In Egitto, negli ultimi anni, l’implementazione dei diritti umani è catastrofica, quasi nulla. Oltre a una diffusa repressione della libertà d’espressione, sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi, il Parlamento egiziano ha approvato una nuova legge che autorizza la censura di massa nei confronti di portali informativi indipendenti e delle pagine Internet di gruppi per i diritti, con il pretesto di sviluppare misure anti-terrorismo. Dal 2017, le agenzie di sicurezza hanno infatti bloccato l’utilizzo di almeno 504 siti web senza autorizzazione e supervisione giudiziaria. In generale, in qualsiasi ambito, politico, economico, sociale o culturale che sia, criticare e attaccare il governo e l’esercito rimane un grande tabù.

Il dissenso popolare egiziano
Sempre più frustrati da queste condizioni, i cittadini hanno quindi iniziato a manifestare un profondo dissenso popolare e a radunarsi, dando vita ad una nuova fase di agitazioni sociali. Le motivazioni sono tante: di carattere politico, ma anche economico e sociale. Negli ultimi cinque anni infatti, il welfare che sostiene sanità, istruzione, infrastrutture pubbliche e servizi è completamente collassato. Questo, associato all’assenza di prospettive e alle quotidiane violazioni arbitrarie da parte delle forze dell’ordine, ha fatto precipitare il tenore di vita della maggior parte della popolazione egiziana al punto che più di 9 milioni di persone sono finite sotto la soglia di povertà.
Consapevoli della critica condizione politica, economica e sociale che caratterizza il paese, alcune migliaia di abitanti si sono riversate in strada venerdì 20 settembre 2019, in seguito alla partita di coppa tra le due principali squadre di calcio, con gli slogan “Dì: non aver paura. Al-Sisi deve andarsene”, “Vattene Sisi” ed “Il popolo vuole la caduta del regime”. Le proteste si sono propagate in città e centri quali Il Cairo in Piazza Tahrir, Alessandria, Suez, Ismailia, Port Said, Damietta, Mahalla e molti altri ancora.
Miccia dell’insurrezione è stato l’appello lanciato da Mohammed Ali, imprenditore edile e aspirante attore ora in esilio in Spagna, che, dopo aver lavorato a stretto contatto con l’esercito, ha iniziato a denunciare la corruzione, le violenze e le nefandezze dello Stato e dello stesso Presidente nell’unico luogo dove è ancora possibile esprimersi in libertà: i social network.
Un’ampia ondata di arresti
La risposta delle forze dell’ordine non si è fatta attendere: da quel venerdì fino ad oggi le autorità egiziane hanno preso la decisione di reprimere militarmente ogni protesta, lanciando un’ampia campagna repressiva. Per impedire l’insorgere di nuove proteste, il 27 settembre la polizia egiziana ha istituito posti di blocco informali in cui agenti ed informatori in borghese perquisiscono senza mandato i cittadini, controllandone anche i cellulari in cerca di contenuti sospetti. Pur con motivazioni infondate, questi controlli portano spesso ad arresti. La maggior parte delle indagini, però, è condotta irregolarmente, in quanto basata solo sulla partecipazione o sulla richiesta di partecipazione a proteste pacifiche, con l’arresto di chiunque sia considerato una minaccia con le accuse di “collaborazione con un gruppo terroristico nel raggiungimento dei suoi obiettivi“, “diffusione di notizie false“, “partecipazione a proteste non autorizzate” e “utilizzo dei social media per diffondere informazioni riguardanti un gruppo terrorista“.

Nonostante la dura censura (anche giornalistica) e i rischi che si corrono a fare informazione in Egitto, si è è venuti a conoscenza dell’arresto di oltre 2300 persone, tra le quali almeno 111 minorenni di età compresa tra 11 e 17 anni. Oltre a esponenti politici, i servizi segreti egiziani hanno sequestrato 10 giornalisti tra cui Khaled Dawoud e Sayed Abdellah; almeno 25 accademici, tra cui i docenti di scienze politiche Hassan Nefea e Hazem Hosny; autori comici e di satira e circa 7 cittadini stranieri, costretti a confessare di cospirare contro il Paese. Sottoposti a misure cautelari vi sono anche avvocati e legali, come Ahmed Sahran e Mohamed Hamdi Younis, entrambi ingiustamente accusati di terrorismo e di rappresentare un rischio per la sicurezza del Paese (tutto questo per aver chiesto al Procuratore generale del Cairo di iniziare un’indagine sulle accuse di corruzione, abuso d’ufficio e malversazione delle politiche di al-Sisi). Vittime della politica del Presidente egiziano sono poi anche ex prigionieri come Alaa Abdel Fattah – attivista politico e ingegnere informatico che aveva già scontato un’ingiusta condanna per aver preso parte, nel 2013, a una protesta pacifica – e Mohamed Ibrahim, fondatore del blog “Ossigeno Egitto”.
Tra le vittime ci sono infine anche organizzazioni per i diritti umani, i cui comunicati stampa sono stati accusati dal Governo di essere politicizzati e privi di fondamento. Questo perché da anni tali organizzazioni sono impegnate nella protezione dei cittadini e dei loro diritti, mettendo in discussione le politiche dello Stato, imputato pubblicamente per il facile utilizzo della tortura, ormai una routine comune in Egitto. In alcuni casi sono state oggetto di forti intimidazioni anche da parte delle forze di sicurezza, come è accaduto ad esempio al centro “El Nadeem”, un centro di riabilitazione per le vittime di violenza.
L’Egitto di al-Sisi si è ormai trasformato in un vero e proprio regime dittatoriale. Sebbene alcuni attivisti ed oppositori abbiano lasciato il paese per la paura di finire in carcere, altri, molti, non si sono fatti intimorire e in nome dei propri diritti sono scesi pacificamente in piazza, continuando coraggiosamente a scontrarsi con le autorità e a difendersi contro le ingiustizie.
Alessia Bertola
Fonte immagini di copertina: Diritti Globali