso di scoprire che per Åkerfeldt l’unica versione valida è quella nella sua lingua madre – che peraltro è uno degli elementi che rendono così magico e unico il disco.

 

1. Lindemann – F & M

Ed eccoci qua, in cima al podio c’è la sorpresa: un disco sul quale non avrei scommesso un centesimo, che invece è riuscito persino a scalzare gli Opeth dal loro primo posto già praticamente in tasca. All’annuncio di un seguito di Skills in Pills, il primo album del progetto di Till Lindemann dei Rammstein e Peter Tägtgren, PAIN e Hypocrisy, mi sono rallegrato perché non vedevo l’ora di ascoltare più Till, dopo il disco dei Rammstein che avevo adorato. Un entusiasmo contenuto, però, il mio: il duo sul debutto aveva fornito una prova non particolarmente esaltante. Certo, era un disco gradevole, ma i pezzi memorabili erano pochi, e spiccava la sola, iconoclastica “Praise Abort”. Un elemento divertente era che Till cantava in inglese, il che toglieva versatilità alla sua voce inconfondibile ma rendeva la sua interpretazione piacevolmente grottesca, con il suo fortissimo accento tedesco. Ecco, non so cosa sia successo tra Skills in Pills e F & M, ma qualcosa dev’essere successo, perché questo disco è intrattenimento allo stato puro. Till, giustamente titolare di fatto del duo, torna al suo nativo tedesco, e la performance ne guadagna notevolmente: probabilmente libero dalle dinamiche della band, sfodera una gamma espressiva inedita persino per lui, vocalmente e letterariamente (?), regalandoci infiniti calembour (perlomeno ai germanofoni tra noi) confermandosi uno dei cantanti più inimitabili del panorama metal contemporaneo. Il comparto strumentale offerto integralmente da Tägtgren è simile a quello dei suoi PAIN (che in realtà è lui da solo tipo un Lenny Kravitz industrial metal), tirato e aggressivo ma emozionante allo stesso tempo. Il disco ha una prima parte costituita da una cannonata dietro l’altra, interrotta dal curiosissimo tango “Ach So Gern” (del quale c’è una versione ‘normale’ nell’edizione deluxe), e una seconda parte più lenta, con le due ballatone “Schlaf Ein” e la conclusiva “Wer Weiss das Schon”. Su tutti i pezzi spiccano l’epica “Blut”, la title track (con un video inquietante e divertentissimo) e soprattutto la sublime “Knebel”, quasi integralmente voce e chitarra acustica: spettrale, angosciante ed emozionante.

 

Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus

[Immagine di copertina dal video di “Frau & Mann”; gif da giphy.com.]
[è molto divertente che il titolo di questo articolo arrivi dal testo di “Rocket Man”, mentre l’immagine di copertina – scelta perchè riferita al primo posto, ma senza essere mega spoiler – ritrae i “rocket men” del video di “Frau & Mann”… mi do una pacca sulla spalla.]

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